Giugno 2019 – Batushka

 

Puntuali come le code infinite in posta all’inizio di ogni mese, eccoci pronti a discutere delle uscite che più di altre hanno incontrato i nostri gusti et favori durante lo scorrere di giugno.
Il primo mese estivo par excellence, solitamente, segna non tanto il mondano inizio del caldo più torrido ma, ben più importante, l’imminente ascesa di quel breve periodo di stanca di ogni anno sezionandolo così in due parti, un prima e un dopo temporali notoriamente più carichi di dischi in uscita rispetto alla razione in cui le temperature fuori dalle abitazioni si alzano; questo giugno sembra però aver rappresentato una discreta eccezione e, a modo suo, continuato a confermare il 2019 quale un’annata carica di ottima musica da scoprire e -al minimo- interessanti sorprese a seguire. Ad ogni modo, se gli ultimi mesi ci hanno visti generalmente molto (molto, molto) combattuti sulle scelte da farsi ogni volta terminate le loro quattro settimane, il sesto dell’annata in corso si è dimostrato più clemente e decisamente più rilassato in numeri – anche se assolutamente non meno variegato in stili proposti, invero particolarmente distanti fra loro: su tutti, sono spiccati il ritorno dei polacchi Batushka, intitolato “Panihida” (pubblicato autoprodotto in anteprima digitale, senza troppi complimenti, sull’estremo finire di maggio ma disponibile -ad oggi pur sempre e soltanto in formato digitale- dall’inizio di giugno) e una piccola ma non trascurabile sorpresa dal mai a riposo sottosuolo elvetico anche se con qualche nomination in meno rispetto al primo posto, assicurato saldamente e di stacco nelle mani della one-man band di Białystok.
Come di consueto, segue una gustosa parentesi su altri due dischi consigliati da parte dello staff in caso li abbiate persi.

 

 

Senza inseguire a tutti i costi un effetto a sorpresa utile soltanto a sorpassare quello dell’inevitabile primo (mossa che sarebbe stata inutilmente calcolata e traditrice di un’idea ancora oggi non povera di potenziali sviluppi), “Panihida” si dimostra quel capitolo secondo che, fosse ipoteticamente uscito privo di un’attesa eccessiva, avrebbe ricevuto acclamazione ben maggiore. Tuttavia, sebbene la risposta del mastermind Drabikowski -forte dell’estrema solidità di una visione stilistica e narrativa che precede come un fosco lanternino- replichi all’originalità di “Litourgiya” senza allontanarsene in assenza di motivo, non si può dire si limiti a riproporla: migliorare (l’approccio cambia, più maturo e fluido alle voci) e sviluppare il tema (atmosfere più lugubri e opprimenti), introdurre nuove sfumature espressive e portare alterne strategie compositive (tracce VIII e II, per citarne due in particolare) sono alcuni dei verbi che permettono di colpire senza farsi lontano in risultato. Chi può dire di aver seriamente apprezzato o compreso quanto “Litourgiya” voleva trasmettere difficilmente non apprezzerà anche “Panihida”, in ugual maniera se non di più; chi si era semplicemente accodato agli elogi senza crederci, per mera mancanza di opinioni, può -nemmeno a dirlo- guardare altrove.”

(Leggi di più nella colonna dedicata a “Pesn’ II”, qui.)

La liturgia iniziata nel 2015 non sembra essere ancora terminata. Tuttavia, come per un secondo atto del sinistro cerimoniale, il turibolo smette di essere percosso districando e diradando (in parte) le atmosferiche volute dell’incenso e permettendoci di delineare meglio le squadrate e nerissime linee di chitarra, più crude e sanguigne che in precedenza; al contrario della posizione di maggior rilievo del guitar-work, le vocals si fanno più sotterranee, quando acide ed estreme, in una posizione più integrata e meno avulsa al contesto; allo stesso modo i cori, nonostante non manchino momenti di maestosa e grandiosa magnificenza, infoltiscono organicamente le fitte trame della composizione senza ricoprire in continuazione il ruolo di protagonisti. Insomma, consapevole degli elementi unici che hanno permesso ai Batushka di distinguersi fin da subito nel panorama estremo, Krzysztof Drabikowski si è dimostrata in grado con “Panihida” di rielaborarli donando al progetto nuovi toni e nuove sfaccettature cromatiche, sfruttando al meglio un approccio più aspro e al contempo più complesso.”

