October Falls – “A Fall Of An Epoch” (2020)

Artist: October Falls
Title: A Fall Of An Epoch
Label: Purity Through Fire Records
Year: 2020
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “A Fall Of An Epoch”
2. “The Endtimes Rising”
3. “The Ruins Of What Once Was”
4. “Hammering The Tide”
5. “The Flood Of Drought”

È tremendamente difficile, forse anche inutile, riconoscere quale in fondo sia la natura più intima ed intonsa nel tessuto artistico degli October Falls, quella a cui -ammesso non sia proprio la sottile, delicatissima quanto caratteristica ambivalenza sfumante in unicum– il progetto non possa assolutamente fare a meno, pena la smaterializzazione di una personalità tanto impalpabile in inutile sensazionalismo quanto intransigente in poetica, se non quella che più immediatamente ed inconfondibilmente li contraddistingue fin dalle prime note di ogni nuovo album.

Il logo della band

Si potrebbe quindi partire, così come fa il nuovo capitolo discografico “A Fall Of An Epoch”, dalla delicatezza semplice di malinconiche note sgranate da una singola chitarra acustica, mentre fuori dalla cabina nella foresta il vento fischia imperterrito e accompagnato dalle impetuose onde del Mar Baltico a lambire le fredde coste della Finlandia in lontananza: del resto, molteplici sono ormai le realizzazioni completamente acustiche firmate dal monicker (da non dimenticare, per di più, che proprio la coppia di uscite usate come effettiva presentazione del progetto al pubblico, tra il 2003 ed il 2005, fu di siffatta natura), mentre mai è stato ad oggi rilasciato un lavoro che, qualora usante la controparte Dark Metal come suo strumento espressivo favorito, non faccia comunque alcun impiego del tiepido minimalismo tonale geograficamente ascritto alla sensibilità Neo-Folk à la Tenhi (o Folk, qualora preferiscasi un comprensibile allontanamento dai reami dell’inclinazione apocalittica alla matrice più storica, marziale e canzonata del genere); oppure, si potrebbe prendere in analisi proprio la violenza distruttiva sottintesa in quella stessa dolcezza caricata di tensione nell’esplosione degli elementi naturali (e quindi, banalmente, gli stessi accordi ma rivestiti di nero), che nella personale evoluzione di uomo e progetto in simbiosi è assurta presto a completezza quintessenziale degli stilemi ambientali ed acustici che Lehto fa ormai suoi da ormai quasi vent’anni, di rimando cruciali nella comprensione del fenomeno che sono i propri dischi (un’arte che mima la vita, in fondo) almeno quanto lo è la componente di quel Black Metal elegantemente oscuro ed elegiaco, luttuoso, e pur nella sua esplosività fulminante che ricorda il dirompere di una tempesta, sempre contraddistinto da una perizia melodica di un gusto tale da essere raro persino a latitudini che, dell’attento, del meticoloso approccio più raffinato alla melodia in musica estrema -una inclinazione che è, per assurdo, propensione culturale- non ha mai fatto particolare segreto.

