Varathron – “His Majesty At The Swamp” (1993)

Artist: Varathron
Title: His Majesty At The Swamp
Label: Cyber Music
Year: 1993
Genre: Black Metal
Country: Grecia

Tracklist:
1. “His Majesty At The Swamp”
2. “Son Of The Moon (Act II)”
3. “Unholy Funeral”
4. “Lustful Father”
5. “Nightly Kingdoms”
6. “Flower Of My Youth”
7. “The River Of My Souls”
8. “The Tressrising Of Nyarlathothep (Act I)”

“Gli uomini, cadendo in errore, le chiamano con un unico tremendo nome, ma in principio tre erano le Madri; come tre erano le Sorelle, le Muse, tre le Grazie, tre le Parche, tre le Furie…”

L’enigmatica prefazione posta come incipit al fittizio volume vergato dall’architetto ed alchimista Emilio Varelli, e di rimando all’“Inferno” impresso su pellicola dall’ai tempi ancora maestro Dario Argento nel 1980, seppure avvalendosi di nomenclature riconducibili al pantheon romanico, non lesinava nell’evidenziare il ciclico -per non dire ossessivo- ripetersi nella mitologia greca quando non in generale pan-europea delle triadi di figure femminili collegate all’ambito divino; non necessariamente portatrici di cattivi presagi ma, in ogni caso, guardate dai mortali con quel misto di desiderio e sospetto che è prassi nei confronti della tradizionale idea di donna tramandatasi sino ai giorni nostri. Volendo allora peccare di una certa presunzione nell’accostare tali eruditi riferimenti accademici ad un genere musicale da una parte indubbiamente periferico nella cultura di massa ma che, sebbene a modo suo, ha offerto fin dal concepimento ben più di un rapido sguardo al di là del velo che separa questa dimensione da quelle ultraterrene, tre erano stati dunque i meteoriti saettati nel cielo norvegese nell’arco dell’anno Satani 1992; tre le eruzioni vulcaniche di risposta giunte dalla vicina Svezia nel giro di dodici mesi; e soprattutto tre i maremoti che, nel frattempo, dalle profondità dell’Egeo, erano arrivati a scuotere una nazione che nulla aveva del gelo atavico della Scandinavia, della sua inconscia spinta a distaccarsi dal luogo comune di perfetta società futuristica nel ginepraio dell’Europa (ri)unita una volta prosciugati i rivoli della Guerra Fredda. Non si tratta certo di un complotto su larga scala ordito da chissà quali poteri occulti – e ciononostante la puntualità di tale schema cabalistico non può non far confidare persino i più razionali tra di noi nell’intervento di forze esterne all’esperienza tangibile, intente a scatenare su tutto il Vecchio Continente i soffocanti venti dell’Ade.

Il logo della band

Mentre la Norvegia l’anno precedente si era infatti presentata al mondo con i suoi figli più convinti e radicalizzati, e nel frangente i cugini rivali d’oltreconfine attraverso la propria entità meno stereotipata e maggiormente inquieta circa il proprio essere, la Grecia orgogliosamente outsider completa nel ‘93 una simile e stramba triangolazione mandando in avanscoperta quelli che in apparenza sembrano i classici sempliciotti finiti lì un po’ per caso e destinati dunque a rimanere nell’ombra dei loro compagni più iconici o creativi; all’incirca come sarebbe potuto toccare nel Grande Nord agli invero già assai maturi Immortal e Necrophobic.
In realtà, “His Majesty At The Swamp” non è tanto l’introduzione ai curiosi dei soli Varathron, il cui riconosciuto fondatore Spiros Papanastassatos ha subito abbandonato dopo i primi demo cedendo le redini al cantante Stefanos “Necroabyssious” Karasavvas, quanto semmai l’opus che tiene a battesimo un’intera scena sorta dove nessuno se ne sarebbe aspettata una: quel panorama che, per via della sua contingente ristrettezza demografica, può sfoggiare proprio qui il fior fiore degli esponenti storici. Accanto quindi al frontman tutt’oggi stabile al comando della formazione attuale, si occupa di chitarra, di parte del basso e dell’immancabile batteria elettronica il Dimitrios “Necroslaughter” Dorian fresco del mini-album d’esordio dei suoi Zemial, “Sleeping Under Tartarus”; mentre in qualità di special guest compare gente come il Magus Wampyr Daoloth, vera eminenza grigia dietro ai Necromantia (legati in fondo ai Varathron sin dallo split “The Black Arts – The Everlasting Sins” rilasciato pochissimo prima) alle prese con l’interezza dell’imprescindibile lavoro di tastiere, insieme al secondo perno Jim Mutilator (autore della musica e padre delle restanti e maggiori linee di quattro corde disseminate lungo l’opera) al quale fanno poi compagnia per dei brevi cameo nientemeno che i fratelli Tolis, pronti assieme all’allora fidato bassista a conquistare nel giro di quattro mesi l’intero sottobosco greco a colpi dei grandi pezzi racchiusi nel debutto dei Rotting Christ “Thy Mighty Contract”.

