Hate Forest – “Innermost” (2022)

Artist: Hate Forest
Title: Innermost
Label: Osmose Productions
Year: 2022
Genre: Black Metal
Country: Ucraina

Tracklist:
1. “Those Who Howl Inside The Snowstorm”
2. “By Full Moon’s Light Alone The Steppe Throne Can Be Seen”
3. “Ice-Cold Bloodless Veins”
4. “Temple Of The Great Eternal Night”
5. “Whiteout Silence”
6. “Solitude In Starry December”

“No honest scientist would deny that consciousness is science’s greatest mystery, that we don’t know exactly how it works. The brain is unquestionably involved but how, we don’t know.” (Graham Hancock)

Nell’oscurità opprimente di una giungla tropicale di conradiana memoria, in quella della letteraria notte senza stelle né fine, nel freddo artico che fa chiudere gli occhi al viaggiatore in cerca di un riposo il quale si tramuterà presto in morte, nel silenzio assordante del vento che sussurra alle orecchie i misteri della solitudine più totale; o nell’oscurità del proprio io, all’interno del sé, dove uno sguardo non basta a risolvere l’enigma della coscienza e della propria consapevolezza – ma dove una sola occhiata può valere quell’indizio apparentemente innocuo, come un segno dalle semplici fattezze primordiali sulla parete della caverna platonica, che dà il via ad una ricerca che durerà una vita. Come impronte lasciate da degli dèi ormai dimenticati: in quella oscurità in cui vengono nascoste e ritrovate, quali segni di una civiltà interiore molto diversa da quella che siamo più soliti definire e ritenere tale; gli indici, gli stessi disegni di ciò che l’uomo può osservare in quello strato di subconscio che le culture di ogni parte del globo sono solite ritrovare e riafferrare solamente con quel processo che chiamiamo trance visionaria.

Il logo della band

In quella oscurità, totalmente indipendente del resto dalle differenze culturali del singolo come del suo collettivo, condivisa altresì dall’umanità intera in quanto chiave per l’accesso allo stato alterato di coscienza (quello che il ricercatore e scrittore britannico Graham Hancock è solito paragonare, in spiegazione del portento, al cosiddetto fenomeno entoptico: effetti visivi la cui fonte è all’interno dell’iride stessa facilmente ricreabili alla chiusura degli occhi dopo essere stati esposti ad una fonte di luce), “Innermost” dipinge senza requie quel disegno che Roman Saenko può aver visto solamente in un profondo rapimento di visioni indotte dalla pura dissociazione col circostante. In un certo senso dunque apparentemente lontano da quella via di mezzo tra il teriomorfismo e la teriantropia esplorata nel bagaglio musical-culturale di “Hour Of The Centaur”, ma allo stesso tempo vicinissimo a quelle entità impalpabili già richiamate su roccia viva dalle tecniche stilistiche impiegate dagli Hate Forest ormai prossimi ai venticinque anni di produzione, anche oggi da ritrovarsi in quella sorta di ripresa della tradizione sciamanica europea (e non solo europea, in effetti) fatta di danze ritmiche, convulse, magnetiche nella loro reiterazione, prolungate nel tempo da battiti che inebriano e scandiscono prove di resistenza e volontà autoimposte (si pensi all’ingestione di sostanze psicoattive scoperte dagli antichi alla ricerca di cibo con cui nutrirsi, e della sopportazione dei demoni che queste generano fino alla banalissima esposizione all’estremo freddo-caldo come in una sauna interrotta dal bagno in un lago ghiacciato) rivista e veicolata con la durezza parossistica dell’inconfondibile Blizzard Black Metal -in mancanza di un termine più adatto!- forgiato dal compositore ucraino nel suo progetto più integerrimo e ad oggi anche longevo; in ciò il sesto full-length per la seconda volta firmato dal solo Saenko, quasi una specie di sophomore album se lo vogliamo, è una sorta d’inversione di tendenza espressiva rispetto al suo diretto predecessore. Lo sguardo rivolto verso l’interno del personale sancta sanctorum piuttosto che al commentario, verso il fondo e la posizione più remota ed irraggiungibile di quella caverna, ci mostra che nonostante la destinazione sembri musicalmente simile (e dunque la guida, in questo senso, sia decisamente familiare), in realtà la rotta è tutt’altra.

