Gennaio 2023 – Goatmoon

 

Aquile, corvi e avvoltoi anneriscono il cielo sopra una civilizzazione solo parzialmente ignara di essere in rovina. Trombe risuonano, fulmini piombano dall’alto e non è per caso: il primo pit-stop all’interno del 2023 è già qui e viene armato delle peggiori intenzioni possibili. Che sia infatti per mano della band più problematica (o qualcosa del genere) di Finlandia, oppure delle otto che in totale conta un collettivo trans-scandinavo (o a volerla meglio dire, trans-nordico) prontissimo a forgiare nuovi standard nella metodologia e nei criteri di distruzione mortale che queste pagine si ostinano a portare ogni giorno nei padiglioni auricolari di chi legge, gennaio ha in ogni caso concesso poco scampo musicalmente parlando, stampandoci un godurioso, spietato ghigno diabolico di soddisfazione sui volti e facendo così partire il nuovo anno al meglio.
Prima di riapprodare dunque sulle coste settentrionali dell’oggi protagonista Terra dei Mille Laghi con anche il terzo disco di quattro in lista (e metà membri, del resto, finnici anche nel secondo), e di fare un’ultima capatina nella Polonia che dona i natali tanto all’adorata creatura infame Cultes Des Ghoules quanto al fondatore dei Lucifyre (due nomi, come vedrete, tirati in ballo non proprio casualmente…), si parte oggi con un gruppo che altrove per molte e forse non trascurabili ragioni è ormai ritenuto innominabile o da bando immediato, quando non una macchia impossibile da lavare sul curriculum umano di chi li propone in un qualunque discorso che non sia denigratorio. Noi qui, tuttavia, di queste facezie ci siamo sempre curati molto poco per motivi che vanno oltre la comprensione di chi non ci arriva da sé; ergo, oggi tanto quanto ieri, Goatmoon siano e con una meritatissima standing-ovation riservata al nuovo e sesto full-length (chi fino ad oggi ha colpevolmente fatto finta non esistesse il magico “Tahdon Riemuvoitto” non storcerà certo il naso per lo stesso trattamento riservato al dimenticabile “Silver Serpent” del 2021, no?) fuori come sempre per Werewolf Records. Alla larga, insomma, se la musica non è il vero motivo per cui siete qui; alla larga parimenti se non si è disposti ad andare oltre una superficie -peraltro correttamente- abominevole che qui ed ora ha per inciso tutt’altra foggia. Qualunque sia lo standard (doppio, triplo, o inesistente) non sta a noi imporlo: ascoltate, passate oltre, levate le tende, o incuriositevi. In privato o pubblicamente, la reazione vi parlerà molto più di quanto potremmo mai fare noi con qualunque probabilmente futile e sicuramente imbarazzante tentativo di sorta.

 

 

Una fortissima premura espressiva, un vero e proprio istinto sfrenato e riversato in tempi, sferzate e in una rapidità di movimento che più che mera prontezza suona come la perspicacia ancora incontaminata del debuttante alle prime armi; eppure, devastantemente armata di quel sesto senso, quel fiuto e quel bagaglio d’intuizione compositiva che funziona quasi a presentimento in una settima -se non ottava- prova su full-length avente la freschezza e la spontanea inventiva di un disco di debutto, deliziosamente privato di tutti i difetti e le mancanze fisiologiche che normalmente ne deriverebbero. Tra sporcizia Rock ‘N’ Roll, balordaggine cresta-munita, ancestralità aedica folkloristica e tutta la ferinità verbale e fisica di cui è capace in mille forme e modi il Black Metal, dei Goatmoon più trionfali, in un certo senso sregolatamente marziali e dai toni in molti frangenti più oscuri, antichi e solenni che mai continuano a cambiare pelle rimanendo fedelissimi a loro stessi in “What Once Was… Shall Be Again”: un titolo che è un programma nella riflessione tra la pura inconfondibilità (“What Once Was…” e “Protector Of The North”, che potrebbero uscire da “Voitto Tai Valhalla”, come “Rodent Throne” invece da “Finnish Steel Storm”) e la necessità di esplorazione e continua conquista (l’inedito approccio sinfonico-atmosferico d’antan, diametralmente opposto in “Snakes Above, Dragons Below” o “Flying On Torn Angelwings”) – tra l’omaggio sincero alla tradizione e lo sputo anarchico su qualunque bandiera al mondo.”

