Settembre 2020 – Finntroll

 

Le tenebre autunnali sono finalmente tra noi e nascosta nel loro malevolo abbraccio troviamo una nuova rassegna mensile di musica oscura dalla più squisita pregevolezza che mira a riassumere il meglio dell’assoluto meglio uscito durante un corposo settembre per merito del consueto totale di quattro album in sfilata, apripista dei quali (con largo vantaggio) l’attesissimo “Vredesvävd” dei finlandesi Finntroll (uscito il 19 per Century Media Records) contornato da tre runners-up, tutti a loro modo rispettivi campioni nell’immaginaria gara che va a premiarli singolarmente per il relativo aspetto di maggiore forza ben difficile, se non impossibile, da trovare negli altri – partendo dal tetro culto della morte in bianco e nero svedese che così tanto sa di Bergman, finendo nei pressi del trionfo della mistica eterogeneità esotica e muscolare greca, passando per l’odore di palude e diavoleria tipicamente finlandese…
Ma la pura magia d’autore senza compromessi di sorta e la totale meraviglia d’altro mondo che trasudano ed emergono intonse, inequivocabili dalla scrittura, dalle fattezze e dalla resa finale dei già indimenticabili nuovi brani che compongono la soluzione d’assoluta unicità nel viaggio interiore ed esteriore che è il settimo album in studio dei troll di Helsinki (seppur con ampio stacco di gradimento, neppure le uniche marce creature della stirpe ad aver in realtà riscosso successo e sincera acclamazione in redazione a settembre), sono molto semplicemente – quanto per nulla banalmente, e senza quelli che sarebbero troppi, inutili giri di parole, una grossa quando non enorme fetta del motivo primo ed ultimo per cui questa Webzine esiste fin dal suo principio, nonché del perché facciamo ogni giorno ciò che facciamo. Perché le mode vanno e vengono, gli stili conquistano e passano morenti; le grandi canzoni, al netto contrario, restano.

 

 

In poco meno di quaranta minuti i Finntroll scaraventano per l’ennesima volta un ascoltatore quanto mai inerme in scenari di incredibile coerenza narrativa, di capacità immersiva seriamennte unica al mondo, di profondità d’arrangiamento, di longevità cinematografica e di godimento senza pari. Tra picchi di oscurità, folklore, stregoneria silvana, melodia irresistibile, sciamanesimo paludoso e morte, dalla squisitezza del magico songwriting di colossale cesello in ogni secondo di ogni traccia che a doppio filo e senza respiro si lega e getta a capofitto con le altre nella composizione di “Vredesvävd”, alla foga di assassina quanto rara -se non altrove introvabile- urgenza in un contesto tanto suggestivo e universalmente metaforico, trapassando l’intero spettro stilistico a disposizione mescolando attente novità ad una firma più che distintiva inequivocabile, tutto è condensato all’inverosimile e senza ripetizioni, compresso in funzione di un’efficacia esorbitante ed orchestrato all’assoluta perfezione mentre i difetti vengono impalati ed impilati a ripetizione, senza pietà e senza possibilità di replica nei più inutili regni del tempo imperfetto, condizionale composto, del se e del ma. Contro tutto e tutti, anarchici ma ordinati, apprezzabili proprio cercando di non esserlo: più minacciosi, più incantevoli, più feroci e più sanguinari che mai. Per davvero.”

Bastano pochissimi istanti se non secondi per far capire a tutti come sia valsa la pena attendere sette anni un nuovo disco dei Finntroll: sintentizzando gli oscuri passaggi di “Ur Jordens Djup” e le stregate sinfonie di “Nifelvind”, reinterpretando con suprema classe e navigata esperienza quel sound già unico nel suo genere, i finlandesi riescono a dare vita ad una nuova formula ammantata di cupa e sinistra magia. Su tutto spicca, ancora più del solito, l’imponente lavoro di orchestrazione imbastito da Trollhorn: un grandioso intreccio tastieristico che su più livelli permea e veicola la struttura del pezzo, donando corpo, maestosità e colore a brani tanto eterogenei quanto saldamente legati fra loro, e che in quaranta minuti vanno a consacrare “Vredesvävd” fra i picchi assoluti della loro già imponente discografia e fra le migliori interpretazioni di Black Metal a tinte folkloristiche dell’ultima decade.”

