Aethyrick – “Pilgrimage” (2022)

Artist: Aethyrick
Title: Pilgrimage
Label: The Sinister Flame Records
Year: 2022
Genre: Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “The Turning Away”
2. “In The Chapel Of One Spirit”
3. “Threefold Resurrection”
4. “Winds Of The Wanderer”
5. “A Brother To The Stars”
6. “Hallowed Bloodline”
7. “The Moon And Her Consort”
8. “Kingdom”

Un prezzo per l’ascesa è stato pagato in valuta dalle fluide tinte vermiglio scuro, una preghiera cantata con voce ultraterrena e una candela solitaria accesa per quel sole infuocato che è stato sotterrato nell’ultimo dei giorni trascorsi all’interno di una parentela genetica che non è rifugio, all’interno di un clan che non è casa: tre sono i passi compiuti al momento dell’uscita di “Apotheosis”, chiusura di un circolo fatto di sale e zolfo, e dunque il quarto full-length degli Aethyrick si esprime un anno dopo di essa -nonché dell’avvenuta consacrazione del progetto per chi scrive- quale l’effettiva prima ed ancor più cruciale falcata infuocata in un nuovo pellegrinaggio; una tutta sua narrativa di spine e chiodi in otto capitoli di risveglio e meraviglia trascendente che cantano di sacrificio e dell’abisso che ancora intercorre tra i concetti di mera liberazione e suprema libertà.

Il logo della band

Nobili ed enormemente distanti per natura da qualunque forma di massa e filone, eppure mai soli benché solitari sicché sempre più dotati di una calda emotività sconfinata, vicinissima al cuore, che continua a crescere di capitolo in capitolo, Gall ed Exile rimangono ergo interessati non a conquistare un qualche dominio nel mondo musicale plasmato d’altri, bensì intenti e saldi nel loro magnetico cosmo in evoluzione ed espansione mentre disincantati osservano quelli gonfiati dalle mode e dai trend passare e finire tra le braccia di un più che meritato oblio. Vale a dire: in “Pilgrimage” gli Aethyrick si confermano maestri nel decifrare e dare risposta alle più impercettibili sfumature e differenze inaudibili per l’orecchio distratto e facilone, dignitosamente riservate invece a quello di una vera e naturalissima élite; ma soprattutto, e per conseguenza, artisti abilissimi nella costante sofisticazione della scrittura in movimenti di un’ascesa rapidissima pur nella sua grande distribuzione nei termini temporali (un disco all’anno diventato ormai una prassi presumibilmente involontaria, possibilmente dettata più dai ritmi di una percettibile disciplina personale che altro, per intenderci) di cui i due esegeti finlandesi sembrano in verità e paradossalmente farsi assolute beffe.
Finita una trilogia nel modo migliore possibile non finisce dunque il lavoro del duo nel suo mistico esilio scelto in musica, né cambia indebitamente o per mero vezzo la sua più esteriore forma: le stelle avvicinate un anno fa si aprono come un muscolo cardiaco reciso a metà e nella loro dimora, nel cielo, dalla luce del principe degli astri celesti incoronato re fa capolino una luna rosso sangue, striata di nuvole d’oro – il precedente sé, metafora dell’esterno e della sua vicinanza, giace ucciso dalla costanza e dall’obbedienza ferrea del nuovo che, sempre più forte ed incorruttibile, ha preso il suo posto nel profondo di una musica che diviene ancora più sottilmente coinvolgente.