Alla quiete non richiesta, su queste pagine, è sempre di gran lunga preferita la successiva ed auspicabile tempesta. Lo spauracchio Dungeon Synth di “Silver Serpent” viene spazzato via senza tante cerimonie dai turbini infuocati e pungenti di “What Once Was… Shall Be Again”, nei quali rapaci e gloriose saette rovinano al suolo con il fragore delle trombe dell’Apocalisse: scenari epici e burrascosi si susseguono sull’onda di una violenza perfettamente ritrovata, in un disco che che stringe agguerrito le sue maglie e si fa virulento e battagliero come non accadeva da anni. Il nuovo album dei finlandesi è difatti un’adrenalinica miscela che va a pescare dal riffage più aggressivo di casa Goatmoon e lo arricchisce di cori smaliziati e trovate brillanti, in una rinnovata forma di quella scrittura sfrontata ed immediatamente trascinante che ormai li contraddistingue. ‘Defiant forever – proud as the sun’ si definisce non a caso BlackGoat Gravedesecrator nella tagliente “Flying On Torn Angelwings”: poche parole che racchiudono nel modo più esaustivo e lampante l’essenza della formazione nell’anno 2023.”

Ritorno in grande stile per i finlandesi Goatmoon che ci regalano quaranta minuti di sana epicità ed estrema violenza sonora. Con “What Once Was… Shall Be Again” si va in un certo senso sul sicuro in territori già ben esplorati a colpi di Black Metal arricchito dalla giusta dose di elementi folkloristici e teatrali portati in campo rispettivamente da strumenti a fiato e sintetizzatori, ma proprio la schiettezza casinara e la intuitiva naturalezza compositiva con le quali questo disco scorre traccia dopo traccia permettono di godere del lavoro con il minimo dello sforzo e il massimo assoluto della resa. Nonostante non ci sia nulla di radicalmente nuovo sotto al sole, la creatura di BlackGoat Gravedesecrator non perde dunque di freschezza proponendoci l’ennesimo prodotto di qualità che ogni fan della band non potrà non apprezzare.”

“Sei anni filati senza il nostro hooligan finlandese preferito iniziavano ad essere un poco troppini, e forse è servito anche il ritorno in studio del sodale (e produttore esecutivo) Werwolf per schiodare questo nuovo parto risalente addirittura ad un paio di inverni fa dalle grinfie del suo creatore, disperso tra velleità Dungeon Synth ed altri progetti più o meno seri. Chiamato quindi ad interrompere tale stasi, “What Once Was…” cavalca a mo’ di aquila imperiale un’aggressività ferina che non toccava livelli simili dai tempi di “Finnish Steel Storm”, mai mediata quanto invece affilata dalle abilità di scrittura raggiunte negli ultimi tre lustri di uscite marchiate Goatmoon. L’eterna sete di sangue del guerriero e la gloria trionfale tributata al vincitore continuano non si sa come a coesistere in uno dei monicker (piaccia o meno) più rilevanti dello scenario attuale, fedele a sé stesso e proprio per questo disinteressato ad aspettative come pareri altrui, presi a schiaffi per quaranta minuti buoni e infine sgretolati dall’orgasmo Oi-Folk di cori e melodie che chiudono l’opera. Nei secoli a venire e pur con tutti i suoi colpi di testa: come BlackGoat nessuno mai.”

Pari meritanti coi Goatmoon, gli Høstsol sono il gruppo debuttante con pedigree a dir poco d’eccezione che meglio ha fatto negli ultimi anni – e che meglio farà nei prossimi dodici mesi. “Länge Leve Döden” è un biglietto da visita e già manifesto al contempo: un credo, pubblicato per Avantgarde Music, che ci mostra una tutta nuova interpretazione di (e da) fuoriclasse di un qualcosa che è remoto come il tempo stesso ed altrettanto incorruttibile.

Non nella parentela genetica inscritta nell’alveo di Bethlehem e Silencer, di Abyssic Hate o Woods Of Infinity, s’inseriscono gli Høstsol – molto più vicini invece all’epicità larger-than-life, scarnificata ma profondissima degli Strid sebbene completata ed attualizzata con una nerezza straniante ed ultraterrena che sembra emergere nel crocevia tra i Manes del debutto, i Syning, i Forgotten Woods ed un certo “III: Angst”. E nonostante ciò, con un’atmosfera che più che misteriosa è direttamente religiosa: la morte esplorata non tanto in senso cristiano, bensì direttamente mistico e sacrale saltando a piè pari lo sforzo accademico come quello emotivo. Così “Länge Leve Döden” abbatte in un solo, poderosissimo colpo quella croce e delizia che sono sempre stati gli Shining per Kvarforth (testimoni privilegiati delle sue indubbie qualità d’interprete canoro) come l’evoluzione per molti troppo repentina di quei Manes per Cernunnus che, fino ad oggi, mai erano davvero riusciti a rivivere nei Manii che volevano esserne l’eredità spirituale in qualche modo. Ma “Länge Leve Döden” è proprio per questo motivo molto più di una semplice eredità, bensì un disco la cui profondità va davvero molto oltre la somma delle sue preziose parti.”

