Carpathian Forest – “Black Shining Leather” (1998)

Artist: Carpathian Forest
Title: Black Shining Leather
Label: Avantgarde Music
Year: 1998
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Black Shining Leather”
2. “The Swordsmen”
3. “Death Triumphant”
4. “Sadomasochistic”
5. “Lupus”
6. “Pierced Genitalia”
7. “In Silence I Observe”
8. “Lunar Nights”
9. “Third Attempt”
10. “The Northern Hemisphere”
11. “A Forest”

Le rivoluzioni, citando qualcuno che dell’argomento se ne intendeva assai, non sono mai pranzi di gala. Al contrario, possono sovente avvenire tanto in fretta da sorprendere persino coloro che le hanno in precedenza vagheggiate, i quali si ritrovano così in un contesto non più proprio e pertanto tramutatisi da agguerriti gregari militanti a rabbiosi cani sciolti: senza più una causa per la loro ribellione. Il triennio che va dal 1995 al 1998, ovvero dal rilascio del promettente EP intitolato “Through Chasm, Caves And Titan Woods” alla prova del nove costituita da “Black Shining Leather”, incarna proprio questo; nel bel mezzo di un iter che dopo la classica età dell’oro inizia piano piano a stabilizzarsi, il succedersi nella singola annata 1997 di una serie di circostanze difficilmente pronosticabili (il successo dei Dimmu Borgir, l’intraprendenza degli Enslaved, il grandeur inedito degli Emperor, l’avanguardia degli Arcturus e non ultima la rinascita dei Mayhem) non può che segnare un’irrimediabile spaccatura nell’ancora rappresentativa scuola norrena, trasformandola da Mecca del movimento intero a calderone frammentato di novità da seguire alla cieca o additare quali corruzioni del vecchio spirito; il tutto, ovviamente, senza possibili vie di mezzo.
In questo subbuglio c’è, come logico, chi arriva solo ora al debutto scegliendo la propria strada: lo fanno i vari Kampfar e Odium, giusto per citare un paio di nomi opposti sotto praticamente ogni fronte, mentre più compromessa è la posizione dei Roger “Nattefrost” Rasmussen e Johnny “Nordavind” Krøvel, lanciati da un’eccellente mini-album di presentazione e forti del certificato marchio di garanzia Avantgarde Music ma adesso schiacciati tra le folate d’energia innovatrice che spazzano la Terra dei Fiordi e la nostalgia già percepitasi verso i tempi in cui il Black Metal era vissuto e raccontato come qualcosa di davvero pericoloso.

Il logo della band

Prima ancora che musicalmente, questa sovrapposizione contagia i Carpathian Forest addirittura sul piano concettuale, dando vita ad uno dei primi passi in avanti per quanto concerne tematiche e scelte estetiche all’interno dell’incorruttibile ortodossia norvegese. Difatti, la mossa che innalza il duo originario di Sandnes (cittadina non a caso poco toccata dal fenomeno nero) al di sopra di parecchie formazioni coetanee venute fuori dopo l’exploit del ’94 è quella di coniugare l’aristocratica attitudine norsk teorizzata all’alba del decennio ad intuizioni non soltanto sonore le quali, pur avendo fondamento nel solito humus fatto di Bathory ed Hellhammer, finiscono per conferire al progetto sin dal venticinquennale esordio su full-length quell’originalità riservata soltanto ai pionieri sorti intorno all’Helvete più di un lustro innanzi.
Pertanto, se all’atto pratico la condotta dei due musicisti rispecchia perfettamente il codice comportamentale redatto da Euronymous con pochissime dichiarazioni a mezzo stampa, nessuna fretta nel rilascio di nuovo materiale ed in generale un’aura di patrizia avversione all’attenzione pubblica (benintesi: non potremmo essere più lontani dalle disadattate gesta future del Nattefrost vittima della passione per l’eroina), d’altra parte una bestia rara quale fu e rimane “Black Shining Leather” porta con sé un’immensa quantità di sensazioni e scenari da essere incomprensibile per chi, all’epoca d’uscita, pensava il Black Metal come inestricabile dai boschi innevati cui accennano monicker e layout interno del CD in questione. Per quanto infatti tale sentore possa essere influenzato dagli sviluppi a venire -siano essi i successivi lavori in studio qualora non la torbida parabola dell’allucinato frontman– è proprio qui che i Carpathian Forest costruiscono una propria realtà alternativa, rigorosamente notturna e fatta di degrado urbano, laddove la società appare come un perfetto ingranaggio oliato dal modello nordico tutto welfare e socialdemocrazia; di desolate piazze vuote alla stregua di un quadro di Giorgio De Chirico e di condomini asettici nei cui insospettabili appartamenti trovano sfogo le più immonde tra le perversioni umane.