La band

Si prenda d’esempio non casualmente primo in tracklist una riuscitissima apertura quale “The Turning Away”, la storia di una frattura catabasica, la quale bissa il successo della già fenomenale “The Starlit Altar” che apriva invece “Apotheosis” con la sua struttura in un infinitesimale crescendo spaziale. Nella seconda bastava quell’urlo sgolato, dell’anima, puro, senza confini emotivi, che puoi sentire dentro e nel profondo come fosse tuo; nell’hic et nunc spadroneggia non dissimilmente in esito qualitativo tutta quella serie di accorgimenti disposti per la via di soli quattro minuti di perfezione compositiva che portano a quel cambio di tempo capace di fare la differenza tra un buon brano ed uno eccelso. Medesimo il discorso che vale per “Threefold Resurrection” e “Kingdom”: la prima con le sue melodie che mutano camaleontiche in inesplorati anfratti d’oscurità con un gusto attualmente alieno all’intero panorama Black Metal finlandese, fino al soprasensibile di quell’apertura di tastiere corali da brividi sulla rincorsa che reggono passati i due minuti di pezzo, di un freddo inaspettato che non ha età né lingua naturale umana; la seconda, per converso, forte dei suoi riff scorticanti che scorrono come sangue e nettare dalle vene aperte della Luna, sormontati dal ballare della chitarra acustica e dall’enfasi di un finale che non ha pari. In entrambi i casi, tuttavia, abbiamo infatti e facilmente altri due dei più bei pezzi scritti a quattro mani da Exile e Gall in altrettanti full-length ognuno più pregevole del sempre riuscito precedente.
In sostanza -e davvero di sostanza è qui il caso di parlare- mai sacrali come nelle atmosfere iridescenti di “Winds Of The Wanderer” e nella già citata conclusione “Kingdom” (con quei due minuti e mezzo del suo incipit “The Moon And Her Consort” che, legatovi com’è, dimostra un affinamento ulteriore in scrittura riprendendo la forma-canzone dalla media durata di “Gnosis” con risultati persino indescrivibilmente più alti), nuovi essenziali manifesti dal canto loro per lo stile ed il percorso estetico-musicale del duo, i timbri con cui gli Aethyrick giocano ed esplorano loro stessi in musica sono figli del non ortodosso oltremondano di Dead Can Dance e Tenhi, e con ciò ancora più vasti che in “Apotheosis”; un disco che sembrava impossibile superare soprattutto evitando balzi stilistici utili soltanto a togliere forzatamente qualunque paragone e non ad evolvere un panegirico musicale che (ormai pare chiaro) fa della sua millimetrica progressione un motivo di stentorea forza necessaria proprio a non potersi mai ripetere realmente. Invece “Pilgrimage” suona come se i due finlandesi avessero (cosa peraltro, viste le tempistiche, molto presumibilmente avvenuta) ripreso a comporre il giorno immediatamente successivo alla consegna del master del predecessore a The Sinister Flame – e forse addirittura prima. Solo così un gruppo che coltiva il suo linguaggio, fortissimo sì di una tradizione stregata ma divenuto ormai il suo solo ed inconfondibile linguaggio, può e riesce a creare qualcosa di veramente grande canzone dopo canzone, come fosse un esercizio per cui si è chiamati fino al completamento di un viaggio ai cui misteri è impossibile non rispondere affermativamente; solo così ogni aspetto di “Rosary Of Midnights”, di “In Blood Wisdom” e soprattutto “Path Of Ordeal” -tre gioielli del 2021 che forniscono se vogliamo la fortunatissima base d’approccio anche per il 2022- viene portato allo step successivo nella scorrevolezza di “Hallowed Bloodline”, nel guizzo di “A Brother To The Stars” e nel già omaggiato terzo brano, alla stregua del semplice prendere in mano gli strumenti un’altra volta – di fare mille metri di corsa tra i boschi e laghi splendenti in più, duecento metri di altitudine tra le nuvole tanto candide da accecare, in più, rispetto alla precedente vetta. Ma la smerigliatura sopraffina dei riff di “Threefold Resurrection” nella sua seconda cavalcata come i cori dell’eccezionale “A Brother To The Stars” valgono molto più di duecento metri di dislivello verso la vetta: valgono l’intero mondo che “Pilgrimage” racchiude in sé, rendendo seriamente spirituali i primi Emperor ed esponenzialmente più sofisticata e sognante la scrittura dei Nehëmah (ereditando insomma quella che potrebbe essere una certa concretizzazione dei Nasheim da Cosmic Church e Thy Serpent in egual misura, sebbene cambiandone sia pesi che cromìe), nei suoi otto brani prossimi alla compiutezza squisitamente non formale come quella di una fiamma che brucia in lingue tripartite, in eterno e senza mai spegnersi; di un suono che si fa pura, dolcissima e straziante poesia anche senza la necessità di ascoltare alcuna parola come avviene -tra gli altri casi- nella “In The Chapel Of One Spirit”, con quel suo splendido pianoforte finale ad intrecciarsi con lo scintillare tondo della chitarra ripulita per riprendere la celestiale melodia portante del brano, quasi una galleria firmata (si pensi al medesimo stratagemma ma elettrificato in “Threefold Resurrection”) che non potrebbe mostrarli più vicini alla figura di cantautori pagani, in veste Black Metal, dell’unico spirito della natura nelle infinite forme delle sue manifestazioni tangibili come invisibili.

Non tutti sono oggi né saranno domani in grado di cogliere la raffinatezza e la profondità di ciò che gli Aethyrick stanno costruendo, tassello dopo magnifico tassello; di sette, in sei, in otto indispensabili brani per volta. Quello che si può trovare nella membrana più superficiale di “Pilgrimage” è infatti un disco che porta ad un nuovo livello tanto le melodie più immediate di “Gnosis” quanto la più difficile sofisticazione di suono e rarefazioni algide disperse nei bellissimi solchi del magistrale “Apotheosis” un anno fa: un disco insomma più ruvido e rumoroso, dal canto suo, in cui i suoni sembrano farsi più scarni per diventare paradossalmente più ricchi e le tastiere si fanno meno preponderanti, più rare ed essenziali, in questo più simili proprio a “Gnosis” che non al predecessore targato 2021 nel suo tracciare e contrappuntare i momenti più salienti e di climax elevandoli nel frattempo a nuove, assolute sommità espressive per il gruppo. Ma quel che gli sta sotto è davvero destinato ai pochi in grado di capire e godere di come e quanto gli Aethyrick non siano affatto atmosferici perché ripetitivi o bravi ad interpretare un copione stilistico percepito come tale: bensì tali perché naturalmente fatti di traboccante atmosfera purissima. Mai prima, su tali coordinate musicali, hanno bruciato così ardentemente le visioni di paradisi irraggiungibili e visti così da vicino; mai prima il manto erboso e l’argilla sono sembrate al tatto così fertili e dolci qualora nascoste da una coltre di asperità. Perché ciò che è “Pilgrimage” sotto quella pur piacevole superficie di spine resta prima d’ogni altra cosa una preghiera al vento, alla terra, al fuoco e alle acque sacre che sembra urlare da ogni punto cardinale: i quattro grandi orizzonti celestiali che gli Aethyrick, ceneri vive come una stregoneria incarnatasi musica per veicolare l’essenza di momenti rarissimi e non ancora vissuti, richiamano a loro con estrema facoltà e forza in “Pilgrimage”; dove Dio e Dea, Morte e Vita, radici e fronde, femore spezzato e spiga di grano vanno mano per mano in sacra comunione.

Matteo “Theo” Damiani

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