Dødheimsgard – “Black Medium Current” (2023)

Artist: Dødheimsgard
Title: Black Medium Current
Label: Peaceville Records
Year: 2023
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Et Smelter”
2. “Tankespinnerens Smerte”
3. “Interstellar Nexus”
4. “It Does Not Follow”
5. “Voyager”
6. “Halow”
7. “Det Tomme Kalde Mørke”
8. “Abyss Perihelion Transit”
9. “Requiem Aeternum”

Da dove nasce l’endoscheletro di un’idea? Forse dal voler mettere un punto all’astrazione, aspirare a spiegare l’inspiegabile, dissezionare chirurgicamente le terminazioni nervose di un’emozione: praticare un taglio cesareo per la nascita di solitudini, di nostalgie, tristezze, frustrazioni, d’impotenze, dell’oscurità e del nero che avvolgono la testa come proiezioni di qualcosa che è fondamentalmente inesistente nel reame del fisico, eppure così inopinabile nel metafisico; lanciarsi spericolati nel chiarimento, nella delucidazione filosofica perfino, di una condizione inafferrabile come può essere la mancanza, la malattia in ogni suo senso più lato ed inafferrabile. Spiegarla con le parole pure di un bambino: solvere il male, il dolore, la disabilità mentale e il diverso – le conseguenze intime e non filtrate di una condizione in defezione. Un inseguimento che, ancor solo per provare a delineare una possibile differenza, una alterità in essere, occorre sia rivolto alla ricerca di sé – all’abbattimento di una resistenza e alla comprensione di quella personale proiezione del proprio io che della somma delle situazioni è la risultante, e di quella voce che, qualora sia necessario, occorre mettere in musica per non morirne travolti e schiacciati. Sotto il peso di quell’ego che deve disciogliersi e piegarsi per poter essere ritrovato nel tutto e così donare -possibilmente e da ultimo- il carattere fortissimo ed imprescindibile che a un’opera d’arte non può assolutamente mancare. In questo modo ogni lavoro -ogni album, nel nostro contesto- diventa un solenne monumento in onore di sé stesso senza peccare di presunzione e vanaglorioso citazionismo, ma anzi tale proprio nella generosa intenzione di essere donato insieme a tutto il sé stesso di chi ha deciso d’infondersi e consegnarsi con imbarazzante coraggio al suo interno.

Il logo della band

Un processo spesso descritto da chi lo vive quale un vagabondaggio solitario in meandri ossessivi, maniaco e megalomanico, in cui si cresce e ci si analizza ora dopo ora in cui della musica viene creata: un dialogo, uno scambio per ritrovare una lingua al fine di poter parlare con sé stessi, ma uno in cui è così facile perdersi e non ritrovarsi più qualora serva poter ritornare in quel circostante che non sembra più afferrabile quanto prima. Ogni creazione, in questo senso, diventa davvero un viaggio senza ritorno nel mare magnum di una negatività altrimenti inesplorabile – e non casualmente alcuni sono più complessi da eludere come da portare a termine di altri. Un percorso in musica quanto nella psiche cauterizzata di un disco come “Black Medium Current” è, per conseguente esempio, qualcosa d’intriso nel profondo di tematiche essenzialmente complesse, di arduo indirizzamento ed estremamente difficili da maneggiare per l’essere umano nella sua infinita piccolezza. L’abbandono, la fine, la mancanza e la scomparsa molto più ancora della più solita e circoscritta morte in senso stretto; un taglio, una cesura appunto, in cui comunque non si possa osservare mai solo un punto d’arrivo il quale fa terra bruciata dell’esperienza pregressa, di chi a questa vita -in mancanza di un termine più adatto- non è sopravvissuto.
Volendo quindi pensare al percorso produttivo ed evolutivo dei Dødheimsgard, nel dettaglio, i punti d’incontro con quanto appena tratteggiato vanno davvero a sprecarsi: non solo dal momento che, dopo l’ormai arcinota spaccatura con gli anni ‘90, in un certo qual modo, “Black Medium Current” torna a bussare con nuovi pesi di dolore a quel portone mai completamente chiuso (in questo non così inedito, considerato che la tenuta stagna non è del resto mai stata una soluzione possibile per il collettivo), ma perché ogni album emerge geneticamente quale ritorno preventivo alla bolla di pensiero in cui comprendere -compito dell’artista e di nessun altro- cosa debba ancora emergere dall’inconscio tramutatosi musica. Quante e quali nuove idee necessitino ancora di un veicolo comunicativo quale un complesso, inevitabilmente camaleontico ed ambizioso viaticum che possa come in questo caso prendere la forma di un disco curioso nel senso al contempo più nobile e sofisticato ma, in un moto d’irragionevolezza estetica, anche più semplice del termine.

