Selvans – “Faunalia” (2018)

Artist: Selvans
Title: Faunalia
Label: Avantgarde Music
Year: 2018
Genre: Avantgarde/Folk Black Metal
Country: Italia

Tracklist:
1. “Ad Malum Finem”
2. “Notturno Peregrinar”
3. “Anna Perenna”
4. “Magna Mater Maior Mons”
5. “Phersu”
6. “Requiem Aprutii”

La seconda autentica prova su full-length per gli abruzzesi Selvans era preannunciata e percepita da tempo e da più d’una persona come quella decisiva. In un tutto sommato breve periodo si era di fatto passati dalle già decisive premesse di “Clangores Plenilunio” al più cupo drammatismo silvano di “Lupercalia”, fino all’appena accennata conferma di una caratura superiore sfumata nell’ambizioso sforzo collaborativo del 2016. Un vortice senz’altro ascendente che sembrava, tuttavia, rimandare il fatidico momento -sempre apparentemente molto vicino- di quella consacrazione a portata d’uscita che si percepiva potesse ormai giungere da un momento all’altro.

Il logo della band

“Faunalia”, effettivo secondo album del duo che continua ad essere accompagnato dalla figura trait d’union del fauno come lanternino spirituale e visivo attraverso la scoperta, analisi e finale mis en place di luci e ombre da disparate epoche, da culture e folklore intrisi di tradizione locale e trans-regionale, ce li ripresenta immediatamente mutati di veste ma non d’animo; una serie di cambiamenti a plasmarlo che, sebbene obiettivamente tirino talvolta a bersagli anche discretamente distanti da quelli più sicuri del passato, sono percepiti come naturali, quasi essenziali ed inevitabili nel percorso di grande coerenza portato avanti con coraggio dal gruppo.
Accanto alla sequela in processione spettrale di novità, se non stranianti sicuramente sorprendenti, che strappano come vento i Selvans alla sicura ombrosità delle fronde sotto cui si erano celati nel precedente capitolo maggiore, praticamente ogni elemento ad oggi sperimentato da Haruspex e Fulguriator è portato in “Faunalia” ad un livello di varietà che prosegue ben oltre le aspettative o le intuizioni al momento veicolate in musica dai nostri; la serie di ospiti e l’aspetto visivo che coronano l’opera non sono infatti, sebbene indici di un lavoro profondo e incline al perfezionismo, la quadratura unica di un cerchio artistico che ripesca altresì -e fisiologicamente- dal passato più distante del duo per legarlo al suo presente e crearvi così radioso futuro. Non stupisce difatti che, accanto ai colori caldi di nuove apparizioni D’Annunziane, i medesimi connotati più regionali e locali, mitologici e mitici già esplorati in epoche più remote a nome Draugr tornino oggi a far visita con riferimenti (pre-razionali o consci e più studiati che siano), citazioni, ganci ed arricchimenti cromatici, quando non direttamente stilistici, all’ormai collaudato trademark.

