Aethyrick – “Apotheosis” (2021)

Artist: Aethyrick
Title: Apotheosis
Label: The Sinister Flame Records
Year: 2021
Genre: Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “The Starlit Altar”
2. “Rosary Of Midnights”
3. “Flesh Once Divided”
4. “In Blood Wisdom”
5. “With Determined Steps”
6. “Path Of Ordeal”

Le due chiavi incrociate degli aethyr sul manto erboso, arrugginite dalla rugiada come il tempo infinito e custodite dal velo stellato sopra di esse, indicano il punto esatto d’arrivo e fine di una trilogia, nonché di tutto il lavoro fino ad oggi sigillato in musica dagli Aethyrick. Un percorso che è simile alla nascita e ai primi passi fuori dal grembo cosmico: emergere dall’esistenza inconscia, dalla vita preumana, giungendo con fatica al livello individuale solo per riconoscere che il proprio rimane in fondo davvero un tragico destino; quello di essere parti integranti ma non più integrate della natura, eppure proprio perciò trascendenti, scontando totalmente soli il caro prezzo di una libertà che è costata niente meno che l’agio celeste come fosse una maledizione. Liberi, ma inizialmente impotenti ed impauriti, e ciononostante non ancora privi della possibilità di riconoscere una condizione soprannaturale ed eccelsa nella discesa volontaria verso la materia con l’intento di conseguirne la risalita, finalmente, tramite acquisita consapevolezza divina. La cacciata degli angeli ribelli all’Inferno da parte dell’Arcangelo Michele, non uomo – non animale, è così rovesciata verso il genio visionario di Blake riletto in un satiro, invece uomo – e animale, secondo una delle infinite possibilità che si aprono all’ascoltatore nei meandri del terzo, maestoso full-length del duo finlandese stazionatosi di passaggio al suo commovente, grandemente emozionante picco delle già grandi qualità mostrate in precedenza sulla strada per divenire alterità compiuta, quella su cui è arrivato il momento cruciale di porre una pietra di paragone per sé.

Il logo della band

“Apotheosis” è quindi la risalita conclusiva dopo il sacrificio materiale in favore di una nuova conoscenza verso inedite e criptiche altezze spirituali; l’apotheosis assurge così al valore trasversale di vertice massimo tramite la percezione o la visione della divinità, l’incarnazione della stessa e la sua coerente ascesa verso il punto zenitale non soltanto del proprio operato, ma di uno stile che è riletto e superato con una raffinatezza sottile, quindi difficile e profonda, totalmente preclusa all’emotivamente distratto. Un termine ultimo di vita terrena per inclinare e fermare lo scorrere della clessidra, per sfociare nel totalmente incorporeo e rubare così un solo ma cruciale attimo d’infinito nella deificatio, mentre la carne avvelenata brucia finalmente sulla pira del solstizio e l’anima la trascende in un vortice di fiamme libere, danzanti come demoni – come le diaboliche ali da pipistrello del cielo notturno mentre avvinghiano il tiratore che -sempre parzialmente inconsapevole- rivolge la punta dello spirito ad uno in particolare dei quattordici astri figli di Adamo nella costellazione del dragone. Disposti concentrici (trasposizione del circolo di sale in terra di “Gnosis”, ora rotto per raggiungere nuovamente il cielo) attendono, riarrangiati come l’universo del discepolo dello spirito che è finalmente in grado di malleare, se non l’universo, almeno il suo proprio microcosmo interiore.
Il duo composto da Exile e Gall affila quindi ulteriormente le proprie lame, i propri armamenti, la propria scrittura di cesello, e trasformando i sette passaggi del precedente album negli allungati sei che lo seguono finisce per arrivare a risultati squisiti e sorprendenti nel loro genere, divenuto un imbuto nudo che avido raccoglie energie cosmiche a fini sconosciuti, stortando le leggi naturali a favore dell’acausalità; e in questo “Apotheosis” ci ricorda perfettamente come anche quando l’esperienza, la competenza persino, nella creazione di un’arte raffinata come un certo, distante tipo di Black Metal facile d’ascoltare ma difficilissimo da comprendere nella sua più incontaminata essenza (e non bias stilistico), dovesse sembrare in superficie sradicata dalla faccia del pianeta, sarebbe in realtà ancora conservata e pronta al risveglio nel mezzo di quegli aethyr, dormiente anche fosse per il prossimo centinaio d’anni ma destinata a ritrovare la sua via verso la superficie in nuovo sangue, fresco, in cui scorre quella medesima saggezza impossibile da spiegare ed insegnare. Perché, in fondo, che i suoi tratti echeggino fedeli alla lettera o meno non ha nessuna importanza: per chi ne condivide la sensibilità è infinitamente semplice (quanto impossibile altrimenti) afferrare il significato interiore di alcune composizioni, dal momento che è proprio l’oscurità più criptica, la più inspiegabile, quella che avvolge l’ignoto e gli aspetti più reconditi del mondo ad attirare fin da tempi immemori nella storia alcuni individui ad affacciarsi dentro al pozzo del mistero.

