Arkona – “Slovo” (2011)

Artist: Arkona
Title: Slovo
Label: Napalm Records
Year: 2011
Genre: Folk/Black Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Az’ (Intro)”
2. “Arkaim”
3. “Bol’No Mne”
4. “Leshiy”
5. “Zakliatie”
6. “Predok”
7. “Nikogda”
8. “Tam Za Tumanami”
9. “Potomok”
10. “Slovo”
11. “Odna”
12. “Vo Moiom Sadochke…”
13. “Stenka Na Stenku”
14. “Zimushka”

All’uscita di “Slovo”, nel bel mezzo di un qualitativamente oltremodo frenetico anno 2011, nonché in un periodo storico dalla lontananza a questo punto facilmente scrutabile, l’autentico fenomeno divampato nel lustro abbondante precedente, denominato ed oggi forse solo ricordato come Folk Metal è ormai giunto alle sue ultime battute e tenderà a collassare su sé stesso e completamente, nell’eccesso di proposta come nella mancanza speculare d’inventiva, lungo il successivo biennio. Nonostante questo, nell’estate in cui l’album in oggetto di retrospettiva esce, siamo ancora bombardati da una miriade di pubblicazioni più o meno professionali: dal Sud America all’Est Europa si trova sempre e comunque una formazione, nuova o vecchia che sia, testarda nel voler proporre la propria tradizione culturale sotto forma di musica. Ed è forse proprio l’Est Europa che, più di qualunque altra zona del mondo, cavalca gli ultimi tiri di schioppo del genere grazie all’attaccamento di questi precisi territori e relativi abitanti alle proprie radici e in particolare alla omnicomprensiva cultura slava, favorita anche dalla facilità nell’applicare un certo tipo di sonorità tipicamente popolari ad un prodotto di matrice estrema; anche e nonostante considerato come quest’unione, con ogni probabilità più spesso che non, finisca per essere talmente esageratamente ovvia e diretta da produrre mappazzoni di dubbio gusto.

Il logo della band

Nel marasma generale di amatori totali ed improvvisati che verranno dimenticati al primo ascolto o al massimo custoditi senza particolare gloria in cuffia da un centinaio di persone, troviamo a spiccare i russi Arkona: band che, all’apertura dello scorso decennio, comunque già si trova salda in cima alla montagna mentre gran parte degli altri colleghi attardatisi al ricevimento sono ancora lontani e a valle – e non soltanto per l’aver da qualche anno abbandonato l’esclusiva territoriale della connazionale label Soundage Productions (che li aiuta ad esordire ed affermarsi tra il 2004 ed il 2007) in favore di una ben più capillare Napalm Records, etichetta austriaca dal respiro grandemente internazionale e commercialmente più favorevole (tanto che l’ormai arcinota canzone “Yarilo” dal precedente album farà il suo cameo in una puntata di The Office US). Questo cambiamento si percepisce distinto con -nonché in- “Goi, Rode, Goi!”, primo disco ad uscire direttamente nella mainland europea tramite la scuderia mitteleuropea e che segna due anni prima di “Slovo” un netto spartiacque a vario titolo nella carriera del quartetto russo, andando sia a limare tutte le imperfezioni di “Ot Serdtsa K Nebu” del 2007 che a confezionare un prodotto sì complesso, ma assolutamente incantevole ed immersivo, piena espressione fino a quel momento delle capacità artistiche del gruppo. Da “Goi, Rode, Goi!” in poi è tutta una effettiva discesa, dato che i nostri continueranno a progredire ulteriormente negli ultimi due dischi (“Yav” prima e “Khram” poi, 2014 e 2018 rispettivamente) dimostrando di non avere assolutamente rivali quando si tratta di narrare attraverso mitologia e fantasia il folklore della terra russa in ogni sua sfaccettatura.

