Wolves In The Throne Room – “Thrice Woven” (2017)

Artist: Wolves In The Throne Room
Title: Thrice Woven
Label: Artemisia Records
Year: 2017
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Born From The Serpent’s Eye”
2. “The Old Ones Are With Us”
3. “Angrboda”
4. “Mother Owl, Father Ocean”
5. “Fires Roar In The Palace Of The Moon”

Non è semplice fare i conti ogni giorno con il peso della mortalità della vita. Parafrasando Svevo (o, per esser più precisi, il suo più celebre antieroe Cosini), come un ruscello che converge in fiume, ogni detrito si accumula e aggiunge dell’esperienza nelle personali esistenze, invecchiandole, sia poi positiva o negativa poca differenza comporta. Ancor più difficile è giungere alla consapevolezza (per alcuni distruzione di ragione conosciuta, per via d’illuminazione) del concetto di eternità, così apparentemente irraggiungibile per i pensieri finalizzati quotidianamente come pocanzi. Eppure, la natura da cui proveniamo e a cui un giorno inevitabilmente ritorneremo è ricolma di esempi di eternità, risultando persino un manifesto del concetto essa stessa.
L’uomo, la natura e la morte. Una trinità legata a triplice filo che ci viene presentata inscindibile mediante metafore trasversalmente mitologiche in “Thrice Woven”, nuova e attesa fatica degli americani Wolves In The Throne Room.

Il logo della band

Ci sono voluti cinque anni, se si esclude l’esperimento laterale di “Celestite”, per veder tornare i più celebri interpreti del cosiddetto Cascadian Black Metal ad
esternare lo stile compositivo e di ricerca
che tanto li aveva caratterizzati e resi noti.
Un breve excursus informativo ci ricapitolerebbe che poco è stato chiaro e definito negli ultimi cinque anni dei Wolves In The Throne Room, le voci si sono sprecate e possiamo ammettere che in molti si ritrovarono spiazzati di fronte all’ultimo album, se non per il genere proposto, in misura ancor maggiore e più lecita per la sua natura: nient’altro che una reinterpretazione Ambient dei tratteggi del clamoroso “Celestial Lineage”.
A che pro?
Impossibile fu capire, al tempo, cosa spinse i due fratelli Weaver a compiere un passo artistico simile, il passaggio da Southern Lord alle autoproduzioni -creata la loro propria label Artemisia Records– ad alcuni fece presagire il peggio, ma oggi possiamo tranquillamente iniziare ad inquadrare l’operato di quegli anni di vago iato grazie all’uscita di “Thrice Woven”.
Sarebbe però incredibilmente sminuente recepire un disco simile come una mera spiegazione di intenti o una correzione, quindi va detto fin da subito che non si tratta di questo: il sesto full-length del trio di lupi di Olympia si presenta ammaliante fin dal suo raffinato concept che reinterpreta in chiave totalmente metaforica ed allegorica parte del pantheon Nord Europeo, facendolo proprio, incanalandolo nel proprio DNA espressivo ed impiegandolo come canale per veicolare sensazioni e percezioni comuni a qualunque essere vivente.

La band

L’arpeggio ancestrale, commovente, malinconico, dischiude il tutto dandoci il benvenuto in una danza inizialmente impalpabile di fuoco e ghiaccio, di mare e tempesta, di riffing dalla ciclicità perpetua che rifratto si innalza grazie alle aperture ascendenti dell’approccio subacqueo dei sintetizzatori analogici. E s’è vero che già “Celestial Lineage” giocava con ampissimi strati di sintetizzatori e tastiere, più strumentazione atta a creare arrangiamenti fuori dal mondo, solo in “Celestite” il pallino Ambient del duo compositivo aveva totalmente condotto le danze. “Born From The Serpent’s Eye” incanala proprio l’espressionismo del suo diretto predecessore in funzione di smantellarlo e ricostruirlo sulle sue strutture Black Metal rotonde, in cui il genere è solo il mezzo stilistico per ricreare un panorama sonoro di vastità sconcertante.
Ma, all’improvviso, l’aria da cristallina si fa irrespirabile. Il rituale ha vero inizio. Una variazione irrompe furibonda e spaventosa separa in due il percorrimento del fiume. Solo la voce eterea e folkloristica della dotatissima cantautrice moderna Anna Von Hausswolff riporta la calma, sciogliendo l’animo con ascetici versi declamati in svedese. I due alvei sono finalmente separati, pronti ad accoglierci per l’atto di celebrazione di Imbolc con uno Steve Von Till (Neurosis) a recitare ed invocare la forza della primavera in rinascita, vigorosa sul gelo ormai vinto da un crepitante focolare. In rapsodica venerazione, con parallelismo diretto al mito e pratica di Beltane, il cerchio lunare si compie e le energie di luce e vita si manifestano – così “The Old Ones Are With Us” gioca con progressione di tempi, aggiunte e stili al limite del sublime e cresce su sé stessa, primordiale ed arcaica con pacata mestizia.
La metafora piena di rimpianto per bellezza irrimediabilmente persa, che non avrà modo di tornare mai più, che in alcun caso avremo occasione di riassaporare, carezzare, divampa sulle sezioni caustiche e sibilline della nefasta gigantessa di ghiaccio dallo Jotunheim che dona il nome ad “Angrboda”: elegiaca in essenza, fortemente dolorosa in ogni sua parte di rara autenticità e cristallina ispirazione. La furia è incendiaria e solo la natura Ambient intrinseca la stempera, fondendosi confondibilmente con il chitarrismo, in sezioni di annichilente Doom che riprendono il discorso ormai cenere per farlo risorgere in piretica rinascita, da madre che è sontuoso rapace notturno, da padre che è oceano infinito ma che mai sarà in grado di spegnere i danni dei suoi figli.
Da una foresta lontana l’ugola soave che si sbilancia in picchi lancinanti della cantante svedese torna come in sogno, si intreccia con la splendida antica grand’arpa aggiunta al rumorismo delle avanguardie: le fronde che nella notte toccano le stelle ora fischiano e delimitano l’immenso palazzo della Luna, i fuochi ancora brillano e minacciano lontani. Sotto i nostri piedi nudi solo freddo muschio e roccia viva durante i quasi dodici minuti di finale grandiosità in cui lo stile del branco si issa maestoso, imponente, imperversando ruggente e con ieraticità, calma stoica, epica devastazione rassegnata che lascia presto spazio all’immensità spalancata dai giri concentrici del classico canone chitarristico dei Nostri, dalle vocals graffianti e acide, dalla cattiveria antica e dalla cupezza intensa con cui i tre scagliano con rabbia la loro personalissima ed inimitabile e straziante visione dell’apocalisse.

Le onde del mare, con il loro frastuono, sommergono e cancellano tutto.
Ciò che non possono né potranno mai cancellare è la bravura dei Wolves In The Throne Room, che oggi tirano le somme di  un percorso artistico da osservare con invidia e anche una punta di reverenza, destrutturato il passato Black Metal e destrutturata l’esperienza Ambient, ricostruiti in linguaggio iniziatico all’unisono e in perfetta sintesi espressiva.
“Thrice Woven” celebra la vita come parte inevitabile della morte, fisica e metafisica, in ogni suo aspetto: ciclico, triplice – di inizio, di fine e di rinascita nell’eterno sacrale segreto dell’esistenza; e se con dolore veniamo al mondo in inverno, sbocciamo e fioriamo in primavera, così la morte possa da ultimo coglierci una volta tornati al punto del perire dell’autunno.

“La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell’onda del mare, che -dacché si forma- muta ad ogni istante finché non muore.”

Matteo “Theo” Damiani

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