Facendo parte di quello sparutissimo manipolo di emarginati che non si erano esattamente stracciati le vesti all’ascolto di “Litourgiya”, chi scrive aveva come unico cruccio quello di potersi trovare di fronte uno scialbo remake dell’opera, magari concepito al solo scopo di dare un segnale di vita nel bel mezzo dell’arcinota diatriba. Ma Drabikowski, a cui si può criticare tutto tranne la mancanza di un’idea musicale precisa per il suo progetto, ha pensato bene di rendere “Panihida” molto meno barocco e gonfio rispetto al predecessore, abbassando le tonalità generali e rendendo ancora più chiuso e soffocante il mood generale. Non si preoccupi chi non ha mai levato dallo stereo il debutto per questi ultimi quattro anni: tutti gli elementi che ne rendevano senz’altro originale la proposta sono ben presenti anche qui; eppure, l’uso dei tanto riveriti cori liturgici come rinforzo dell’atmosfera lugubre di per sé, anziché luminoso contraltare come a volte accadeva nel 2015, rende il disco decisamente più organico e omogeneo. Non manca qualche apertura dal sapore a tratti epico, ma queste non vanno mai a inficiare eccessivamente lo scorrere dei quaranta minuti di musica. Rancori e antipatie da social network stanno a zero, poiché con “Panihida” il nome dei Batushka torna ad essere associato alla musica; forse, anche più di quanto non meritasse in precedenza.”

“Contro ogni avversità e contro ogni azione infamante dettata dall’avidità, l’anima del progetto Batushka ha pubblicato nella sorpresa generale un disco in cui, fin dalle primissime note della prima canzone (tra l’altro la migliore del lavoro, a parere di chi scrive), è possibile comprendere non solo la reale appartenenza stilistica del progetto, con il ben caratteristico suono che ha reso il debutto un piccola gemma nera fin dall’uscita, ma anche alcune novità: il nuovo album segue la scia del precedente, tuttavia ampliando maggiormente le varie influenze che vi erano abbozzate all’interno, da quelle più esteticamente Doom a quelle più piccole (e quasi impercettibili) influenze Death che risiedono nel ribassamento di tono delle chitarre, finendo per non dimenticare ovviamente il retrogusto liturgico che dona al lavoro tutto il necessario sapore mistico-religioso. Infine, la scelta di una produzione molto più grezza conferisce al disco la giusta dimensione underground che ha così tanto dato al nome fin dagli inizi; degna quadratura per un lavoro le cui coordinate non necessitano affatto di orpelli plasticosi.”

 

 

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Alcuni nuovi amici svizzeri. Se negli ultimi due anni gli Ungfell hanno fatto così tanto al caso vostro che non riuscite più a tirarveli fuori dalla testa, smettete di provarci: semplicemente accostate loro i connazionali (e parenti) Kvelgeyst che aggiungono alla pozione qualche goccia di Urfaust e Malokarpatan. “Alkehest”, debutto uscito a metà mese tramite Vendetta Records, ha ricevuto l’ammirazione particolare di due figuri tra lo staff che ve parlano così:

“Chi è alla ricerca di un po’ di magia nera lo-fi mista a quel Black Metal dal piglio sbilenco e frenetico rintracciabile in casa Ungfell può interromperla, ma farà bene ad ingoiare il liquido melenso e maleodorante che gli Kvelgeyst offrono direttamente dal loro alambicco alchemico: la bolgia infernale tirata su dal terzetto elvetico si districa (s)piacevolmente nella sua mezz’ora abbondante di durata, fra non nuove ma sempre puntuali urla sguaiate, rantoli e brontolii di ogni genere, dipingendo atmosfere sicuramente suggestive, grottesche e personali quando lanciatissimi, ma -se vogliamo- dimostrandosi ancora acerbi e in affanno nel gestire le particolarità dei rallentamenti. Il fatto che, qualitativamente, la traccia di apertura e la title-track spicchino notevolmente per efficacia non esclude comunque l’interesse del debutto.”