La band

Ovviamente non si poteva parlare, né si è mai parlato, unicamente di unire strumenti tradizionali ad un muro sonoro di stampo Heavy Metal: così fosse, come invece avvenne a larga parte della concorrenza, non saremo a parlarne a distanza di dieci anni. Già dai primi minuti in quella “Az’” che apre “Slovo”, veniamo catapultati in scenari emotivamente molto forti e ricchi di orchestrazioni che donano ad elementi altrove potenzialmente danzerecci ed allegri un aspetto invece tremendamente solenne, epico e drammatico; un’epicità che sconfina tranquillamente nel battagliero regalandoci composizioni che si destreggiano tra Black (principalmente) e Death Metal (in maniera assai più sparuta) o più complesse strutture quasi-Progressive costituite da archi, strumenti a fiato e percussioni varie, queste ultime sempre dotate di quel pizzico d’innovazione esecutiva nel loro genere e varietà che tengono l’ascoltatore sulle spine evitando di propinargli una linea melodica imbevuta al saccarosio e suonata costantemente da uno strumento alieno quanto fastidiosamente alto di tono, dal minuto zero al minuto sessanta.
Assolutamente affascinante è infatti il modo in cui le canzoni si spengono e si riaccendono l’una nell’altra andando a progredire ed estendere la composizione precedente: si voglia prendere come esempio iniziale la trama della già sbalorditiva “Arkaim” che sfocia in “Bol’No Mne” finendo per esplodere in una ritmica forsennata accentuata da fugaci tocchi di violino che, assieme all’aspro cantato di Masha, generano un pathos da vera pelle d’oca: assolutamente impossibile da trasmettere a parole. Parole che invece sono gestite in totale padronanza dagli Arkona, i quali godono di un bagaglio lessicale, poetico e anche solo vocale incredibilmente esteso, facendo largo uso di strutture corali e parti narrate (mai prima di quel momento così preponderanti, e premonitrici di un futuro a quel punto prossimo) che infondono ancor più grandeur agli attimi irripetibili in cui fanno capolino; in tutto questo non va dimenticata proprio l’ugola della già citata Masha “Scream”, dotata di innumerevoli soluzioni vocali che in più di un’occasione appaiono come un ulteriore layer di chitarre, sia per il fatto che trascinano l’intera struttura del brano, sia perché il comparto chitarristico è forse l’elemento di minor spicco e di maggiore accompagnamento all’interno dell’intero “Slovo”, seppur con le dovute eccezioni di title-track o nell’impetuoso sali-scendi di emozioni intitolato “Bol’No Mne”. Le prime stratificazioni di sei-corde della band, ancora timide nel 2011, giocano infatti un ruolo di scorta e nel complesso ottimamente, dal momento che restano già presenti tanti di quei dettagli dati dalla quantità di strumenti utilizzati (anche e soprattutto acustici ed orchestrali) che qualcosa al di fuori di qualche semplice riff (rete acustica od elettrificata, e qualche linea melodica che ogni tanto compare nell’angolo remoto del nostro orecchio sinistro) avrebbe solamente appesantito un ascolto il quale, per chi si affaccia al nome Arkona per la prima volta, potrebbe risultare già piuttosto impegnativo e difficile da gestire.
Si badi: un disco del genere non è del resto esattamente sinonimo di immediatezza. Certo, non siamo ai livelli di ciò che sarà successivamente un “Khram” o anche solo “Yav”, ma fin da qui bisogna già abituarsi al modo in cui la band russa compone e soprattutto lega i brani uno dopo l’altro; al modo in cui alterna drammaticità a puro campo di battaglia o slavonico, rustico, agreste, solare rito pagano, inserendoci magari un intermezzo parlato come nel caso del trittico “Zakliatie”“Predok”“Nikogda”, quest’ultima in assoluto tra le tracce preferite di chi scrive per il modo in cui lancia l’ascoltatore in balìa degli eventi e, al vertice dell’apnea, lo ridireziona verso le sonorità soavi e delicate presenti nella successiva “Tam Za Tumanami” – canzone dal carattere quasi fiabesco che conduce liricamente tra scenari marittimi e nebbiosi, ideali per chiudere la prima metà del disco.
Nella seconda parte, la title-track ci mostra un lato a tratti squisitamente più tradizionale e canonico degli Arkona che proseguirà fino alla conclusione, la struttura è invero abbastanza se non molto vicina ad un brano Folk Metal al quale tante band occidentali ci hanno abituato, ma è la sostanza ad essere vertiginosamente diversa: ci troviamo infatti davanti ad uno dei migliori brani sotto l’aspetto chitarristico e che più riesce a far risaltare i vari dettagli di batteria, elemento che da questo momento in poi e in particolare negli ascolti successivi comincerà a farsi notare per il suo essere sempre presente con il tocco più azzeccato in base al contesto in cui si trova. Un altro grande lavoro di percussioni lo troviamo proprio nella successiva “Odna”, che fa della cornamusa slava il suo strumento principe confezionando un pezzo dove il folklore esce più che mai allo scoperto (fa leggermente impressione notare come oggi, a distanza di soli dieci anni, produzioni del genere non esistano praticamente più, fatta eccezione per qualche nome storico che ha il gusto assodato per tali composizioni oppure per qualche strana combriccola che festeggia decennali di totale irrilevanza artistica). Il finale è, a tal proposito, un contrasto tra la vivacissima “Stenka Na Stenku” e la solenne “Zimushka”, con la prima che risulta essere ad oggi parecchio conosciuta -se non un cavallo di battaglia dal vivo- per il suo carattere apparentemente quasi goliardico e piuttosto facile da ascoltare; il ricordo, infatti, di come proprio questa a conti fatti aliena traccia fosse uscita come singolo d’apertura e persino protagonista dell’omonimo EP d’antipasto resta nitido come la storta di naso al timore che l’intero ed imminente “Slovo” potesse adagiarsi su similari linee compositive.