Roman Saenko

Se diamo per assodato e condiviso che la coscienza e la percezione che a quest’ultima risponde sono infatti l’insieme di quelle rappresentazioni nel teatro di esperienze chiamato vita, e dunque qualcosa di assolutamente non fisico nonché totalmente cerebrale quando non spirituale in essenza il quale, pertanto, guida cognitivamente come una forza motrice il nostro spazio-tempo nel fluire degli avvenimenti attorno a noi, allora “Innermost” è senza dubbio il disco in cui si conferma ed espande magnificamente una tendenza solo annunciata e serpeggiante nel ritorno che fu due anni fa “Hour Of The Centaur”: ovvero quella di rendere la tipica aggressione ipnotica, l’ultraviolenza rumorosa che se vogliamo è marchio Hate Forest qualcosa di più; di maggiormente elaborato nel suo nuovo melodicismo graffiante (si guardi alla sublime quanto marziale “Temple Of The Great Eternal Night”), violento e nerboruto ma che lo spessissimo muro di chitarre in sinergia con gli accenti ritmici ossessivi di una batteria splendidamente programmata non nasconde più, giunti a questo punto; di più profondo del semplice monocromatismo delle opere fondative (e ci si riferisce in particolare modo alla sensibilità quasi droning voluta per tutto il periodo “The Most Ancient Ones” – “Battlefields”).
Il tentativo compositivo e di arrangiamento sottolineato è palese nella pure grande compattezza di una “Those Who Howl Inside The Snowstorm”, gioiellino di vigore e dinamicità in riff che apre la mezz’ora abbondante di lavoro mettendo in chiaro tanto la prosecuzione di un discorso iniziato sul finire del 2020 quanto quel che di strenuamente immutabile ed eterno nel carattere come nel DNA compositivo del progetto Hate Forest rimane; ma è in episodi come il secondo movimento “By Full Moon’s Light Alone The Steppe Throne Can Be Seen” a risplendere con prese di fiato acustiche che hanno un sostrato arcaico e quasi celtico, tutto percettivo per l’appunto – suonando corde fatte di una paganità costantemente minacciata e nondimeno minacciosa, in lotta non tanto od esclusivamente contro quel mondo moderno con cui sono in evidente opposizione teogonica e spirituale, bensì sul campo di battaglia sempre in prima linea nella guerra con le forze naturali ed ultraterrene circostanti, visibili e soprattutto invisibili, che ha un carattere eloquentemente interiore. Non è davvero un caso dunque che l’album si intitoli “Innermost” e, creato com’è sul finire del freddo dicembre di due annate or sono (praticamente in concomitanza con la pubblicazione del suo predecessore diretto con cui si innesta per forza di cose un dialogo), non ha nulla a che fare con situazioni concomitanti di natura terrena, pratica, politica o bellica contingenti all’anno 2022, il quale può averne -al più, o piuttosto- ritardato gli ultimi tocchi ed il rilascio così come presumibilmente avvenuto con “All Belong To The Night” dei paralleli Drudkh. Tutto, nel sesto album dell’ormai qui solitario Saenko, lascia in questo senso intravedere un paesaggio dell’anima più che una steppa mitologica: dalla scelta delle opere della misteriosa Mirror Gallery, selezionate (o forse commissionate, considerando l’accuratezza grafica con cui sembrano rappresentare il bagaglio di immagini che pezzi quali “By Fullmoon’s…” e “Solitude In Starry December” portano nella mente), lasciando com’è giusto che sia il completamento della storia alle sole facoltà percettive dell’ascoltatore, finendo con la scrittura degli stessi titoli quale continuo riferimento alla mancanza del fattore visivo, della limitazione dell’occhio comune in favore dell’apertura del terzo, o della privazione in generale.
Pertanto in questo è sicuramente corretto ritenere che “Innermost”, ben più di qualunque altro album del progetto, sia un disco dalla grandissima ambizione visiva ed immaginativa, cognitiva e per l’appunto percettiva: che con la sua appassionata ferocia tanto quanto con i suoi stop acustici conviventi (quarto brano su tutti) punti a creare nell’ascoltatore una sensazione crescente di attesa e momentum. Perché se quel che coloro i quali ululano con desiderio e rabbia all’interno della tormenta creano dal primo secondo quella ormai tipica sensazione di tensione e stallo, di stasi costantemente al picco massimo di un linguaggio, e lo fanno all’assoluto meglio delle possibilità Hate Forest come mai dimostrate (lo stesso si può infatti dire per “Ice-Cold Bloodless Veins” e “Whiteout Silence”), quel che viene sperimentato nella composizione più atipica della già citata “Temple…” così come in una curata e malinconica “Solitude In Starry December” (con i suoi micro-crescendo quasi impercettibili a seguire quei lenti let-ring di accordi aperti da pelle d’oca) porta ad alzare lo sguardo verso le proprie stelle guida come uomini primitivi senza una coscienza prestabilita; affidati unicamente ai propri simboli megalitici dal carattere universale, lontani dal tentativo di civilizzazione come la conosciamo. E quindi tra le crepe del fluire della voce barbarica se ne inserisce una seconda, interpretata da uno screaming più alto ed acido a contrappuntarla, o a risponderle e variegare così la proposta in una lingua di dubbi e domande ulteriori; di misteri sull’origine e sulla destinazione ancora invisibile in quanto nascosta oltre la fittissima coltre di suono che il risicato parco strumentale costruisce con abusi auditivi disumani ma con quel qualcosa che lasci finalmente anche l’ascoltatore, benché ipnotizzato dall’impeto, a ponderare sul ripiegarsi intimo del brano di chiusura o su quel che emerge dalle rincorse sfrenate dell’opener. Un mondo degli spiriti, si direbbe quasi, il nucleo di ogni tradizione spirituale: l’anima immortale, la manifestazione tangibile, la sua proiezione breve nel mondo della materia – in un contenitore corporeo per imparare, crescere e scoprire i misteri della transitorietà, l’enigma della mortalità come domanda ultima di fronte al ciclo della vita inteso come viaggio di esperienza e scoperta nelle profondità della carne – anche quando questa è tormentata dalla guerra e dalla disperazione che ancora attanagliano quel popolo e quella nazione ucraina donante i natali ad “Innermost”, fortunatamente prima del suo scoppiare.

