Gevurah – “Gehinnom” (2022)

Artist: Gevurah
Title: Gehinnom
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2022
Genre: Black Metal
Country: Canada

Tracklist:
1. “Gehinnom (Intro)”
2. “At The Orient Of Eden”
3. “Blood-Soaked Katabasis”
4. “Towards The Shifting Sands”
5. “LV 16:22 (Interlude)”
6. “Memento, Homo…”
7. “Gloria In Excelsis Deo, Et Ira Ad Homines In Terra”

“Sul mare: sul mare infinito che a tutto è indifferente, che non si cura di nulla, né del Diavolo né di Dio. Che è inumano – e questo lo si deve apprezzare, questo deve certamente piacere, se si è imparato a conoscere gli uomini.”

Una viola tesse una melodia tra il funebre ed il misterico, sorprendentemente piena ed espressiva considerato il vento desertico che sembra portarsi dietro la sua sorella chitarra acustica, contrappuntandola come un serpente velenoso a sonagli, e quel che attende è poco altro se non tenere lo sguardo fisso su un maremoto e subirne le più amare conseguenze; viaggiare travolti da musica che non predice il punto di arrivo nella sua enigmatica ma devastante, criptica criticità. Una catabasi, invero, senza che però quel frammento di anima abbia un vero percorso prestabilito: come a volerci dire che, sebbene il traguardo sia sperabile, benché si possa pregare con devozione per raggiungerlo tramite quella fede che per essere tale (inevitabilmente – e non casualmente) deve presupporre un qualche certo grado di cecità anche nella sua praticità, il percorso per giungervi è in verità l’unica cosa certa nonché necessaria. Lì, un comunque indifferente fato insidia -se lo vuole- di ostacoli fatti di sabbia e vento, di ossa, fuoco e fiele quell’accidentato itinerario della Salvezza il quale, almeno stando a come la pensavano i greci nell’antichità, è piuttosto un ritorno a qualcosa che lo spirito a differenza del nostro io senziente ha già conosciuto e bramato, e che solo al di là del sostanziale esiste e si manifesta.

Il logo della band

Quello che i canadesi Gevurah creano in “Gehinnom”, il loro attivo, personale portale di peccato e mancata redenzione da rovesciare, in cui un fuoco spaventoso brucia eterno, nonché e ben più prosaicamente parlando un secondo full-length graziato da una pazzesca maturazione compositiva rispetto al debutto (il già buon “Hallelujah!”, 2016) tradottasi in esteriore e discografica foggia nella produzione del disco sul vecchio continente dai sapienti artifici di Norma Evangelium Diaboli, non è pertanto nulla di meno: un mare nero, pieno di orribili pericoli e certezza di morte di fronte alla tempesta, che monta sempre più alta ed irremovibile in corso d’opera. Un lavoro burrascoso e fine nella sua spietata graniticità, estremamente minaccioso, viscerale, quasi isterico nel suo essere profondamente implacabile per ritmi e schiacciante per mastodontico peso.
Affinato quindi notevolmente sia il songwriting che la forse conseguente immediatezza espressiva delle singole intuizioni disperse a pioggia come inserti di materia rara nella tela grezza, in oltre un lustro di lavori inframmezzati dall’interludio “Sulphur Soul”, quel che i due architettano nel loro secondo episodio maggiore è senza girarci troppo attorno la colonna sonora del naufragio dell’anima che ascende nell’austera, solenne discesa cava e lontana dall’apparenza; sommersa come un relitto ad oriente dell’Eden, a sud del Paradiso, al di là del sacro e dell’espiazione salvifica, con la prua fedelmente rivolta verso il nulla.