Parlare di nostalgia, anche in un genere storicamente incline a certi tipi di testardo revivalismo, è sempre logorante e spesso riduttivo quando ci si riferisce alla nuove uscite, in particolare qualora il livello qualitativo e artistico sia della caratura di un “Länge Leve Döden”. S’è vero infatti che i rimandi ad un certo tipo di approccio proprio di alcuni act scandinavi dei ‘90s non mancano, quello che riprendono gli Høstsol è un discorso che può ritenersi per certi versi interrotto o diversamente interpretato negli anni successivi al nuovo millennio: l’avanguardia intesa come libertà compositiva anche sottilmente percepibile di band come Forgotten Woods o degli stessi Manes degli esordi e la volatilità incisiva delle ritmiche dei Fleurety vengono veicolati dall’evidente urgenza di artisti dal cristallino e già riconosciuto talento di riesplorare idee e sonorità riposte nel cassetto. Fra la classe degli incastri e delle strutture di Cernunnus e un Kvarforth mai così ispirato e calato nella parte fuori dagli Shining, il debutto di questa congrega di veterani va gustato fino alla sua ultima nota per quello che è: sincera celebrazione senza tempo della morte e della sua musica prediletta.”

Disco di debutto per gli internazionali Høstsol che dopo qualche minuto introduttivo in bilico tra l’onirico e il pericolosamente noioso si aprono squisitamente in un Black Metal arioso e melodicamente ispirato, impreziosito dall’iconico cantato di Niklas Kvarforth. Per quanto il comparto strumentale svolga un ottimo lavoro per tutta la durata dell’album, anche perché i tappeti chitarristici di Cernunnus di fama Manes sono davvero eccellenti, è innegabile come le composizioni si sviluppino in direzione atta ad esaltare la prestazione canora del frontman degli Shining. Questo gioco fortunatamente funziona anche al contrario, ovvero che il peso mai trascurabile o secondario della voce rinvigorisce le strumentazioni degli Høstsol con una serie di sfaccettature e dimensionalità che magari non avrebbero avuto con un altro tipo di cantante. La fortuna di “L​ä​nge Leve Dö​den” è dunque quella di essere prodotta da professionisti di altimissimo livello e, come potrete constatare in fase di ascolto, realizzato da persone che non solo sanno fare musica ma la sanno fare anche piuttosto bene.”

“Puntare su di un progetto di Black Metal tutto sommato vecchia scuola guidato da gente che questo preciso stile lo aveva abbandonato da ben oltre due decadi deve essere stata una prova di coraggio non indifferente, e tuttavia eccoci qui a lodare una ritrovata Avantgarde Music la quale ci regala un raro esempio di formazione all-star con effettivamente qualcosa di concreto da mettere sul tavolo, o per meglio dire nel lettore. Senza nulla togliere alle singole, impeccabili prestazioni dei comprimari finnici alla batteria e soprattutto al basso, l’intossicato cuore di “Länge Leve Döden” risiede nella composizione scorrevole e ricca di variazioni sul tema messa a punto da un Cernunnus in grande spolvero, così come nei tocchi atmosferici strumentali e vocali aggiunti dal malandrino Kvarforth qui al suo indubbio apice fuori dagli Shining; si guarda insomma alla Scandinavia di fine anni Novanta – quella entro cui il genere stava inavvertitamente mutando grazie alla varietà di frecce scoccate da capolavori noti a tutti, velenosamente creative esattamente come lo sono oggi quelle nella faretra degli Høstsol.”

Con un Mathias Lillmåns nel suo ruolo e un’identità che non si capisce se sia più ritrovata o conquistata novella, segue in lista il ritorno nel giro dei pezzi grossi degli …And Oceans. “As In Gardens, So In Tombs” ce li ripropone in grandissimo spolvero: freschi, realmente incisivi e dalla voce originale come non capitava dall’indimenticabile “The Symmetry Of I, The Circle Of O”. Eppure, come si sente, dal 1999 al 2023 di acqua sotto i ponti n’è fortunatamente passata…