Come si può del resto creare con la morte indesiderata nel cuore – come si può sentire, quando ogni fibra del proprio essere è paralizzata ed anestetizzata dalla paura? Certo, il romanticismo di una risposta a denti stretti a tutto questo, della creazione orgogliosa e ribelle di inni e musica per spronare la resistenza come uno schiaffo è sempre un piacere di rara bellezza a cui concedersi e da cui lasciarsi coccolare anche un po’ utopicamente; è un tepore che scalda e rassicura. Ma va ad onor del vero detto che nei solchi quasi impressionisti, crudelmente algidi di “Innermost” non vi è -come presumibile- nulla di tutto ciò. Nessun tepore, nessun calore. Vi è al contrario uno sguardo lungo -molto più lungo di quanto possa saggiamente esserlo, esteriormente, un disco degli Hate Forest nella sua cesellata ripetitività da trance sciamanica incastrata in una tormenta di ghiaccio sul volto-, molto più profondo di ogni tendenza al commento situazionistico e pertanto labile, provvisorio per natura. Vi è la nerezza celata all’interno del tempio della grande, eterna notte dell’anima e della contemplazione dal di dentro di quel bianco silenzio accecante ed annichilente del sé che stimola la percezione come risposta, la meditazione sull’esistenza, e su tutte le domande con cui riflettere nella solitudine di uno stellato mese di morte e rinascita come dicembre: non a caso quello che apre le porte dell’inverno dentro e fuori, e su cui anche coloro i quali ululano e rispondono devastati nel corpo ed indomiti nell’anima all’interno dell’uragano di neve, pur bissando il successo strepitoso di “Hour Of The Centaur”, sembrano non avere ancora alcuna risposta possibile. Perché vi è tutto ciò di fronte a cui è necessario chiudere gli occhi per poter vedere.

Matteo “Theo” Damiani

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