Svikt – “I Elendighetens Selskap” (2011)

Artist: Svikt
Title: I Elendighetens Selskap
Label: Blut & Eisen Productions
Year: 2011
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Morkne Røtter”
2. “Maktesløs”
3. “Nattfall”
4. “Vi Knekker Sammen”
5. “Lemlestet Fordumssyn”
6. “Gråbein I Fåreklær”
7. “Et Misteg I Vinden”
8. “La Tonene Tale”

In un insospettabile 2011, una fiammata improvvisa squarcia le tenebre di Norvegia: una luce che arde con il doppio dello splendore e che conseguentemente brucia per metà del tempo precede di un infinitesimale attimo quel fragoroso tuono che è “I Elendighetens Selskap”, debutto nonché, al momento di questo scritto che ne celebra i dieci anni dall’uscita, unico vero e proprio disco a nome Svikt. Allo stesso modo in cui un fulmine, netto, sordo e sfolgorante nella sua potenza capace di annullare e polverizzare le membra del più coriaceo degli uomini, rischia di essere glissato nel momento in cui va a scaricare tutto il proprio vigore sul terreno spoglio, la graffiante presentazione dei ragazzi di Larvik vive l’ambivalenza ancestrale di un catastrofico fenomeno atmosferico; tanto affascinante e immortale nel suo essere sospeso nel tempo, immutato e immutabile nel corso delle ere, quanto sempre più difficilmente ritenuto degno di nota agli occhi apatici dell’osservatore analitico e frettoloso, ricettivi solo nei confronti di pindariche e spesso sterili novità e più presumibilmente ciechi dinnanzi ad un lavoro che non vede nell’innovazione ma nel rinnovamento un laternino da inseguire; che riscopre così un linguaggio già esplorato ed evoluto vivendolo nella sua essenza più pura e, nel farlo, batte sentieri spesso abbandonati da decenni, ritracciandoli con quella spontaneità e quel moto di ribellione propri dei giovani spiriti più indomiti.

Il logo della band

Sulle orme di un modo di fare musica che nel 2011 pare lontano millenni, smarrito tra gli strappi e le pieghe dei pentagrammi insanguinati e rotti della Norvegia, prende forma in “I Elendighetens Selskap” un approccio alla composizione volto a rigettare nei propri brani tutti gli aspetti più miseri e strazianti di quella finestrella effimera e subitanea affacciata sul mondo e chiamata vita, ma con un animo totalmente indifferente a corsi e ricorsi della storia tracciati dalla fine degli anni ‘90 in poi: mentre i riferimenti a quel crogiolo miracoloso e stordente di individui della prima ora (mossi da idee comuni e modi di suonare tanto unici quanto riconoscibili) si sprecano, è altrettanto lampante la totale indifferenza e quasi innovazione riposta tanto in quelle degenerazioni che nel True Norwegian Black Metal trovano un stilema da riproporre reclamando a gran voce e spesso maliziosamente una testardaggine fiera, quanto in quella sperimentazione poliedrica e dettata dal trasformismo più sfrenato che con vigore, follia e genio ha da sempre tracciato nella Terra dei Fiordi una decisa linea di controtendenza.
Insomma, l’ideale che Hrafn e Cornu (insieme al primissimo batterista Januz) hanno quando per la prima volta nel 2008 imbracciano i loro strumenti sono monumenti neri, taglienti ed eleganti come l’immortale “The Shadowthrone” dei Satyricon ed il mai abbastanza elogiato “For Kunsten Maa Vi Evig Vike” dei Kvist: una poetica dall’espressività strabordante e indissolubilmente radicata nel territorio, tanto maestosa e fitta nelle sue trame avvolgenti ma altrettanto spietata e acuminata. E se usare come riferimento principe due band in cui l’apporto maestoso delle tastiere è fondamentale e imprescindibile sembra quasi paradossale parlando degli Svikt, la cui strumentazione è ridotta all’osso, scarna e il più possibile essenziale, al contrario non può che andare a valorizzare il magnifico lavoro alle chitarre di Hrafn, incisivo e vario, sempre efficace, quasi una trasposizione di musica classica, e in grado di donare spessore e aggressività continua anche senza il supporto di svirgolate sinfoniche di sorta.