La band

Solo se inghiottiti da questo mare senza confini e dalle tenebre antichissime che accudisce, ci si può accingere ad esplorare gli abissi portati in musica da “Gehinnom” e i suoi sette capitoli estremamente severi: laddove tutto sembra difficile e monolitico nella sua rumorosa ipnoticità che stravolge ed annienta se recepito con superficialità e fretta, ma dove al contrario una sicura e raffinata ricercatezza sotto questa coltre di terremotante finis mundi garantisce la piena, a tratti spettacolare traduzione in musica e parole di qualcosa come l’esatto ed invero particolareggiato suono del sophomore a firma Gevurah 2022. Si pensi a titolo esemplificativo al lungo, ampio, maroso rallentamento Doom -alieno a qualunque altro brano se non solo parzialmente all’ultimo in scaletta- in cui s’intricano lente le armonie deviate dell’altrimenti serpentina ed urticante “At The Orient Of Eden”. Gerusalemme si sgretola e crolla sul finale di una altresì prepotente “Memento, Homo…” (con i suoi rallentamenti preziosissimi), dicendoci a chiare lettere che sotto alla quadratezza e alla strenua compattezza di questo suono titanico c’è qualcosa di morboso ed ammaliante al tempo stesso, come costantemente accade sia nei let-ring che scandiscono come frustate di flagellanti gli accenti per guidare il terz’occhio sul terreno accidentato nell’ascesa sul Golgota (ovviamente maggiormente sperimentati per quantità nei tredici minuti della conclusiva “Gloria In Excelsis Deo, Et Ira Ad Homines In Terra”) che in tutte le rarefazioni che i Gevurah gestiscono con un gusto davvero raro per la proposta.
Ma è in verità subito chiaro come, nonostante la ferocia a tratti preponderante, il Black Metal di “Gehinnom” sia sempre ricolmo di una grandissima atmosfera, di oscurità corrosiva ma anche sprazzi di luce accesa nella parata mortificante che travolge al tempo stesso, nella complessità del divino e del suo enigmatico, misterioso potere violentato dagli uomini e vituperato dalle loro lussurie. Non solo l’ammaliante introduzione omonima, che peraltro fornisce gentilmente le squisite immagini mentali che aprono il corrente articolo dedicatogli, o la ripresa acustica in “LV 16:22” – ma con l’immediatezza di nessun altro esperimento della band è proprio l’elegantissima, straziantemente melodica coda di “Blood-Soaked Katabasis” prima ancora dell’inizio fulminante della riuscitissima “Towards Shifting Sands” (anch’essa peraltro arricchita di un finale egregiamente sospeso tra disarmonia ed irrinunciata memorabilità armonica) a rivelare quanto e come la band sia sempre prona ad esplorare trasformazioni interiori prima ancora che musicali; ed ecco perché anche nel caos primordiale che pezzi come il succitato effettivo terzo e l’opener portano con loro in forma aurale, vi è sempre un certo e finissimo grado di melodicismo ricercato, squisito per come affronta l’oscurità e i suoi recessi abissali di zolfo e disintegrazione in vista della creazione.
Alchemisti dello spirito tra Antaeus, Drastus, tra gli Ascension di “The Dead Of The World” e l’assoluto meglio di quel Death catacombale che tanto attira anche il panorama nero appena tratteggiato, il duo ricalibra qui per certi versi -e non solo di mero timing– gli esiti in quel finale di album che aveva appesantito col suo minutaggio la riuscita complessiva di “Hallelujah!” (si pensi ai quasi venti minuti di “הַלְּלוּיָהּ” in un disco già molto lungo), condensando tutti i cambi di tempo emozionanti della precedente “Memento, Homo…” verso la vetta splendente ed ancor più intensa dell’anticipata “Gloria In Excelsis Deo, Et Ira Ad Homines In Terra”. Ed è proprio, ancora una volta, l’inaspettata apertura nel miasma di gain e devastazione con uno sghembo e sgraziato coro sulla falsa riga di un liturgico ripiegato sulla musica in piena corsa verso un finale a non lasciare più respiro in seguito, trascinando tutto con sé in un ruggito immenso capace di inghiottire l’ascoltatore e qualsiasi cosa con lui, nella dissoluzione dell’ego e nella distruzione della ingannevole realtà ricreata che quest’ultimo porta con sé, dalla cui scomparsa come fiamma di una pira sacrificale s’innalza quella fiamma diagonale della libertà che è propria del portatore di luce e di nessun altro.

Cos’è quindi la Salvezza? Possiamo ottenerla come premio al nostro supposto merito ed esserne privati in terra, con guerra destinata agli uomini di buona come di cattiva volontà? In “Gehinnom”, torreggiante dall’alto della sua musica schiacciante, dalle fattezze squisite dell’enormità, dei Gevurah non per nulla battezzati col nome del sĕfirōt della separazione e della forza del giudizio, sembrano suggerirci con voce singolare ed estremamente caratterizzata nel panorama Orthodox (da cui così spesso quanto volentieri, come abbiamo visto, prende debita distanza anche lirico-concettuale) non un’insondabile via al premio – quanto alla strada stessa verso il necessario tentativo; verso la pratica senza la quale la parola, il verbo è nulla anziché tutto. E ciò si traduce in Black Metal che non dimentica quindi delle profonde radici Death, le quali, a loro volta, non inficiano minimamente sulla pregiata tessitura melodico-atmosferica che i due sanno creare quanto mai con eleganza; al netto contrario, rendono ancora più crudo e gretto questo maremoto in cui si resta inevitabilmente inghiottiti, in questa distesa di pece senza confini da cui fuoriescono soltanto tenebre.
Se di un concetto di salvezza e di espiazione si vuole dunque parlare, bisogna innanzitutto fare i conti con la resa incondizionata nei confronti di quella sconfinata superficie semovente, di quel mare infinito che ne è metafora ed è in fondo il divino impersonificato quando non incarnato seppur privo di carne. Fare i conti con la liberazione dal peso della domanda stessa. Ma non vi è comunque da farsi illusioni e comode speranze di scorciatoie in tal senso: quel che i Gevurah in “Gehinnom” ci dicono puzza irrimediabilmente di una resa piagata dall’angoscia di un’irraggiungibile pace terrena, perché salvarsi è liberarsi innanzitutto dall’argilla dell’umanità verso la morte spirituale che è rinascita nello spegnimento di ogni cosa e di quella speranza dell’esser prediletti in qualche modo dall’imperscrutabile. Una quiete è pertanto forse raggiungibile, ma solo mediante un’altra consapevolezza, ancor più grande e rivelatoria, che i due ci sbraitano con tutta la più violenta serietà di questo ed altri mondi: se Dio ha una progenie, noi non siamo i suoi figli.

“Il mare era perfettamente calmo e la barca scivolava avanti impercettibilmente, o forse non si muoveva affatto. Ma non aveva importanza, perché comunque si lasciava portare senza meta, riposava soltanto sul mare, sul mare sconfinato.”

Matteo “Theo” Damiani

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