Il settimo capitolo dei Finntroll sorprende discostandosi con scarto dall’eclettismo del precedente disco, scaraventandoci frontalmente tra sonorità Black Metal in chiave sinfonica. Il direttore d’orchestra è il ben conosciuto Trollhorn che va a spianare il terreno per una decina brani incalzanti ed energici, capaci, nonostante la breve durata, di regalarci ognuno un vortice di sensazioni tra epicità, folklore ed aggressività nuda e cruda. Un ottimo album “plug & play” che si discosta dall’incredibile complessità delle uscite di quest’anno e che continuerà a girare nelle cuffie del sottoscritto per ancora molto tempo.”

Dopo la perfezione formale di “Nifelvind” e la compiaciuta anarchia di “Blodsvept”, per la settima volta i finlandesi sacrificano la continuità stilistica sull’altare della costanza artistica e qualitativa, facendo ritorno al cuore di tenebra da cui era stato partorito “Ur Jordens Djup”. Forse ancor più che nel 2007 però la band demolisce l’ingombrante spettro dei passati successi, soppiantato questa volta da un sense-of-wonder di natura pagano-sciamanica non troppo distante dai cugini Moonsorrow: le melodie, forti e presenti in quantità, hanno l’odore amarognolo del muschio e della pioggia, persino non troppo forte sul momento ma comunque impossibile da levarsi dalle narici una volta scesi a valle. Un approccio così introspettivo precluderà di certo a “Vredesvävd” il successo fisiologicamente riservato ad altri capitoli della discografia (non lo apprezzeranno i nostalgici del solo boom Folk d’inizio decennio scorso né i “progressisti” per cui sperimentare significa buttare dentro una metrica hip hop o una voce pulita non necessaria), ma allo stesso tempo costituisce un’ulteriore scommessa vinta per uno dei gruppi meno stereotipati di sempre.”

Chi scrive è un vecchio fan dei primi quattro lavori targati Finntroll, uno che tuttavia non sente di aver mai apprezzato appieno i loro due ultimi album “Nifelvind” e “Blodsvept”, ma che nonostante tutto si riservava parecchia curiosità verso il settimo album della discografia (legittimata anche dal valore delle tre tracce regalate in anteprima). L’attesa è stata ampiamente ripagata da “Vredesvävd”, disco che trasuda un certo senso di raccordo verso i primi album del gruppo (grasso che cola per i nostalgici, in quei momenti!), garantito anche dalla sottotrama sonora oscura che serpeggia per tutto l’album e che ben si mescola ai classici elementi ed accenti Folk su cui la band costruisce il suo suono, qui decisivi nell’accentuare i riff di matrice Melodic Black Metal, strepitosi specialmente durante le varie e numerose sezioni ritmicamente al fulmicotone delle canzoni. Forse nulla di veramente innovativo questa volta, ma sincera dimostrazione che qualora supportata da valide intenzioni e scrittura la nostalgia ripaga sempre: sopratutto con i fan di vecchia data.”

Gli svedesi Lifvsleda, duo giunto al full-length di debutto intitolato “Det Besegrade Lifvet” tramite Shadow Records poco prima della metà di settembre, che ammaliano grossa parte dello staff (in continuità proprio con chi li ha preceduti nel corrente articolo) con la difficile semplicità di composizioni improbabilmente resistibili. Primo colpo e centro pieno delle presumibili molte bombe cariche di morte e nero destinate ad essere autografate dalla band.

“Il profilarsi cupo e scheletrico di alberi all’orizzonte bianco e gelido, il grande mistero senza volto di una claudicante figura silente eppure così impossibile da confondere con qualunque altra. La sensazione di essere al caldo a casa quando una vera casa non può esistere; la sensazione di malsana sicurezza di fronte a morte certa. Perché ogni morte è sempre più certa della vita e i Lifvsleda in “Det Besegrade Lifvet” lo ricordano con il falciare trionfale e marziale della migliore colonna sonora possibile allo scopo, con l’eloquenza dei maestri della negazione in due parole – e relative sfumature per i più attenti: Black Metal – fuori dal tempo e dallo spazio, scarno e ricercato, elegante e sanguigno, classico e così atipico al contempo da essere personalissimo. Anti-trend. Tills döden er alla tar!”