La band

A fronte di un simile dispiegamento di forze, peraltro coordinato dietro a manopole e levette dall’Antonios Delaportas produttore di un po’ tutte le uscite elleniche di quegli anni, era perciò impossibile che la prima fatica ufficiale del monicker in seguito spostatosi da Atene a Giannina non divenisse dal suo canto un archetipo dell’underground locale, di cui incarna già e appieno tutti gli stilemi strumentali come compositivi indicando la via in attesa che le seconde linee arrivino a perfezionarla formalmente ed aggiungervi ulteriori diramazioni lungo il tracciato.
La forza, come noto, sta nei numeri: di sicuro la neonata cerchia di artisti operanti all’ombra del Partenone si fonda su quanto inciso da altre realtà antecedenti seppur di poco antecedenti, come ad esempio il putrescente “Worship Him” degli svizzeri Samael o le registrazioni anzitempo diffuse dai nostri Mortuary Drape (uno dei tuttavia rarissimi casi d’influsso italiano percepito all’estero, checché ne dicano gli scribacchini di qui ansiosi di conferire al nostro paese meriti mai avuti), e ciononostante è il suo carattere collettivo a dare spessore autoriale a delle coordinate tracciate da gruppi in realtà isolati nel loro contesto geografico d’appartenenza, imprimendo sul panorama greco dei tratti somatici poi divenuti inconfondibilmente suoi. Una volta diradatisi i venefici fumi dell’omonima introduzione, “His Majesty At The Swamp” non tarda a ricoprirci del suo paludoso fango composto da grumi di riff impostati sul Mi basso anziché sui colpi di plettro a tutte le corde, come vorrebbe una prassi ben più settentrionale qui contrastata dallo sfacciato retaggio Heavy Metal dell’Europa continentale; l’inconfondibile sapore mediterraneo dei giri coi quali viene eretta la sequela di “Son Of The Moon”, “Unholy Funeral” e “Lustful Father” (quest’ultima senza dubbio la punta di diamante dell’album grazie al provvidenziale tocco di Sakis Tolis, allora impareggiabile per fluidità di scrittura e gusto nelle variazioni di tono e disposizione delle note) fa il paio col growl a metà tra lo strozzato ed il bisbigliato di Necroabyssius nell’imporre al disco un’atmosfera autenticamente dannata, irrorata dal soffocante incenso di riti proibiti illustrati da manoscritti dimenticati.
La ripetitività delle ritmiche pure gioca in tal senso, con le deflagrazioni di velocità inglobate sì nella completezza rottingchristiana del quarto episodio in scaletta ma giocanti un ruolo di primo piano soltanto nell’up beat in odor di Hellhammer che anima “Nightly Kingdoms”, oltre che nella seguente “Flowers Of My Youth” la quale, tra gli ancora rarissimi blast strabordanti ed il tremolo sfrigolante delle mani destre sulle corde alte, è la traccia che più guarda a nord dentro un platter dalle invece nettissime tendenze identitarie. Ci penseranno dunque i tamburi percossi da Themis Tolis sull’altra perla nera “The Tressrising Of Nyarlathothep” (registrata in separata sede e perciò dotata di una qui necessaria batteria analogica a differenza del resto della tracklist) a ridimensionare i bpm e ribadire il groove del Metal classico traslato nell’humus estremo, con giubilo dei fan stregati ancora oggi dai sortilegi sonori dei Varathron e dei loro colli messi a dura prova da questo iconico esordio.

Opera dunque ampiamente definibile manifesto non in quanto summa definitiva delle potenzialità del movimento, bensì grazie al suo carattere onnicomprensivo di croci e delizie proprie dell’oggi ampiamente riconosciuta via greca al Black Metal, “His Majesty At The Swamp” come del resto buona parte delle prove messe in quel periodo su compact disc dai connazionali compagni d’armi ha agilmente evitato qualsiasi forma di invecchiamento lungo i ben trent’anni tondi intercorsi dalla sua pubblicazione. Merito sicuramente di un sound a tutti gli effetti fuori dal tempo, sospeso tra urgenza di rinnovamento e ritorno alle ombre dell’antichità, e la cui intrinseca forza dirompente da un lato non ha permesso alla scena ellenica troppe evoluzioni stilistiche in seno a tale alveo sonoro; dall’altro, tuttavia, ha giustamente elevato a culto delle opere che l’ortodossia tipica del metallo nero avrebbe potuto con facilità isolare e ridurre a fenomeno locale da ignorare senza troppi ripensamenti.
Poco importa allora che i Varathron abbiano raggiunto una fama alquanto ridotta qualora comparata al successo mondiale dei Rotting Christ e all’alone di sacralità riservato all’estro decisamente più imprevedibile e unico persino nel suo genere dei Necromantia: c’è da star sicuri che a Necroabyssius, artigiano del genere -oggi come allora- saldamente immerso nell’underground con entrambi i piedi, basti l’essere riuscito ad affrancarsi dallo sfortunato ruolo di testa di ponte grazie ad un sophomore record chiamato “Walpurgisnacht” ed assai meno convenzionale rispetto allo slancio comunitario di “His Majesty At The Swamp”, quest’ultimo ad ogni modo un vero e proprio must per inquadrare quella che ai tempi fu forse la primissima risposta alla slavina discesa dalla Scandinavia, e di conseguenza segnale lampante di come questa ultima incarnazione della musica del Diavolo potesse adattarsi all’inconscio collettivo di qualunque popolo la cui gioventù ribelle e deviata finisse con l’esserne attratta.

Michele “Ordog” Finelli

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