La band

Tutto, in una sorta di riduzione ad absurdum, assume così un senso – ogni elemento cade nel suo perfetto, disarmonico ma predisposto luogo che lo accoglie come l’insenatura unica ed irreplicabile di un travagliato puzzle: un artwork realmente artistico, ancora una volta e a sua volta, congiunzione con “A Umbra Omega” ed estrema spaccatura con esso, che fornisce a chi è in grado di leggerlo un possibile grimorio interpretativo dell’intero lavoro in una tridimensionalità ricercata dove tutto combacia senza possibilità di errore. Le chiavi sono insomma donate senza parsimonia, ma la parsimonia è misura necessaria alla concentrazione assoluta che occorre tributare per poterle anche solo riconoscere come tali. La serratura diventa pertanto metafora di una spaccatura per alcuni e selezionati aspetti minore rispetto a tutto ciò che ha differenziato nell’essenza “666 International” da un “Supervillain Outcast”, o quest’ultimo e nuovo platter da “A Umbra Omega” (volendo chiaramente tacere di proposito riguardo il salto funambolico, chiamato “Satanic Art”, intercorso tra secondo e terzo disco maggiore registrato in studio); e in questa storia di paradossi che compongono la storia stessa della band il nuovo “Black Medium Current” porta infatti avanti ben pochi discorsi lasciati aperti dal suo diretto predecessore di otto anni più anziano. A partire da una line-up ancora una volta completamente rinnovata in cui tuttavia, per la prima volta, è maestro Vicotnik a prendere le redini anche dell’interezza delle parti cantate, trovandosi per la seconda volta sprovvisto di Aldrahn ma in maniera totalmente inedita unica voce al microfono e solo direttore artistico, mollando ironicamente il predominio alla consolle di produzione.
Il risultato è ancor più sorprendente se si tiene in effetti da conto (o ci si rende conto, più immediatamente) di quanto il dipartito cantante, pur portando via con sé un carisma e una ecletticità, un carattere totalmente Dødheimsgard per chiunque altro molto presumibilmente impossibile da rimpiazzare, non sembra affatto mancare all’appello. L’esperienza di sperimentazione vocale in seno ai Dold Vorde Ens Navn (e del ritorno sui palchi dei Ved Buens Ende, dall’altro e speculare lato) rende colui che all’anagrafe fa Yusaf Parvez uno dei più grandi punti di forza dell’inestimabile disco (si pensi anche solo alla differenza che intercorre tra le più contenute, striscianti e dolorosissime “Et Smelter” o “Tankespinnerens Smerte”, e la follia genuina di “Interstellar Nexus”) per quanto ineludibile, irrimpiazzabile e insostituibilmente onesta e sincera, così vicina al cuore del disco suona la sua voce nelle lontanissime sfumature che riesce ad imprimervi con un cantato dai mille volti e dalle mille polarità esecutive. Non è un caso che la lingua principale diventi quindi oggi il norvegese, come in una sorta di verista privazione del filtro linguistico a volte emergendo dal sostrato inglese quale un vero e proprio bisogno.
E di necessità creativa in virtù, nel tentativo disperato di descrivere all’ascoltatore quella propria oscurità mentale e di mettere in parole musicate la sua precisa analisi, “Architect Of Darkness” dal 2015 emerge congenitamente come composito nonché compositivo punto di partenza per rendere “Black Medium Current” il capitolo più emotivo e luttuoso di sempre, al contempo il più perso ed il più coerente e ritrovato, dell’intera epopea Dødheimsgard. Le melodie che lo attraversano da parte a parte come una lancia di precisione magnifica sono sinceramente malinconiche e spietate nel loro aggrapparsi alla pelle e farsi strada là sotto, dove ogni barriera cade e si sgretola: smontando, vale a dire, i denominatori di “A Umbra Omega” e prendendo solo quei determinati e selezionatissimi aspetti cui si accennava; rifuggendo gran parte della sua caoticità in favore di una visione d’insieme molto più ambiziosa e monolitica insieme. La ricorrenza di un non nuovo pianoforte a coda per drammaticità e pathos che più che al 1995 di “Kronet Til Konge” rimanda a quello di “Written In Waters”, senza assomigliarci di una virgola, mostra una band intenta piuttosto a viaggiare all’interno della musica come nella strabiliante, allucinata, quasi-cosmica “Abyss Perihelion Transit” o nell’acida e psichedelica “It Does Not Follow” (un titolo, un intero progetto) e in generale nella sua esplorazione elettronica così diversa dall’afflato industriale fino ad oggi associato al gruppo (ad ogni modo presentissimo nell’iniziale ultravelocità inumana e segmentata di “Det Tomme Kalde Mørke”, benché si disciolga poi in uno sforzo compositivo che supera il limite del geniale).
Ma ciò che rende realmente eccezionale quello che si apre infatti come il loro più dimesso, nubiloso, il più triste, intimistico, forse atmosferico e per molti versi pure personale (in termini d’individualità compositiva) album di sempre è il rivelarsi presto o tardi, ma unicamente in decisiva collaborazione con l’ascoltatore, quale ennesima prova di forza sperimentale del gruppo norvegese: pezzi come le già accennate “Interstellar Nexus” e “Det Tomme Kalde Mørke” sono strabilianti nonché tra le cose migliori mai scritte e rilasciate da una band che non conosce oggi come ieri alcun confine creativo benché mantenga perennemente un inconfondibile gusto tutto suo nella raffinatissima musica che crea, riuscendo a suonare immediatamente quali i creatori del giustamente celebrato “A Umbra Omega” pur prendendone, come detto, fortemente le distanze in approccio: stralunato, oscuro, liberatorio e catartico, avvolgente e curativo ma seriamente abissale e perduto al contempo, con tutto il potere della sorpresa, del pericoloso smarrimento e del mistero sfuggente nelle sette note che resta una delle massime prerogative con cui i quattro autentici sperimentalisti norvegesi ci accolgono nel loro mondo. Dove lo spazio sidereo interiore è la tela su cui viaggiare aggrappati al sostrato psicologico che lega a doppio filo le lentezze di una “Halow” con chiavi di lettura ambigue quali “Voyager” e “Requiem Aeternum”: quella dell’outsider che si ritrova per l’appunto nella sua distanza dal resto rimanendone parte. Dal circolo di pensatori e rivoluzionari nordici al retaggio indiano esplorato non musicalmente in senso estetico o melodico, ma logico e filosofico, deterministico: tra Dan Dennett ed Hermann Hesse, tra Niels Lyhne e Siddharta; tra mente e materia, tra spirito e spettro che lo attraversa, tra spazio vuoto e potenziale, tra essere e avere.
E benché ancora una volta questo viaggio nel tempo senza tempo non sia circostanziale (chi scrive pensa all’esplorazione parallela avvenuta nella creazione dell’ancora parzialmente inedito progetto Doedsmaghird, descritto come l’anello di congiunzione tra il 1997 ed il 1999 nel particolare cronolaboratorio della band), sarebbe mancargli anche un po’ di rispetto, a costo di errare, il riassumerlo provocatoriamente in una frase come c’era una volta l’Avantgarde: il superare ogni possibile confine nella sperimentazione che porta l’essenza conoscitiva di svariati generi vandalizzati a confluire in un’unica, difficile manifestazione di supremazia assoluta sull’intrattenimento e sul calcolo, su ogni previsione di ricezione e ogni incasellamento utile alla vendita o all’acclamazione immediata nell’era della tirannia streaming. C’erano sì una volta “666 International”, “Min Tid Skal Komme”, “The Linear Scaffold” e “Written In Waters”; ma v’è oggi e non da meno lo strabiliante “Black Medium Current”, figlio dei più grandi degli insoliti, unici persino nella loro stoffa di artisti regalmente esistenzialisti la quale sembra monumentalmente posseduta dallo spirito dell’arte con iniziale capitale, se davvero ne esiste una. Toccata dal divino, se davvero ne esiste uno. Un capolavoro di quelli istantanei, in cui follia e lucidità dialogano nella stessa e in più lingue, direbbe forse a ragion veduta qualcuno – quel su cui però si può facilmente convenire tutti è che -al minimo- “Black Medium Current” sia, al di là di qualunque personale gradimento, uno dei dischi più profondi pubblicati negli ultimi anni.