“Guardatevi bene dall’intepretare i dichiarati intenti nostalgici e la scarna seppur affascinante copertina laconicamente adagiata sugli estremi acromatici del debutto dei Lifvsleda come le premesse di un’uscita fuori tempo massimo. Chi aveva avuto modo di adocchiare l’EP “Manifest MMXIX” ed era rimasto sulle spine aspettando un degno seguito, sarà infatti ben felice di vedersi calare implacabile sul capo il filo acuminato della falce del duo svedese, portatrice di morte, accelerazioni mozzafiato e un modo di fare Black Metal privo di data di scadenza. Con un gusto nel riffing che va a scavare nei recessi dell’estremismo scandinavo, fra rimembranze Sorhin e perfino passaggi dal gusto Kvist, nonché una timida vena malinconica che pacatamente e con gusto si nasconde fra linee sotterranee di basso, i Lifvsleda debuttano con un disco che non lascia dubbi né scampo.”

“Nel loro disco di debutto gli svedesi Lifvsleda incentrano la totalità del loro immaginario sul concetto di morte e melanconia, immagini evidenti tanto nell’aspetto grafico quanto nel ben più importante rovescio musicale. Il motivo per cui occorre promuovere un disco che non ha certo intenzione di reinventare il Black Metal risiede specialmente nella estrema qualità del songwriting: non esiste infatti un momento soltanto in cui tra le nove tracce che costituiscono “Det Besegrade Lifvet” si presenti una anche vaga sensazione di monotonia o rilassatezza compositiva. Il flusso dell’album è in continua evoluzione e costantemente sballottato tra vocalismi e strumentazione: gli up-tempo sono infatti sempre incisivi e dei veri muri di dolore sonoro, ma non troviamo solo cariche frontali e non mancano infatti momenti più groovy, altri al limite del Doom, mescolati ad altri più evocativi e riflessivi, miscela che permette ai Lifvsleda di coprire un range di suoni più che soddisfacente in un contesto sfacciatamente tanto classico. Ciliegina sulla torta, una vaga quanto apprezzata ed indicata ritmica marziale che scandisce la conclusione (“Landet Bortom Skogen”) di una prima prova di grandissima qualità.”

Proseguendo indefessi lungo il filo che lega la terza band che di mode e trend se ne sbatte altamente, troviamo i finlandesi Ordinance: piccola realtà in solidissima crescita sotto le ali della pregevole The Sinister Flame Records che rilascia per conto del duo dell’Uusimaa il suo secondo full-length in lignaggio, a distanza di ben sei anni dall’interessante album di debutto intitolato “Relinquishment”. “In Purge There Is No Remission” li vede ora maturare e convincere di conseguenza.

Chitarre potenti e frantumanti, un compendio eterogeneo di registri ben calibrati e sapientemente incastonati in trame fitte e costruite con perizia, vocals gorgoglianti e cavernose che in contrasto si assestano su toni bassi e monocordi fungendo da mefitico collante. Ben più dinamici ed incisivi che nel debutto, sia per soluzioni che per sound, gli Ordinance di “In Purge There Is No Remission” riescono a spaziare agilmente da finezze come gli ottoni su “Obstructed Paths” ai densi, infuocati e caotici passaggi di “Credo Sceleratum”, dando alle stampe un disco sicuramente solido, avvincente e senza compromessi, al quale manca giusto e soltanto quell’ancora impalpabile quid che riesca a farli definitivamente spiccare in personalità e riconoscibilità.”

Pochi ma buoni deve essere la mission aziendale di The Sinister Flame Records, la quale con solo un paio di full editi durante l’anno ha comunque messo in mostra due progetti ben al di sopra della media persino nella fantastica terra finlandese; ed “In Purge There Is No Remission” nello specifico è un disco che in quanto a pura ferocia può guardare dall’alto in basso praticamente qualsiasi altra uscita, grazie ad una produzione semplicemente pachidermica in cui ogni strumento (chitarra, voce, perfino le orchestrazioni) vibra e ha serio spazio per fare davvero male a chi ascolta. La scrittura poi dà vita ad una danza macabra ove i riff groove e spaccamontagne dei migliori Archgoat vengono resi ancor più letali dagli arabeschi ricamati dall’ascia nelle fasi meno concitate, rimandanti agli Inquisition tanto quanto il ringhio del vocalist. Il Black Metal è il male? Anche fosse, gli Ordinance sono molto peggio.”

