Helheim – “Yersinia Pestis” (2003)

Artist: Helheim
Title: Yersinia Pestis
Label: Massacre Records
Year: 2003
Genre: Viking/Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Helheim IV”
2. “Yersinia Pestis”
3. “ Stones To The Burden”
4. “Sinners Wake”
5. “Elde”
6. “Warlot”
7. “Den Glemte Lov”
8. “ God Of Slander”
9. “Iron Icon IX”
10. “Hjelmstorm”

I biechi frequentatori delle sonorità più oscure, ma ancor di più quelli che del mondo pagano si sono fatti adoratori prima e fieri soldati poi, sanno bene che al sangue e al fuoco non può che seguire l’ineluttabile morte: è dunque inevitabile che, sui fronzoli liberi e ancora una volta scompaginanti di “Blod & Ild”, gli Helheim calino nel 2003 come implacabili ma chirurgici boia un nero pugno di ferro ammantato di violenza, timore e sconforto dal nome “Yersinia Pestis”. Lo fanno partendo da quell’inestinguibile fonte di ispirazione per anime perse che tra le piaghe mefitiche e le putrescenti secrezioni bubboniche non riescono a non intravedere il morboso fascino di un male il quale, nel suo essere tanto strisciante e cieco, è divenuto attraverso i secoli l’emblema della paura collettiva di popoli e culture disseminate in tutto il globo. Con queste premesse i norvegesi tessono le ruvide trame del loro quarto, impegnativo sigillo: accostando la denominazione scientifica del suo agente patogeno di ottocentesca origine al malanno che nella loro madrepatria adombra di orrore e leggende l’anno 1349, V’gandr e soci compongono un disco che, da un lato, pone dei punti fermi laddove appena prima vi erano stati dei più timidi tentativi e, dall’altro, trasvola ed apre, forse per la prima volta in modo così evidente e consapevole, ad un grandioso e sfaccettato microcosmo dalle diramazioni tanto mitologiche quanto sperimentali.

Il logo della band

Ancora oggi, a più di tre decadi dalla loro formazione, le sfumature ancestrali e multiformi che il nome Helheim rievoca sono legate ad una visione artistica vissuta con l’impeto di un destriero lanciato al galoppo, in bilico fra mondi e tempi sospesi e astratti, ma al contempo dotata di una solidità e di una coerenza innate che spingono i norvegesi a tentare -quasi sempre riuscendoci con grande classe- d’incanalare ogni uscita verso una direzione musicale e lirico-concettuale dai tratti marcati, chiari e distinguibili all’interno della stessa discografia; tanto che, anche soffermandosi sulle primissime opere incise su full-length dall’allora trio di Bergen, scomodando nel farlo una coppia di dischi alla quale oggi viene spontaneo pensare come un nucleo a sé stante per via del peso specifico che a metà anni ‘90 ha avuto nell’evoluzione del filone poi detto Viking/Black Metal, già le soluzioni come le scelte tecniche intraprese dal tonante e acuminato “Jormungand” ai minacciosi ed eleganti movimenti di “Av Norrøn Ætt” differiscono per più di un punto.
Ma la prima evidente scossa avviene non sorprendentemente in concomitanza di quei primi anni del 2000 che vedono quasi tutti i pionieri della via norrena al linguaggio estremo avventurarsi -timidamente alcuni e con decisione talvolta fatale altri- verso lidi musicalmente ancora vergini che possano gratificare ed elevare nuovamente dei musicisti ormai affermati ed in continua evoluzione da quasi una decade, in cerca di una nuova lettura nei confronti del proprio operato in un mondo discografico (e non solo, a ben vedere) il quale in poco tempo così tanto era mutato: un periodo di transizione che vede, anche limitandosi alla sola Bergen, gli Enslaved prendere le nuove vie di “Mardraum” di pari passo con gli Hades che, diventati almighty, già con “Millennium Nocturne” manifestano una crescente e coerente necessità di aria fresca. E se in questo contesto di grande evoluzionismo il passo intrapreso con “Blod & Ild” potrebbe a posteriori e nel confronto diretto suonare quasi cauto, esso innesta in verità un nuovo spirito e delle peculiarità che saranno irreversibili: la necessità d’implementare i due nuovi membri Lindheim e Thorbjørn per tastiere e chitarra solista arriva come mera conseguenza esteriore di una più libera ed eterogenea verve Progressive, che sguarnendo più che mai il muro di scudi che si erigeva in precedenza possa dare vita ad una liquidità inedita, la quale, sebbene venga qua e là imbrigliata da una melodicità che va a castrare la micidiale efferatezza degli esordi, traccerà indelebilmente la via per la loro quarta opera; quel “Yersinia Pestis” su cui le nubi si addensano nere e portatrici di sventura, in cui ogni briciolo di speranza viene spazzato via con il vigore tremolante e nervoso di una vecchia sull’uscio di una casa abbandonata ed ogni orpello viene setacciato dai mortiferi rebbi di Pesta.

