Artist: The Great Old Ones
Title: “Tekeli-Li”
Label: Les Acteurs De L’Ombre Productions
Year: 2014
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Francia
Tracklist:
1. “Je Ne Suis Pas Fou”
2. “Antarctica”
3. “The Elder Things”
4. “Awakening”
5. “The Ascend”
6. “Behind The Mountains”
Cosa può nascere dall’incontro di cinque ragazzi appassionati di musica ma provenienti da (apparentemente) distanti mondi musicali come quello del Death Metal, del Post-Rock, del Post-Metal, del Neo-Folk, dell’Hardcore e del Black Metal?
Cosa può nascere da gusti così diversi che convergono in pochi(ssimi) casi come Wolves In The Throne Room, Altar Of Plagues e Cult Of Luna?
Da un melting pot tale nascono nel 2009 a Bordeaux, in Francia, i The Great Old Ones; alla lettura del presente monicker i più attenti non potranno che connettere istantaneamente il progetto alle letture del celebre Howard Phillips Lovecraft, ed infatti il nostro eclettico quintetto ha (finora) legato a doppio filo musiche e liriche dei due album rilasciati al mondo orrorificamente dipinto su carta dallo scrittore statunitense.
I Nostri debuttano solamente nel 2012, merito del contratto con la connazionale Les Acteurs De L’Ombre Productions che deve sicuramente aver sentito all’interno del promo di “Al Azif” (questo il titolo del primo album) la particolare ed insolita miscela di Post-Metal, vaghi accenni Shoegaze dati dai riverberi delle sei corde dal tono caldo e seducente, stratificazione sonora certosina di derivazione quasi Industrial, più eterei passaggi simil-acustici e suoni personalissimi nel contesto -tra il più fumoso Doom e lo Sludge– ricamanti il tutto il una sorta di Black Metal atmosferico decadentemente dilatato.
Dopo un’ottima prova simile le attese per capire se i The Great Old Ones rappresentassero solamente un abbozzo di idee paradossalmente ben riuscito o meno erano alte, e consci di questo i cinque dell’Aquitania non si sono fatti desiderare confezionando “Tekeli-Li” soli due anni dopo.
Da un rapido confronto con il debutto è identificabile al primo ascolto un trade-mark abbastanza distintivo già connaturato con i primi sei pezzi del 2012, portato ad un livello di maturità più elevato grazie ad una capacità maggiore ben sviluppata nei due anni trascorsi tra le fasi di scrittura e le (poche ma selezionate) esperienze dal vivo, che sono certo hanno permesso loro di affinare comprensione ed eventuali piccoli errori della precedente release, portandola sui palchi.
Quelli che ad un primo ascolto possono sembrare non invasivi strati di tastiere in realtà sono vari, profondi, curati e bellissimi layer di chitarra distorta (i Nostri non fanno affatto utilizzo di campionamenti di sorta o sintetizzatori) che rendono il tutto ancora più soffuso ma carico di minuziosi dettagli mantenenti il lavoro interessante e fresco anche dopo averlo spremuto e recepito nelle sue varie sfaccettature: uno degli esempi più immediati a tal proposito può essere la parte progressiva ascendente di “Antarctica”, che segue e si collega all’elegantissimo intro affidato ad un narrato in lingua madre (spesso utilizzata dalla band in alternativa o concomitanza al più passepartout inglese) e violoncello suonato per l’occasione dall’ospite Quentin Grendot.
Citando la stessa band nel debutto, le “visioni di R’lyeh” non sono mai state così significativamente vicine: il lavoro combinato di Cyrille Gachet ed Alan Douches ha creato nuovamente (e meglio) un suono particolarmente saturo di basse frequenze che, ciononostante, non infierisce sulla comprensibilità del prodotto finito ma va a rendere ancor più “acquosa” e oscura l’estetica musicale dei The Great Old Ones, sublimando e riempendo di significato le liriche curate dal cantante (uno dei due) e chitarrista (uno dei tre…) Benjamin Guerry ed il connotato visuale ad opera di Jeff Grimal (secondo cantante e altra chitarra della band) e della sua arte pittorica a tratti impressionista.
Il disco si mantiene compatto nella sua varietà di fondo, permettendo all’ascoltatore di goderne sia con l’ausilio dei testi per una comprensione più approfondita ma anche senza, pur risultando difficilmente catalogabile come un ascolto semplice per via della personalità, le variegate influenze e gli intenti del combo, tuttavia la bravura dei musicisti (sia in fase di scrittura ed arrangiamento curatissimo dei pezzi, che sotto l’aspetto meramente tecnico) permette al platter di non avere momenti di stanca e tenersi interessante per tutta la sua durata di circa cinquanta minuti.
I due momenti di più alto potenziale artistico, oltre alla già citata opener “Antarctica”, sono le finali “The Ascend” e la suite conclusiva rappresentata dai diciotto minuti scarsi di “Behind The Mountains” (chiaro riferimento al racconto breve “Alle Montagne Della Follia”).
“The Ascend” è sorprendente nel suo incedere unicamente strumentale, ma al contempo non necessitante nella maniera più assoluta della presenza di parti vocali, valore che dimostra ampiamente la qualità delle composizioni dei cinque francesi; la suite finale, invece, è un introspettivo riassunto di quello che l’ascoltatore ha ritrovato negli effettivi quattro pezzi precedenti, con l’aggiunta di una raffinatissima introduzione dal sapore a metà tra il neo-folk acustico-minimalista nonché lo-fi di scuola Tenhi (ma riconducibile anche a Vàli, Musk Ox o ai momenti più dolci degli americani Nechochwen) e complicate sezioni dal retaggio flamenco.
Da un paese come la Francia, che negli ultimi anni si è eretto foriero quasi assoluto di grandi novità e sperimentazioni in ambito Black Metal, ecco quindi giungere un ennesimo, immancabile e variopinto tassello che delizierà i padiglioni auricolari di coloro che nella musica estrema cercano sempre qualcosa di particolare e coraggioso, dove tuttavia non manchi il significato oscuramente intrinseco ed originario di questa nera frangia musicale.
Talentuosi indagatori dell’abisso e dei suoi orrori mentali umani, ci auguriamo, per diverso tempo ancora.
“The horror! The horror!” (Joseph Conrad, “Heart Of Darkness”)
– Matteo “Theo” Damiani –