“Il secondo full-length dell’ancora poco conosciuto duo finlandese propone un Black Metal interessante e sfaccettato: se da un lato troviamo infatti la tipica furia aggressiva del genere e del panorama nazionale di provenieneza, dall’altro troviamo alcuni elementi di intonsa atmosfera, come nel caso dei lievi cori di voce pulita che conferiscono al disco una sinistra aura di malignità, nello specifico esempio per merito anche del contrasto con lo scream particolarmente roco del cantante e chitarrista Arttu Ratilainen. Il complesso è suonato e prodotto diligentemente, a metà strada fra una resa d’impatto grezza ed una pulita e dettagliata; altro escamotage che rende “In Purge There Is No Remission” decisamente interessante e longevo (che ci sia sotto lo zampino di Henri Sorvali al mix?). In molti, quanto sbagliando, potrebbero in realtà etichettare gli Ordinance come i Craft finlandesi; e sebbene alcune influenze minori tra quelle comuni alle due band siano innegabili, specialmente nelle sezioni più concitate del disco, i nostri dalla loro hanno ben altra profondità atmosferica, unita a riferimenti di tutt’altra natura e geografia, evidenziata da quella sottile melodicità morbosa e maligna ormai tipica del paese.”

Ormai in discesa, chiudono la kermesse i Katavasia: ensemble dal pedigree tutto greco che nonostante ciò va oltre il riduttivo concetto di supergruppo o divertissement, riuscendo con “Magnus Venator” nello sforzo di allinearsi qualitativamente ad alcuni tra i migliori episodi delle note band madri dei componenti. Il sophomore record della band è uscito ad inizio settembre per Floga Records e termina la selezione di oggi con il botto di una doppia nomina.

Mossi dallo stesso intento celebrativo alla base del riuscito “Patriarchs Of Evil” a firma Varathron, i Katavasia rimettono ordine nel frammentato scenario ellenico con un album fatto apposta per ricordarci come mai ci piacevano tanto i vecchi classici del 1993. Pur senza limitare mai quel retroterra folkloristico assolutamente necessario e distintivo in questo stile, al quale provvedono dei saltuari inserti acustici autoctoni ed esotici, le tastiere sulfuree tanto care alla band madre di Necroabyssious vengono quasi del tutto eliminate in modo da lasciare il campo al semplice fluire di riff e lick melodici incendiari: roba che per per scrittura e sincero divertimento durante l’ascolto potrebbe benissimo stare su “Thy Mighty Contract”, e che ciononostante oggi il buon Sakis Tolis non sarebbe in grado di concepire nemmeno dopo un pellegrinaggio sull’Olimpo.”

“Eccellente ritorno per i Katavasia in questo 2020 che si sta rivelando un anno davvero senza pari per la scena ellenica, con svariate ottime uscite discografiche a susseguirsi tra loro; quello che potremmo definire il supergruppo dell’Epiro non fa eccezione, pubblicando un album che musicalmente suona come un onesto tributo al lignaggio evolutivo del panorama greco, fatto di un Black Metal sia epico che melodico, mai esente dalle classiche sfuriate solitamente maggiormente proprie di altre latitudini, ma sempre graziato da quel tocco di natura mistico-maligna tipico della nazione. “Magnus Venator” è dunque un solido, convincente alternarsi di epicità e misticismo, esattamente ciò che ci si può e ci si deve aspettare d’altro canto da nomi quali quelli coinvolti all’interno di questo gruppo, con rispettive case in Hail Spirit Noir, Aenaon e Varathron per citarne solo una manciata. Tangibile spirito ellenico.”

Chiudendo quindi a cerchio con il testosterone in musica dei Katavasia sulle note energiche di “Babylon”, possiamo dunque salutare il suo crollo e parimenti la fine dell’articolo di oggi premendo nuovamente play a cascata per riascoltare il tripudio di umori e di linfa vitale in quelle di “Väktaren” e ricominciare così da zero un’altra volta ancora, almeno finché ottobre non sarà finito e non potremo riprendere il discorso partendo presumibilmente da “Utgard”, in quel momento accompagnato dal resto degli album che con valore forniranno la colonna sonora del prossimo viaggio di scoperta. E con una teatrale lungimiranza che nemmeno i Venom ebbero sul finire di “Black Metal”, quando con idee e spirito in autentico stato di grazia anticiparono “At War With Satan”, noi possiamo già garantire fin da ora che il prossimo incontro di questo (decimo) tipo sarà uno in cui malauguratamemente non figurerà il sedicente ritorno / ritrovamento o più verosimilmente scherzo del carissimo Fenriz tragicamente riciclato a nome Isengard. Ammesso ed assolutamente non concesso che di tale nome quest’ultimo possa davvero fregiarsi. All hail darkness and the ’20s!

 

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Pagan Storm News: 02/10 - 08/10 Successivo Lifvsleda - "Det Besegrade Lifvet" (2020)