Mikko Lehto

I cieli si anneriscono sovrastanti, l’orizzonte si tinge scarlatto mentre il canto sgraziato e colmo di angoscia di un corvo risuona nell’aria riempiendola di un funesto presagio di fine e d’immobilismo direzionale, la stessa conclusione amara nell’abbraccio del vuoto esistenziale: quel buco a forma di dio lasciato nel cuore, insomma, da una violenza urbana fin de siècle che non ha risparmiato, in superficie o profondità che sia, nessun’anima. “A Fall Of An Epoch”, nonostante la distanza dal suo predecessore sia quanto mai ragguardevole se comparata a quelli che fino a quel momento furono i ritmi del trio, non si presenta dacché come un effettivo disco di frattura: non caratterialmente, quantomeno, posto che il senso di rammarico, di travaglio interiore, sgomento ed abbandono all’inevitabile che la musica composta (principalmente) da Mikko Lehto ha sempre trasmesso resta fortissimo oggi quanto ieri nelle trame chitarristiche sofferte e dal trademark smaccatamente inconfondibile – sono tuttavia proprio queste, a conduzione verso una struttura più ampia e circolare, che distaccano il quinto full-length del rinnovato trio dalla ricca compattezza compositiva dei più brevi brani di “The Plague Of A Coming Age”, cambiando strategie d’arrangiamento e trovando al contrario quadra nella stasi strutturale, solitaria e meno canzonata che già aveva fatto l’enorme squisitezza degli October Falls a cavallo tra l’atavismo di “The Womb Of Primordial Nature” e la devastante dilatazione del maestoso “A Collapse Of Faith”.
Le reiterazioni si impongono più decisive, i pezzi più lunghi e quindi duri che nell’immediato passato, i toni più aspri persino e rigidi nello scheletro, quasi rigorosi nella restituzione di una parvenza di semplicità a vestire nobilmente trame che in realtà sono essenzialmente complesse per arrangiamenti nonostante conservino un approccio estremamente melodico ed immediato nell’intrecciarsi delle sei corde, rapide lingue di serpenti del vecchio mondo; coerentemente, sotto al tripudio chitarristico di progressioni in sedicesimi più alchemico e scorrevole ma complicato che mai (continui i paesaggi in cui tre o quattro chitarre distorte e in full-gain sfumano, compaiono e scompaiono, dialogando con una sola strabiliante voce tra ritmiche, armoniche e soliste, rimanendo nondimeno strazianti e viscose), le linee di basso suonate da Henri Sorvali (di scontata fama Moonsorrow e Finntroll, non sola new-entry ma anche capacissimo produttore dell’album) rimangono più tragiche, semplici ed ipnotiche, sicuramente lontane anche per colori dall’eclettismo e dalla pienezza roccioasa in fill armonici del dipartito Sami Hinkka, ma non meno gustose od incisive (in questo sì, maggiormente in soluzione di continuità con la parte centrale di discografia di Lehto e Tarvonen); e se i crescendo vengono questa volta ridotti ai minimi termini in favore di velocità ed intensità raramente pareggiate dal lavoro targato October Falls, è altresì vero che gli scintillanti respiri acustici spezzati dalle scariche batteristiche ed elettriche, dalle rasoiate ritmiche e dallo screaming grigio, ferito a morte e consumato di Mikko rendono la contraddizione ancora più efficace, più precisa e armoniosa che in passato, un autentico emblema di unità e continuità proprio nella sua tagliente disgregazione in parti complementari, giustapposte o coralizzate in base all’esigenza.
Esattamente nel gestire questo aspetto, Marko Tarvonen si dimostra ancora una volta uno dei batteristi più talentuosi, personali in timbrica e graziati da maggior gusto in fase di scrittura ed arrangiamento -e ciononostante di servizio quasi militare alla canzone- del genere tutto: le rullate rimbombano impetuose con una pienezza encomiabile (semplicemente fulminante quella che apre il disco, tra le molte altre), le trasformazioni sono fluide e progressive, ogni colpo secco inferto ad un tom è una martellata di testosterone (complice la scrittura del basso ad opera di Sorvali, il parallelo coi Moonsorrow è qui senz’altro più ampio che mai) a picchiare rumorosa come grandine su una struttura melodica fané, piena di sensibilità, poeticità e nerezza, in un risultato che lascia a bocca aperta per l’estremo sincretismo che questi apparenti opposti generano insieme sciogliendosi, pugno di ferro in guanto di velluto, divenendo un’unica inscindibile funzione carica di commovente dramma epico.

Arrivati al traguardo del quinto album in studio, pertanto, gli October Falls riescono nuovamente a sorprendere spostandosi con sbalorditiva naturalezza sul pentagramma in cambiamento nonostante, nel farlo, cristallizzino ancor più fortemente la loro personalità inestricabilmente fatta di malinconia, di spleen corvino e di fine intimismo in un’anima prettamente Folk che viene orchestrata e trova esiziale indurimento nei leitmotiv fluidi, eseguiti da manuale, di un Black Metal d’esistenzialismo tanto raffinato, galante e melodico, quanto pauperistico in sensibilità e sporco in profondità, pungente come la forza indomabile della natura primordiale, catastrofico ed altrettanto romantico: il ventre della bufera di neve che si fa rifugio caldo, odoroso di resina, lontano da una civiltà ormai prossima al collasso e percepita intrisa di disperazione nella sua pluralità; la forza, semplice e splendida, della solitudine e dell’unità ritrovata; ma sotto allo scintillio della coltre bianca, sotto al ghiaccio che su un lago immobilizza i ricordi ed anestetizza le emozioni rimandandone con speranza il confronto alla forza della primavera, sotto allo spumare impetuoso delle onde in tempesta sferzate dalle raffiche più fredde, in primo ed immancabile luogo, “A Fall Of An Epoch” è con maestosa classe l’ossimoro: il ribollire del sanguinante cuore del nord.

Matteo “Theo” Damiani

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