Il Black Metal sinfonicamente surreale degli …And Oceans, quasi onirico nella sua spettralità escheriana, si carica in “As In Gardens, So In Tombs” di tutta una nuova linfa portentosamente melodica e memorabile che, sebbene possa ingannevolmente sembrare adocchiante i fino ad oggi irripetuti fasti dei primi due album dello storico gruppo di svedesi di Finlandia, in verità, anche per merito di una declinazione più avanguardistica in accenti, ricca di gusto com’è nella manipolazione elettronica e d’effettistica tanto variopinta da essere quasi funambolica, cerca sempre l’alchimia più attuale nella creazione di brani capaci di distanziarsi oggi anche particolarmente tra loro (si paragoni l’omonima opener con “Wine Into Water” o “Ambivalent God”, per prenderne soltanto una manciata). La staticità esageratamente ultraviolenta dell’insipido come-back “Cosmic World Mother” è qui completamente ribaltata, tanto da sembrare d’essere al cospetto di un’altra band: una sorta di figlio bastardo tra Trollheims Grott, Alghazanth e gli stessi punti massimi del gruppo. Benché la sezione ritmica condotta dall’intensissima prova alle pelli di una macchina quale Kauko Kuusisalo spinga in alcuni frangenti leggermente troppo, sono infatti le originali e sempre raffinate trovate sinfoniche di Antti Simonen, piegate alla stravaganza industriale dal passato della coppia d’asce TeemuTimo, coi loro tasti bianchi e neri preponderanti e frontali nel riuscitissimo mix a dettare tutto il carattere ritrovato di un gruppo che nel 2023, dopo pause, scioglimenti, abbandoni e ogni cambio di sorta è riuscito finalmente a mutare nella giusta direzione.”

Voce dei Cultes Des Ghoules, tuttofare dei Lucifyre – quello che sembra il cast di un campione d’incassi al botteghino dal potenziale titolo Il Mio Grasso, Grosso (ed improbabile) Matrimonio Polacco™ è in realtà e rispettivamente: 1) il successore di “Gothic” (2020); 2) l’uscita del mese targata Norma Evangelium Diaboli; 3) la sorpresa di gennaio su questi schermi. Che li vogliate chiamare Sodality o Sodalicja poco cambia, purché li teniate attentamente d’orecchio.

Infinitamente più di una esplorazione concettualmente diversificata dei Death Like Mass privati d’un membro, così come sono più di una mera alternativa ai Cultes Des Ghoules tanto quanto non sono un divertissement più Black Metal-oriented ed atmosferico dei polacchi d’albione di “The Broken Seal” (dove comunque il nostro inconfondibile Mark Of The Devil ha messo lo zampino cavo dalle retrovie), i Sodality proseguono il discorso iniziato col troppo poco considerato “Gothic” intraprendendo al tempo stesso un nuovo ciclo di pubblicazioni di cui il qui presente “Benediction” rappresenta soltanto la prima sebbene interessantissima parte. Non solo, dopo l’uscita doppia di “Eyes Of Satan” / “Deeds Without A Name” e dell’ultimo in casa Lucifyre, “Benediction – Part I” conferma il legame sempre più forte tra i suoi due musicisti interpreti e la congrega d’intelletti dietro a NoEvDia, ma col suo Black Metal occulto, maledetto, deviato, trascurato e negletto eppure ricchissimo d’atmosfera (si pensi allo sviluppo d’invocazioni anche solo nella notevolissima “With Faithful Voice I Make My Supplication”) i quattro lunghi atti sono una dedica convulsa come il movimento di una coda ruvida e malefica se non ambigua come una preghiera, ma di sempre grande spessore: in attesa del secondo capitolo, non sarà difficile lasciarsi conquistare dalle latenti immagini e percezioni qui diabolicamente nascoste...”

Vi avevamo promesso che per il meglio di gennaio non avreste dovuto aspettare tanto quanto è malauguratamente capitato per dicembre e così è per fortuna stato. Ora, non resta che approfittare di un febbraio che sta ingranando con sospetta ma non spiacevolissima calma: godiamoci ancora per un po’ il poker che con l’articolo di oggi ha ufficialmente aperto il meglio del 2023 in corsa… Per una volta senza troppi altri consigli in conclusione, eccetto uno che è eccezione alla regola a sua volta: perché se il sottoscritto vi proponesse il quinto disco Black Metal in una sola mensilità sarebbe forse davvero troppo, e perché quando un album è bello quanto lo è il nuovo Katatonia (“Sky Void Of Stars”, Napalm Records) si può certamente fare uno strappo alle consuetudini del sito e passare almeno la parola – se non altro usandolo per spezzare l’ammasso di gain sferragliante con qualcosa di emotivamente non troppo distante. Nonché à propos di pennuti vari ed eventuali che, figuratamente e non, aprivano e adornano l’articolo mensile che avete appena finito di leggere…

 

Matteo “Theo” Damiani

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