Non un banale concept album ma una esplorazione degli abissi periferici delle inclinazioni umane universali, dalla paura dell’inevitabilità al rifiuto all’addio al familiare. Non canzoni ma stati d’animo, non per provocare, bensì evocare – e al più essere provocativi nel farlo. Perché la grandezza dei Dødheimsgard non è mai stata, né oggi è, l’essere banalmente non comuni: lo scrivere musica interessante o anche imprevedibile, fuori dagli schemi. Un punto di forza, certamente; ma realmente grande è piuttosto il creare musica che in ogni momento sia uno spazio e un tempo per sempre in espansione e per sempre visitabili, cristallizzati. È un doloroso processo nell’atto paradossale di essere al contempo un processore con cui analizzare una e mille realtà. Perché “Black Medium Current” riesce a spiegare l’inspiegabile con o senza parole, in una e nessuna lingua comprensibile a chiunque e ad alcunchì. Ci spiega senza farlo che tutto è esterno ai confini del nostro corpo e che pertanto non è con il fine di farne parte che va compreso; ma ci permette di muovere un passo -e forse più di uno- verso quei non luoghi che prova e riesce ad analizzare senza l’uso di un medium umano e finito in quanto tale, bensì con l’infinito in un solo minuto, con l’eternità nel mero secondo di una corrente nera, confluenza in sé di ogni punto di origine dell’inspiegabile nel nostro cosmo e nella nostra psiche nel momento esatto in cui le due cose coincidono alla perfezione. Non più un solo processore, ma -parafrasando le parole stesse dell’autore- allo stesso tempo la connotazione più nera possibile delle emozioni ed il suo fluire, il flusso dell’oceano cognitivo e delle sue tangibili finzioni che colpiscono con i loro paradossi ed inganni ogni mente esistente.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=EorF1K7ityY

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