La band

Il satiro umbratile si fa così più spavaldo e narrativo, senza mai mancare di prudenza grazie alla precisa visione d’insieme, e inizia col cantare di stregoneria e riti d’altre età, pre-cristiane o successivamente proibite, dall’introduzione “Ad Malum Finem” che si lega in inscindibile guisa ai caratteri folkloristici di quello che sarà uno dei due momenti dell’intero lavoro più connessi alla forma già nota dei Selvans: quella carica di usanze che in “Notturno Peregrinar” apre da sola in quasi otto minuti a diverse delle novità inoculate dall’album, pur rimanendo ancorata agli episodi più ferini e scattanti sperimentati dal gruppo. Le metriche sono commutate direttamente e senza filtro dai ritmi della tradizione popolare, nella frenesia febbrile di un vortice swing, ora prestati alla veracità del dialetto abruzzese accostato a quello siciliano del primo ospite della kermesse, Agghiastru di fama Inchiuvatu, quasi a voler intingere il più possibile di velenosa e magica superstizione il carattere stregoico delle note già schiave dell’impiego di mandolino e organi reali (a muro, ma anche dell’organetto abruzzese, senza mancare l’incursione di una più tradizionale fisarmonica e il sorprendente passaggio dell’hammond) in un ballo che è tripudio di autentico folklore.
La composizione, che non parte dal Black Metal ma ben più sovente dal suono degli strumenti poveri, è una costante solo mascherata da un chitarrismo che (esclusi sporadici e più primadonneschi momenti nell’opener) è di conseguenza principalmente relegato e steso a gregario, per quanto pregevole, oggi meno sorprendente che in passato perché debitore alla natura tastiero-centrica dell’intero disco.
Musique concrète e field recording sono quindi passaggi liminali e “Anna Perenna” chiarisce l’accennata essenza in quello che è, ad oggi e con ogni probabilità, il brano più atipico e dalle tinte austeramente severe dei Selvans. Le scaramanzie sono cantate in uno slow-tempo saggiamente affidato all’uso veicolare ed imponente del solo latino, e le tinte serie introducono l’utilizzo delle sezioni corali maschili che ritroveremo da questo momento in tutto il resto dell’album, facendo arrivare al culmine -ove non giungono più le mere parole- un intrepido assolo di moog. L’audacia degli accostamenti tra sacro e profano è totalmente ripagata perché l’attacco diretto e violento di “Magna Mater Maior Mons” piomba sull’ascoltatore non ancora pronto al nostro satiro che, nel frattempo, ha già incominciato con sublime eleganza la dolce ecfrasi sulla madre Maiella a veglia dei suoi figli abruzzesi, che li protegge strenua col suo abbraccio forte insieme al padre Gran Sasso. I sentieri di Maja sono ripercorsi tra storia e mito con sentita emozione in un quarto d’ora di assoluta intensità, d’incremento di cori, di cambi di tempo e di bellezza che collima l’intera descrizione naturalistica (dal taglio svafniriano) con l’interludio affidato alle D’Annunziane declamazioni (in parte da “Il Libro Segreto”) dell’inconfondibile Mercy degli Ianva.
Dalle ali della nobile brezza sferzante, ci pensano invece gli artigli cremisi del “Phersu” a trascinarci nei sotterranei più terreni. Le suggestioni etrusche irrompono dalla tomba degli auguri nella necropoli di Taurinia, il sorriso spietato dell’Arlecchino demoniaco detta il tempo feroce del pezzo che mescola lo screaming funereo di casa Tumulus Anmatus agli accenti isocronici inglesi, rendendolo metricamente il più immediato del lotto per prosodia e ritmo incalzante; ferino, animalesco e maledetto come confermato dai fiati sghembi (flauti di varia antichità o le note tibiae) e sanguinanti a riempire le atmosfere tastieristiche più storte e orrorifiche: folli in particolare quando d’accompagnamento ai campionamenti da “L’Aldilà” di Lucio Fulci.
La parentesi da incubo finisce però presto e l’ascoltatore si sveglia di nuovo sui più concreti colli abruzzesi giunto innanzi al gran finale in tre atti; requiem dedicato alla regione selvaggia e indomabile, alla crudele bellezza che l’avvolge sia qualora candida carnefice che quando vittima stoicamente impotente al riversarsi a terra delle ultime ceneri. Nel quarto d’ora di più ardua assimilazione (ma invero di più grande resa a lungo termine) del disco, gli ambrati riferimenti cinematografici e lirici già propri dei Draugr si sprecano e vengono rivisitati per l’accostamento del carattere più popolare e antico (le trombe degli Ianva il più smaccato nel ricreare atmosfere western in espediente stilistico à la Death In June) a quello più aulico ed alto delle parti orchestrali, sinfoniche, corali (persino un soprano ad accentuare la vena drammatica della sezione centrale), mentre il muro del suono viene trafitto dalle lance dei sintetizzatori prima che il tutto si spenga nello scricchiolìo delle ultime fiamme.

“Faunalia” è uno di quei dischi per cui al fondo d’analisi ci si ritrova sempre con qualcosa di non detto o involontariamente tralasciato, così stratificato e piacevolmente complesso da renderne impossibile l’esaustiva eviscerazione dei caratteri cinematici per sua stessa costruzione (ancor più che per i palesi riferimenti). Perfettibile, come qualunque cosa (produzione in primis, non sempre ariosa a sufficienza per restituire al meglio ogni microscopica ma essenziale sfumatura di tastiere, sintetizzatori, pianoforti, dettagli di riffing e strumentazione autoctona – un peccato poterli scorgere solo dopo diversi ascolti, e solo con riproduttori d’alto livello a sopperire, in quanto nessuno di essi fintamente virtuale), ma allo stesso modo perfetto nella maturazione di ogni aspetto in seno alla band, anche e soprattutto nei non trascurabili calli di suono o scrittura della batteria (precedentemente tallone d’Achille delle prove in casa Selvans).
Allontanando così parte delle suggestioni atmosferiche in favor d’approccio Avantgarde e maggiormente sperimentale, merito anche del protagonismo centrale più marcato delle tastiere con il loro naturale morfismo, il duo abruzzese alza con carattere e varietà la proverbiale asticella consegnando -al minimo- il suo miglior lavoro e -al più- un disco dai punti di forza unici e dallo splendore a più d’un tratto commovente.

“Ex praeterito praesens prudenter agit ni futuram actionem deturpet.”

Matteo “Theo” Damiani

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