La band

Un disco dal discreto travaglio, non di certo compositivo data la sempre formidabile prolificità di casa Helheim, bensì legato ai fin troppo noti intoppi di una Ars Metalli Records tanto abile nello scouting dei più cristallini talenti del periodo quanto poco all’altezza quando si tratta di gestirne le uscite: ma dopo quattro release in appena un lustro (inevitabile considerare l’EP-ponte “Terrorveldet” del 1999 di non trascurabile importanza e riuscita), i tre inverni che intercorrono prima della registrazione di “Yersinia Pestis” forniscono forzatamente un momento per rielaborare quanto sviluppato a testa più bassa fino ad allora; un lasso di tempo tuttavia non di certo vissuto con la serenità della riflessione, bensì tentando tra le altre cose invano di rendere disponibile un nuovo mini dal nome “Helsviti” che uscirà invece a posteriori e in totale sordina, solo nel 2006, e brancolando in cerca di una nuova casa discografica che possa fare loro le veci.
Prima ancora della risposta alla chiamata della Massacre Records, in un’unione nuovamente breve ma che condurrà quantomeno come ponte all’imperituro sodalizio con Dark Essence Records, il grande punto fermo a cui aggrapparsi in un turbinio di sventure è il deus ex machina per eccellenza Pytten; tornando dopo una momentanea separazione, il genio celato dietro i bastioni Grieghallen combina con il quintetto di Bergen una restaurazione propositiva di quella ruvidità sulle corde di matrice bathoriana, in un grattare abrasivo dal suono Allegiance che s’incastona tuttavia in un più ampio quadro compositivo dove ogni riferimento diventa strumento in funzione del tutto. Ed è dunque con una ingegneria sonora rinnovata che, dopo il sussulto straniante di “Helheim IV” (squarcio di nastro su un mondo esaltato ed antinomico dall’odore malsano e degenerato), tutta la violenta crudezza della title-track ci viene scagliata in pieno volto: brutalità quadrata espressa dal micidiale tandem di riff che non disdegnano la semplicità diretta dei power-chord e vocals dal timbro sfrontato e il maligno, in un incedere che sfiora come mai prima di quel momento l’universo Thrash e che riesce anche a convogliare le venature Heavy già presenti nel precedente capitolo verso un’organica iperviolenza.
Così la via intrapresa è un continuo giocare fra lemmi consolidati e libertà compositiva, in un’inventiva che brilla tanto in pezzi come l’assolutamente progressiva “Iron Icon IX” come nella grandiosa conclusione “Hjelmstorm” dove le atmosfere color carbone si mischiano a striscianti giri di organetti teatrali; pur non sfociando quasi mai nell’avanguardia fatta e finita, le canzoni spaziano a destra e a manca sfruttando appieno le peculiarità di membri e strumenti, tra industrialità e sinfonia, con uno spirito naturale che tende all’originalità d’estro dei Thyrfing di “Vansinnesvisor” dell’anno precedente ma con un linguaggio più grave e tombale rispetto all’elastico e fiabesco eclettismo degli svedesi. Ed è proprio grazie a questa particolare vena creativa che le particolarissime idee industriali di Hrymr vengono integrate alla perfezione, sia fra le trame dei cordofoni il cui suono squadrato si rivela particolarmente ricettivo, sia nel caso delle sezioni ambientali già viste nell’introduzione e che si ripresentano in “Warlot”, evolvendo e collaborando con i sintetizzatori di Lindhem; quest’ultimo, qui perfettamente integrato nell’alchimia della band, non solo prende le redini della scrittura per una “Stones To The Burden” fatta di bruschi strappi e rintocchi ovattati nel solco dei primissimi Solefald, ma si rivela di vitale importanza nel donare cromie e varietà ai passaggi composti dai demiurghi V’gandr e H’grimnir. In questo modo si passa da rumorismi industriali celati nel sottobosco di una “God Of Slander”, su tutte, alla sinfonicità secca e nera di “Den Glemte Lov”, in atmosfere che mai e poi mai cedendo comunque alle tentazioni di grandiosità orchestrale ed elettronica dal piglio “Enthrone Darkness Triumphant” o “Nexus Polaris”, ma che trovano la loro dimensione in una più sottile nerezza ibridata di dettagli, a metà strada fra i Satyricon più drammatici e gli Arkona del tandem “Zeta Reticuli” e “Nocturnal Arkonian Hordes”.