La band

Si ascoltino dunque le emersioni puntuali e pregevolmente inafferrabili nella diversità coesa dei sintetizzatori arcani fin dal primo, sinceramente doloroso brano: freddi, enigmatici, in ascesa come l’energia divina in ogni essere vivente, un kundalinī quale nebbia che sale dalle foreste di conifere, dalle trame terrene, grondanti sangue, delle chitarre rumorose e avvolgenti con le loro dispersioni di frequenze, nitide ma perfettamente grattanti e laceranti la superficie alla ricerca di succulente profondità emotive; stanze satiriche in cui risuonano canti e musiche del vespro, immerse nel vento e nel sentore di abete, di resina, in cui vengono nascoste commozioni e turbamenti fortissimi come uniche guide sensibili alla scoperta di sistemi ermetici, arti sabbatiche e magia popolare europea tradizionale. Nel suo solco, nel processo dialettico in sei sottilmente diversificate quanto coese parti (si constati infatti come ognuna provveda particolarmente a regalare momenti di assoluta caratterizzazione senza che esca mai dal seminato Aethyrick con l’unico intento di sorprendere l’ascoltatore poco immerso nelle sensazioni che questa vuole veicolare), non è poi troppo complesso notare come la band componga sempre musica che, seppure non presenti un grado inutilmente alto di chiassosa innovazione o stratagemmi per l’occhio inutili all’anima, è provvista del valore ben più raro dell’unicità; e non fa quindi differenza che si tratti dell’appassionato urlo disperato che accappona la pelle prima della penultima strofa d’apprensione di fronte a “The Starlit Altar” (e che permette di spendere un complimento per una prestazione vocale generalmente sopraffina), dei cori finali della drammatica ed umoralmente polimorfa “With Determined Steps” (linguaggio celeste prima delle confusione di Babele), o ancora della trascendentale tirata conclusiva in “Path Of Ordeal”, in cui ogni vizio fiorisce e le invocazioni diaboliche diventano miele per chi prega di trovare laggiù quel sostegno che il cielo non ha dapprima potuto concedere, e sulle cui chitarre acustiche in coda si scioglie ogni nodo accumulato in gola, cullati dalla vista rassicurante di un lago al tramonto sotto al sipario del cosmo.
Se già null’altro suonava infatti strettamente come ciò che si poteva ascoltare in “Gnosis”, proverbiale seconda freccia che centra l’obiettivo, in “Apotheosis” -terza punta sferrata che il bersaglio lo sfonda e trapassa- il duo compie l’ultimo passo di una rivoluzione alla ricerca di sé – elegantemente atmosferica senza allinearsi a nessun dettame del filone (novelli Cosmic Church con le dovute e gustose differenze del caso, se si vuole), dalla sensibilità d’un mare vellutato di melodie strazianti che è totalmente finlandese (grintose in “Flesh Once Divided” anche prima di narrato ed apertura finali) eppure con davvero nulla da spartire con nome e tratto alcuno del paese; e per l’appunto persino melodici in un modo ampiamente rumoroso che niente ha tuttavia in comune con alcuna tradizione tedesca (basti la dinamicità di “Rosary Of Midnights” per smarcarsene) o sinfonica novantiana, scandinava, nordica o più generalmente canonizzata che sia. Nella saggezza di una stirpe che è antica, nella spavalderia di chi la storia l’ha scritta, il duo s’inserisce con lo scopo ancor più ambizioso di altri di prolungarla, di renderla perennemente viva con le proprie inconfondibili forze, inevitabilmente uniche perché sincere e mosse dall’intento di non ripetersi e procedere con gnosi verso l’alto, determinato passo di pràxis dopo inarrestabile passo d’executio, dal granello di polvere “Praxis” al divoratore di stelle spavaldo che è “Apotheosis”; e di creare così facendo gioielli come la francamente sublime “In Blood Wisdom”, nel cui senso palpabile di grandiosità si compie l’evoluzione tra prima e seconda parte di brano con una fluidità che pochi possono permettersi di vantare e che fa domandare all’ascoltatore attento se non sia in fondo l’incarnazione di uno di quei perduti che le trachee dell’abisso han spedito in missione su in mezzo a noi, a farne solenne testimonianza.