La band

Ce lo si immagina allora dentro uno di quei loculi, il sordido Hellkommander, con tapparelle abbassate e sporcizia ammucchiata ovunque mentre dal televisore arrivano gli eccitati versi di una VHS oscena inframezzati dal bisbigliato farneticare del vocalist; la nera pelle scintillante alla quale fa riferimento il titolo non è argomento di sconce battutacce e fantasie alcoliche come era stato un paio d’anni prima il culto in latex officiato dagli Impaled Nazarene, quanto più un’autentica patologia che si annida nei solchi dell’ordinata vita borghese scandinava (si pensi alla strisciante misoginia così diffusa nella popolare letteratura noir locale) e corrompe l’algida purezza del metallo nero con un suono travolgente, distante dal qualunque produzione norvegese ed ottenuto a sei mani insieme al Terje Refsnes già corresponsabile in quella medesima estate del non dissimile irrigidimento dei Gehenna su “Adimiron Black”.
Chitarra e soprattutto basso tuonano assordanti lungo title-track e “The Swordsmen”, col secondo dei due talvolta anche più alto nel mixing a rivendicare un approccio rockeggiante che se oggi viene senza problemi etichettato come Black ‘N’ Roll, nel ’98 è semplicemente un’inedita scarica elettrica in un genere la cui conformazione tradizionale viene ormai data per morta. Il riffing a base di trucidi power-chord dell’accoppiata iniziale oppure di quella tutta a luci rosse comprendente “Sadomasochistic” e “Pierced Genitalia” è ridotto all’osso secondo i dettami del patrono Tom G. Warrior, e l’effettiva scrittura viene di pari passo trascurata al fine di dare a pezzi il sapore morboso di un coito violento e disordinato, sballottato dai ritmi arrembanti quanto discontinui imposti dalle ruggenti quattro corde ed interrotto dai diffusi stop del batterista Lazare, giunto in prestito dai visionari compagni d’etichetta Solefald in qualità di sessionman.
Nel frattempo, fuori dalle fredde mura celanti simili devianze, le trame di tastiera cui va gran parte del merito per la riuscita di una fantastica “Death Triumphant” dipingono strade semideserte e pochi timidi lampioni ad illuminare isolati parchi divenuti spoglie di una natura assediata dalla civilizzazione, e tuttavia dove proprio lo stato di natura, nella figura dei pericolosi randagi infestanti le nostre metropoli, si sfoga in risse ed aggressioni di ogni tipo. Chi si ritrova ad attraversare questi non-luoghi sente pertanto sul collo il fiato gelido del buio, il senso di minaccia trapelante da quei palazzoni che lo osservano così come dagli episodi in assoluto migliori che “Black Shining Leather” ha da offrire, nei quali il gusto atmosferico di entrambi i compositori (del tutto falso, crediti alla mano, il mito di Nordavind votato all’oscurità e Nattefrost confinato al casino) si traduce in passaggi dalla cupezza mai più raggiunta in nessuna opera targata Carpathian Forest: l’andatura del vagabondo che continua imperterrito a seguirci tenendo il passo prima claudicante e poi frenetico della raggelante “Lunar Nights”, l’arpeggio che vorrebbe essere folkloristico ed invece, su quel sound corposo, finisce col rendere la maestosa “The Northern Hemisphere” un prototipo del Depressive Black come verrà inteso dal futuro compare Niklas Kvarforth; ed infine lo sguardo dentro un qualsiasi capannone della periferia di una qualsiasi città nordica al cui interno, posseduti dalla combinazione di cassa martellante e sostanze alle quali sia Nattefrost che Robert Smith hanno giurato in gioventù amore eterno, i figli della notte si agitano a ritmo dell’indimenticabile rifacimento di “A Forest” sancendo il primo raccordo tra due dei principali volti delle sette note in nero.

Eppure, scorrendo il booklet, salta effettivamente all’occhio l’onnipresenza nelle liriche delle foreste, delle montagne e fiordi da dove era partita la turbolenta avventura discografica dei norvegesi un triennio prima; ancora una volta, tuttavia, è innanzitutto il potere atavico dei suoni a prendere il sopravvento sul nucleo tematico scelto dai creatori, importante sì ma sempre in secondo piano per chi davvero può definirsi appassionato di musica. Quello di “Black Shining Leather” è del resto un impianto sonoro talmente rivoluzionario nella sua potenza anche scenica (in ciò, forse persino maggiore nel paio di full-length seguenti) da non poter sottostare all’iconografia precedente, aprendo di fatto le porte ad una sorta di industrializzazione in campo Black Metal la quale addirittura contagerà, a distanza di giusto un annetto, dei navigati iniziatori del calibro dei Satyricon ritrovatisi impestati di fuliggine in occasione di “Rebel Extravaganza”, e da lì il fortunato carrozzone di viti e ingranaggi messo insieme da Moonfog Productions.
Reazionari, autentici nonché autoproclamatisi terroristi di genere, i Carpathian Forest di venticinque anni fa reagirono insomma al classico dilemma di adattarsi o perire alzando il dito medio e scegliendo la seconda opzione, soppressi però non dalle altrui innovazioni ma dalla loro stessa carica eversiva espressa da una vera bomba per debutto. Si spiega allora l’autodistruzione venuta dopo l’insana coppia “Strange Old Brew”“Morbid Fascination Of Death”: troppo il disagio, a quel punto forse meglio canalizzato in un disturbante sax piuttosto che in una convenzionale chitarra elettrica, perché una creatura così avanti coi tempi potesse continuare a tenere la barra dritta. Le schegge dell’ordigno detonato nel 1998 e portatosi via i suoi creatori rimangono, in ogni caso, sparse per la Norvegia in attesa di graffiare chiunque ci passi sopra (specie i vari Tsjuder ed Urgehal – mai in grado di reggere il confronto coi due padrini della nuova generazione di blackster), a testimonianza del fatto che quando un artista è veramente tale finirà con l’apportare novità anche quando l’intento è quello di preservare i canoni di un determinato stile.

Michele “Ordog” Finelli

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