Walknut – “Graveforests And Their Shadows” (2007)

Artist: Walknut
Title: Graveforests And Their Shadows
Label: Stellar Winter Records
Year: 2007
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Hrimfaxi (Intro)”
2. “Motherland Ostenvegr”
3. “Come, Dreadful Ygg”
4. “The Midnightforest Of The Runes”
5. “Grim Woods”
6. “Skinfaxi (Outro)”

C’è sempre stato qualcosa di magnetico in quegli album rilasciati come debut da band scomparse dai radar subito dopo, consegnatesi ad un silenzio discografico non necessariamente indicatore del definitivo scioglimento ma anche soltanto di un rifiuto nell’aggiungere materiale superfluo ad una prima prova già avente in sé, possibilmente, ogni fibra della poetica che gli artisti in questione intendevano portare avanti col progetto.
Visto in azione sin dai tempi d’oro della Norvegia, nello schivo approccio dei Kvist come nella lunga quiete dopo la tempesta dei Mysticum (interrotta nel 2014 da un “Planet Satan” annunciato con preveggenza à la Twin Peaks ma non per niente accolto alquanto in sordina), un tale modus operandi opposto a qualsivoglia autocelebrazione edonistica si è sposato benissimo alla criptica weltanschauung elitaria del Black Metal divenendo, nel frattempo, un tratto abbastanza diffuso in quelle scene locali situate entro realtà geografiche di confine, le quali ad oggi sembrano aver raccolto l’attitudine da misterioso circolo interno andata da tempo immemore perduta in Scandinavia così come nel resto dell’Occidente continentale: si guardi infatti all’Australia, dove nessun legame geopolitico con Inghilterra e Stati Uniti può cancellare quel lunatico isolamento prima esacerbato dagli Abyssic Hate nel solitario totem “Suicidal Emotions” e poi eletto a condizione esistenziale dalle numerose anime in pena giù nel Nuovo Galles; oppure alla Russia la quale, specie nel 2022 che segna il quindicennale di un frammento di musica oscura tra i più rilucenti mai concepiti entro i suoi dibattuti confini, continua ad apparire come un luogo sterminato, agli stranieri fondamentalmente incomprensibile e forse per questo ancora inquietante.

Il logo della band

Ad ogni modo parlare di Russia sulle pagine quali le nostre, oltre che alle ovvie lodi ad libitum verso degli impareggiabili Arkona non casualmente per molti aspetti perfetti estranei al discorso, porta appunto a fare i conti con un sottomondo costruito sulla falsariga del corrispettivo norreno – ma d’altra parte, come pure nel coevo caso francese, mai capace di sfruttare la propria connotazione comunitaria qui raccolta entro le mure della famigerata Blazebirth Hall per realizzare prodotti di valore anche solamente accostabile a quelli giunti dalla Scandinavia, dove alla vicinanza fisiologica e geogrefica dei monicker facevano da specchio dei lavori non solo superlativi ma soprattutto radicalmente differenti tra loro. Sebbene nella propria nobiltà d’intenti, gli sforzi di Forest e Branikald finiscono così vittime prime del difficile materiale umano dietro di essi: vuoi coperti da dissidi interni sfociati nell’intimidazione paramafiosa, o da morti violente inflitte a colpi di lame affilate e, in generale, da molti altri giri di vite che avrebbero schiacciato la rilevanza di qualunque album non fosse intitolato “Hvis Lyset Tar Oss”. E una volta diradatosi il polverone in seguito allo sfaldarsi delle formazioni coinvolte come all’idea di una qualche raggiunta compiutezza data dalla compilation del 2003, intitolata “Hammerkrieg”, rimane solo un mucchietto di cenere in attesa di correnti ventose forti abbastanza da disperderlo nelle steppe fertilizzandone i terreni – di nuovo, in parallelo alla diaspora da Oslo al resto della Norvegia vista dopo il crucialissimo ‘94.
La folata a questo scopo destinata arriva infine nel 2007 per merito di due figure niente affatto estranee al giro di Novomoskovsk, ma in misura maggiore legate all’altro grande nome nel frattempo sorto all’ombra della capitale russa: entrambi membri di lunga data dei già rinomati Temnozor (a quel punto autori non solo dell’iconico “Horizons…”, ma soprattutto dell’imprescindibile “Folkstorm Of The Azure Nights” dal 2005), il tuttofare Svyagir ed il paroliere Gorruth mettono su di punto in bianco il progetto Walknut e si ribattezzano rispettivamente Stringsskald e Ravnaskrik in un reset che è personale e al tempo stesso dell’intera scena circostante. Non più un movimento collettivo dalle line-up precipuamente incestuose ma piuttosto un coacervo di opposte sensibilità avente nell’unico parto della diarchia moscovita un’adamantina punta di lancia.