Sentire freddo e sentirlo bruciare è quindi perfettamente normale all’ascolto di “Apotheosis”: perché ci parla sottile di un bluastro Inferno interiore non meno infinito del cielo, tutto riempito con le grida di dolore di ogni singolo dannato che abbiamo dentro e che si sente perso in sé a sua volta, trasformando però con passione tangibile l’impotenza di quel sussurro, la più buia notte dell’io, nel calvario serpentinato di pràxisgnòsisapotheosis che di abilità (un dono, non lo si dimentichi, esclusivo ed eccezionale) e conoscenza sommate a dedizione fanno la chiave per l’ascesa degli Aethyrick verso ciò che ad oggi è il proprio chef-d’œuvre. E la seconda, non meno importante ma solo coincidente chiave a cui si alludeva in apertura, naturalmente ossidata dal mutare dell’età quanto la prima e finalmente alla prima incrociata, è quella che dischiude con anticipo il pesante portone per il salone dei grandi tra i morti, di coloro che hanno già realmente lasciato qualcosa nel loro passaggio in vita; quelli, tra cui figura il maestro Timo Ketola con una delle sue ultime opere appositamente commissionate e concluse in vita a graziare l’album in modo indimenticabile, che arano la terra con la loro ombra quali anime più nobili la cui dignità vi è associata. Alla stirpe del primogenito di Adamo appartengono quindi da oggi, senza remore, anche gli Aethyrick – ad esso, al coro di tutte quelle empie gole che all’unisono strillano un canone, il mondo se ne possa accorgere banalmente in diretta o meno, vanno ad accompagnarsi nel segno di un trionfo più alto del mero gran disco, uno di apprensioni a cui abbandonarsi perdutamente, frutto di un raccolto che è loro da crescere ma felicemente nostro da cogliere.
L’apoteosi raggiunta, nel senso più artistico del termine, non può perciò essere un punto di non ritorno -seppure di per sé conclusivo di un ciclo- bensì la chiave per far sempre marcia su vecchi passi graziati da nuova perspicacia e vigore per raggiungere le stelle e superarle in risultati sempre più alti e precedentemente impensabili. Gli Aethyrick lo dimostrano nel disco dal titolo parlante che, con musica emozionante come di rado accade, porta a compimento la trilogia nel modo più semanticamente religioso del termine: quello di una re-ligio, la celebrazione del contatto con il divino nell’afferrare il legato della vita; e con una forza che religiosa è del resto in essenza, l’ascolto di “Apotheosis” non può pertanto che umiliare il ciarlatano, far piovere fuoco ardente sull’impuro. Perché i suoi autori, a differenza di troppi, troppi altri, potranno anche soffrire per fame, per inedia, potranno morire infine tra atroci martiri – bensì mai tormentati da quella che è la più grande ed inquietante di tutte le sofferenze: il dubbio, di fronte a cui anche gli angeli inizialmente esaltati attorno all’arciere Michele hanno distolto i volti occultati da due immense ali nere, e pianto.

Matteo “Theo” Damiani

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