La band

Non è infatti l’essenzialità dei mezzi a contenere gli Svikt, che con un apparato visuale senza fronzoli di sorta e una totale noncuranza nei confronti di ciò che il panorama estremo del secondo decennio del nuovo millennio incorona degno di ascolto, lasciano parlare soltanto la loro musica; una che, nello specifico, aggredisce e incalza continuamente con movimenti corrosivi ma perfettamente distinguibili, fra linee che si rincorrono come animali braccati lanciati in disperata fuga e rasoiate figlie di una paganità alla Helheim e Perished. Un perpetuo turbine di rancore e risentimento frutto di un susseguirsi asfissiante di riff che definire ben curato sarebbe non solo tremendamente riduttivo bensì forse anche ingiusto nei riguardi di qualcosa partorito con indubbia ed udibile immediatezza, ma che per tono e incastri finisce per assumere in brani tonanti come “Et Misteg I Vinden” e “Gråbein I Fåreklær” quel piglio sferzante e quasi orchestrale cui si faceva riferimento qualche riga più in su. Eppure, in generale, ogni istante di “I Elendighetens Selskap” è il frutto di un’urgenza espressiva immediata e strabordante, che dall’abrasività infuocata di “Morkne Røtter” e a seguire per tutti ed otto i brani si manifesta in un songwriting sì in gran parte per forza di cose derivativo per suono all’orecchio moderno, o comunque non in grado di far compiere alcuna rivoluzione su sé stesso al pianeta Black Metal, ma che rifugge al contempo qualunque banalità essendo dotato di un’istintività che non stupisce essere il risultato di un impulso fulmineo di sessioni di registrazione inizialmente programmate per sole tre tracce. E poco importa se a scandire il tempo sono i rintocchi meccanici e piatti di una drum machine: non è certo l’abbandono di Skroemt a pochi giorni dall’inizio delle registrazioni a fermare quel fiume in piena portatore di acque impetuose, torbide e venefiche che sono i due pilastri del progetto Cornu e Hrafn, entrambi in uno stato di grazia unico e probabilmente ad oggi mai ripresentatosi che permette loro di mantenere altissimo il livello d’intensità anche nei pezzi che (come “Maktesløs”) tradiscono maggiormente la mancanza del tutto inattesa e -più spesso che non- totalmente inesistente di un batterista in carne ed ossa in un approccio globale tanto muscolare.
Tra la coda di “Vi Knekker Sammen” e le rasoiate laceranti di “Lemlestet Fordumssyn” esce allo scoperto tutta la devozione nei confronti dei progetti di Gylve Nagell: il primo a palesare quella vena folkloristica che permea il sottobosco dell’intero album con l’incursione finale del possente ed isengardesco coro maschile non dovesse bastare la foggia dei riff; la seconda con una squisita Darkthronenostalgia arrembante nell’attacco in medias res e delle vocals che si presentano inacidite all’inverosimile esplorando toni più bassi e rantolanti. Ma tutta la classe e la capacità espressiva dei nostri può riassumersi in due momenti che abbracciano in definitiva i lati più oscuri, ammalianti e riusciti del disco: un brano come “Nattfall”, che con la sovrapposizione di poche linee di chitarra a là Trelldom costruisce atmosfere tanto nere quanto ammantante di sentore pagano, o le progressioni dal tocco cautamente malinconico della finale “La Tonene Tale” in cui ogni parola viene meno, non può che far comprendere cosa abbia fatto breccia nei piani alti della Blut & Eisen Productions, avida sostenitrice, insieme all’etichetta madre World Terror Committee, di quella tendenza tanto intrapresa nei panorami più estremi della Germania di abbracciare la tradizione rielaborandola con un piglio fresco ed emozionalmente pregno. Per quanto infatti qui come nel resto del platter si rimanga in gran parte ancorati saldamente alla terra d’origine degli Svikt e ad un’efferatezza dai connotati quasi ferini, l’utilizzo trasversale, altamente ingegnoso e subdolo di registri tragici e svuotanti di natura incredibilmente umana e un’interpretazione del genere soltanto in superficie anacronistica rende bene poco stupefacente il fatto che a farne le veci sia stata la casa curatrice di creature come Nyktalgia e Luror.

“I Elendighetens Selskap” non è pertanto e nella maniera più assoluta un disco da ascoltare con brama nostalgica, ma una ventata di freschezza in un alveo che non ha età da cui farsi travolgere in tutta la sua squisita atemporalità; da riscoprire godendo di una genuinità e di un’onestà intellettuale in grado di spazzare via con spire di spessa e scura fuliggine decine e decine di band che ancora oggi celano sotto un corredo estetico di tutto punto le formule ripetute a memoria di una lezione norvegese i cui obiettivi sono stati totalmente persi di vista, e che invece, qui come davvero raramente altrove, sa ancora trasudare sangue, morte e disperazione, rilucendo di una freschezza di scrittura capace di far sobbalzare chiunque. Si tratta di un’opera, insomma, mossa dalla stessa identica carica che, per rimanere il Norvegia, ha permesso meno di tre anni dopo ai Kampfar di aprire un nuovo ciclo con (il non poi troppo dissimile) “Djevelmakt”, la stessa che in territori (geograficamente e musicalmente intesi) limitrofi rende un lavoro come il debutto dei Lifvsleda un’uscita da non perdere per niente al mondo; la stessa che, insomma, tiene viva quella fiamma nera che arde e rende unico nonché sempre vibrante un modo di fare Black Metal a tutti noi caro e noto, ma che talvolta e per mezzo di artisti fuori dal comune ancora è in grado di spaventare con incredibile sincerità, di spezzare il respiro imbrigliando ogni nostra attenzione alle evoluzioni più impercettibili di un brano o, al contrario, di farci smarrire nella foschia umida di ambienti selvaggi e ostili la cui fioca luce viene filtrata attraverso i profili aguzzi di arbusti intricati, i quali, mescolati alle sagome di volteggianti figure corvine, proiettano sul terreno i tormenti di incessanti travagli interiori.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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