Così non è stato, oltre al fatto che ciò dimostra con agrodolce ironia quanto poco si potesse (da parte di chi firma questo articolo come altri al pari di lui) conoscere gli Arkona per pensare che sarebbero usciti con un intero progetto su full-length basato sulla similarità alle linee di “Stenka Na Stenku”, canzone che oltretutto e senza nemmeno la necessità di grandi retrospettive o celebrazioni decennali si ritaglia un ruolo più che azzeccato nelle fasi conclusive dell’album: sicuramente l’opera che ha avvicinato per davvero, e non solo per la maggiore distribuzione riservatagli, moltissimo pubblico e futuri ascoltatori incalliti all’entità Arkona dando persino una chiave di lettura per comprendere meglio anche il precedente monolite “Goi, Rode, Goi!” – probabilmente più ostico, ruvido ed impegnativo per timing e carne al fuoco sebbene deliziosamente speculare e complementare.
Come anticipato, i due album successivi saranno probabilmente ancor migliori (e che ciò si tratti infine di completi gusti personali o meno poca rilevanza ha, considerato soprattutto il carico di ricordi belli e brutti di quell’estate legati irrimediabilmente al sottoscritto) nonché ancora più articolati dal punto di vista artistico, tecnico-compositivo ed evoluzionistico, ognuno diverso dall’altro e con evidenti differenze caratteriali. Differenze che, non meno di quelle che serpeggiano nel crucialmente narrativo ed altrettanto ambizioso “Slovo”, aumentano dal 2011 la caratura di una band che, dal profondo della Russia di cui resta una delle formazioni più importanti di sempre, non sembra perdere un briciolo di ispirazione lavoro dopo lavoro; e anzi, che continua ad evolversi anno dopo anno nonostante sia la principale causa dell’attenzione, tutta successiva, alla Russia e all’Est Europa del panorama Metal ai suoi piani più alti come bassi.

Giacomo “Caldix” Caldironi

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