Il debutto degli svizzeri Kvelgeyst ci regala diversi buoni spunti musicali ben piazzati attorno ad una base Black Metal di stampo piuttosto tradizionale, che finisce spesso per ritrovare le sue radici nell’Heavy/Black più sporco. Il concept della band ruota attorno a tematiche ritualistiche ed alchemiche che emergono soprattutto nei passaggi più storti e spiacevoli, quelli spesso costituiti da parti musicalmente più pulite e caratterizzate dalla presenza dei sintetizzatori. La schizofrenia di alcuni momenti, resa particolarmente gradevole anche dalla diversità dei vocalismi che donano profondità al tutto, restituisce un ascolto complessivo interessante e piacevole.”

 

 

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I canadesi (Canada, mica Quebec, eh!) Panzerfaust, sedicenti fondamentalisti Black Metal effettivamente sempre precisi nel rispondere con immancabile violenza al loro monicker, che con “The Suns Of Perdition – Chapter I: War, Horrid War” giungono al traguardo del quarto full-length nonché debutto per Eisenwald Tonschmiede (uscito il 14 giugno). L’opprimenza offertavi sembra aver conquistato il nostro Feanor

“Il ritorno dei canadesi è quel che si può descrivere come la perfetta evoluzione del loro nuovo cammino stilistico, inaugurato con il precedente lavoro, lo spartiacque EP “The Lucifer Principle” del 2016: un Black Metal a tratti soffocante che alterna parti feroci, abrasive, con momenti di stasi che suonano altrettanto annichilenti e sofferenti, veicolando alla perfezione in musica le fasi di cui si compone il processo di una guerra (non per nulla tema lirico centrale di questo lavoro); a tal proposito, è da segnalare la buona alternanza alle voci fra il cantante Goliath e il chitarrista Kaizer, che si spartiscono i testi tra growl rabbiosi e scream ferali stesi coerentemente con dissonanze e attacchi frontali Black/Death. A conti fatti, l’unica pecca sembra essere proprio la durata complessiva relativamente breve, che non supera la mezz’ora.”

 

 

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Infine, ultima nomina singola della giornata scappata per gli albionici Old Forest: nome ormai storico in ambito Black Metal se guardiamo alla vecchia Londra che colpisce per la sua virata inedita in “Black Forests Of Eternal Doom”, uscito il 21 del mese per Dusktone. Sorprendentemente, il quarto full del trio traccia paralleli proprio con il primo album dell’attuale band più nota del loro mastermind, convincendo particolarmente Feanor.

“Il nome Old Forest non è una novità, bensì una delle (ad oggi) tante band di James Fogarty (qui creditato come Kobold, ma non fatevi ingannare: è l’attuale cantante dei norvegesi In The Woods…); tuttavia, in “Black Forests Of Eternal Doom”, i Nostri scelgono di puntare su un buon Pagan Black Metal, mai eccesivamente classico, che alterna sinergicamente passaggi ferali affidati al cantato estremo con svariati, non rari momenti atmosferici e di più calmo retaggio Doom che colpiscono in quanto impreziositi dalla bellissima voce pulita di Fogarty. Sorpresa: non mancano delle piccole ma decisive influenze Progressive sparpagliate lungo il lavoro, probabilmente dovute proprio all’esperienza ormai importante del cantante e compositore negli In The Woods…, condivisa con Anders Kobro che dona di rimando il suo talento ritmico da ormai due dischi agli Old Forest. Decisamente un buon ritorno.”

 

 

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Fine dei giochi anche per questo mese. Ci siamo persi qualcosa (che non trovate in calendario qui)? In caso affermativo, vi invitiamo come sempre a farcelo sapere nella maniera che preferite così lo inseriamo e ascoltiamo anche noi; i modi per contattarci li conoscete (o li trovate qui).
In caso la risposta alla domanda sia invece negativa, non ci resta che fissare il prossimo rendez vous mensile ai primi di agosto quando anche luglio avrà avuto modo di dire la sua in tutta calma.
Nel frattempo, ascoltate gli Impavida.

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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