Una promozione limitata e la copertina tremendamente figlia della ingenua tracotanza digitale d’inizio millennio non hanno sicuramente aiutato “Yersinia Pestis” a ritagliarsi la fama che avrebbe idealmente meritato, insieme a delle scelte musicali che, per quanto brillanti e perfettamente coerenti con l’evoluzione artistica del progetto, nel 2003 suonano testardamente anti-trendistiche: realmente ardite proprio perché non allineate con gli sperimentalismi del tempo per far breccia nei cuori della critica del periodo, e forse in un certo senso anche troppo poco evidenti, in ombra o persino acerbe per chi invece vi si è approcciato poi, negli anni successivi, alla luce delle loro uscite successive.
Per quanto la quarta fatica degli Helheim sia dunque un disco finito ingiustamente nel dimenticatoio di molti (tra i quali sembra essere inclusa la band), il mélange di stili e suoni solido e sincretico, che pesca per soluzioni e idee dall’intero universo del Metal fino a quel momento conosciuto, e che va persino ad anticipare un modo di declinare il folklore verso lidi estremi che prenderà piede di lì a qualche anno, così come l’apparato lirico che con grande maturità va a tratteggiare un impianto concettuale dalle sfumature oscure e fataliste, lo rendono non solo un passo decisivo e fondamentale nel percorso della formazione, ma un’uscita che racchiude in sé tante caratteristiche che ne fanno in definitiva uno dei più riusciti e longevi della loro opera omnia. In una lunga ed illustre carriera in cui in particolare i primi atti sono caratterizzati da una propensione al cambiamento, “Yersinia Pestis” è infatti e non trascurabilmente la prima interpretazione matura di quel mondo delle idee che il trio, nucleo centrale e cuore pulsante del progetto, avrebbe saputo sfruttare come punti di appoggio negli anni a venire: ben più di un momento di transizione, ma una vera e propria pietra angolare a far da ponte fra gli immortali culti dei ‘90 e gli abbaglianti movimenti di “Woduridar”; fra i tempi bui di un Medioevo mangiato dalla malattia ed una modernità parimenti vissuta fra le più bieche devianze industriali; tra la Norvegia più pura e quella più sperimentale ed ibridata. In tutto ciò, nel 2003, gli Helheim giungono alla prima prima vera sintesi di quel loro inconfondibile e caleidoscopico Norse Metal.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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