La band

I nuovi nomi di battaglia ed il totale ricorso alla lingua inglese, tuttavia, non sono che la colonna di fumo visibile da molte miglia e suggerente un divampare creativo assai più ampio e ravvisabile soltanto avvicinandosi ai sei inestricabili capitoli che compongono “Graveforests And Their Shadows”; nonostante quel ben presente tocco crepuscolare (il disco è inaugurato dal rimando al mitologico destriero notturno “Hrimfaxi”, e toccherà giustamente attenderne la fine per vedere il corrispettivo solare “Skinfaxi”) che è già carattere fisso in chiunque -russo o meno- battesse il sentiero aperto dal pioniere Varg Vikernes, ai Walknut non basta più replicarne quelle movenze claudicanti accodandosi ad un carrozzone che nell’Oltrecortina è senza misteri sempre stato parecchio affollato. Il loro sguardo, semmai, oscilla tra la Madrepatria e le nazioni immediatamente attorno ad essa: come la Polonia, dove la giovane creatura Evilfeast sta dando il suo forte contributo nel riadattare le partiture dell’ex-Conte a possibilità esecutive inedite, ed ancora maggiormente l’Ucraina in cui degli iperattivi Drudkh (esattamente come i parenti meno atmosferici in Hate Forest) hanno già in curriculum un poker di full-length (più appendice acustica) dalla forza espressiva pressoché unica nei territori della fu Unione Sovietica. Complice la lettura delle suggestioni d’immagine e pensiero evolutesi fino al 2007 in Nokturnal Mortum e Negură Bunget, i due russi procedono nella ultimazione del proprio primo capitolo senza copiare nulla ma al contrario utilizzando tali virtuosi esempi come moto propulsivo verso l’eccellenza ottenuta tre lustri fa ad oggi.
Nessuna migliore introduzione, perciò, dell’enorme riff che apre una indimenticabile “Motherland Ostenvegr”: massiccio nel suo incedere pachidermico e tuttavia elegantissimo nell’effetto a cascata delle sei corde a metà strada tra un Burzum e i densi riverberi Gothic richiamati pure dall’agile divagazione strumentale “The Midnightforest Of The Runes”; la scrittura del duo confina il minimalismo della sua smaccata eppure contenutissima ispirazione principale alle ritmiche tenute da una batteria di presumibile natura elettronica e ciononostante graziata da un suono cristallino a dire poco, mentre strati su strati di cordofoni sporchissimi erigono colossali monumenti senza per questo relegare sullo sfondo l’aspetto dinamico, vero asso nella manica dei russi al pari dello stupendo lavoro di produzione dell’indaffarato Stringsskald. La stessa meravigliosa opener viaggia spedita tra sublimi impalcature melodiche e passaggi di buio completo presi a forza dal pioniere di Bergen, cambiando però colore e pattern in totale fluidità così similmente a un’altrettanto spettacolare “Come, Dreadful Ygg” la quale alterna episodi concitati a brevi scorci in poche note del limpido cielo notturno nel mezzo della taiga. Costantemente sospeso quindi tra sobrietà burzumiana e coralità ai limiti del sinfonico, e ciononostante privo di qualsiasi apporto tastieristico differente dal solenne ed imponente sfondo allestito dagli statuari sintetizzatori, “Graveforests And Their Shadows” si concede persino di sfumare i confini tra le sue due anime durante la catartica “Grim Woods”, sovrapposizione definitiva di furia tempestosa e fraseggi memorabili orchestrati su nulla più di semplicissime armonie per poi congedarsi all’apice della tensione: ben lungi dall’essere la classica outro sacrificabile, “Skinfaxi” è quella traccia che sì accompagna fuori da un’esperienza d’eccellenza, ma chiude la cornice aperta dal precedente e quarto scalino riprendendone l’epica malinconica ed aggiungendovi in extremis la firma dei soli grandi artisti, qui nella forma di uno sfogo chitarristico che pare un soffio di magia finlandese giunto sino alle fredde lande all’ombra degli Urali.

In un ambiente chiuso e restìo alle istanze di fuori quale era ai tempi e rimane ancora oggi la grande Madre Russia, dove pure dei campioni di consensi all’estero (tipo i concittadini sopra citati, gli Arkona) continuano a pubblicare copie dei loro platter in carattere cirillico per il mercato autoctono, Ravnaskrik e Stringsskald non solo abbattono ogni barriera linguistica senza barattare un’oncia del proprio senso d’appartenenza alla realtà pan-slavica, ma addirittura fanno tesoro dell’esperienza Black Metal in paesi segnati da divergenze rimarchevoli nei confronti della Patria onorata con smaccato piglio nazionalista dagli stessi Temnozor, traendo spunto dal passato ed anticipandone sul tempo, intanto, i più illustri rappresentanti attuali: così il fulmineo tremolo picking che sigilla l’ascolto pone le basi alla recente ondata melodica finnica in cui primeggiano gli Aethyrick, mentre l’ispirazione donata nel 2007 dai summenzionati Drudkh ritornerà di lì a nemmeno un quinquennio in Ucraina per rivivere tramite il folklore maggiormente pronunciato di quegli Ygg formatisi a Charkiv ed evocati nel terzo movimento: unici degni eredi dei maestri moscoviti Walknut e ad essi legati attraverso un filo di note ed immagini di portata universale destinato a resistere contro qualsiasi conflitto politico e culturale, voluto da piccoli uomini ed imposto a spiriti almeno in minima parte affini. Perché quello della musica che unisce i popoli rimarrà pur sempre un ingenuo mito, ma d’altronde per opere del calibro di “Graveforests And Their Shadows” la dimensione mitica è stata l’unica adatta a rappresentarne il valore intrinseco, intoccato se non a volte persino elevato dallo scorrere del tempo e dagli eterni cicli di splendore e tragedia che questo si porta appresso.

Michele “Ordog” Finelli

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