Mortem – “Ravnsvart” (2019)

Artist: Mortem
Title: Ravnsvart
Label: Peaceville Records
Year: 2019
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Ravnsvart”
2. “Sjelestjeler”
3. “Blood Horizon”
4. “Mørkets Monolitter”
5. “Truly Damned”
6. “Demon Shadow”
7. “Port Darkness”
8. “The Core”

Non proprio tutti i giorni accade che uno squarcio di 1996 faccia capolino con intensità tale da far dubitare l’impossibilità dell’avvenuta invenzione di una macchina del tempo senza che i principali notiziari ne abbiano fatto menzione, anche e soprattutto in periodi di nostalgia posticcia e come-back tra il discutibile, l’indifferente, l’interlocutorio e l’imbarazzante.
Decisamente non tutti i giorni capita nemmeno che un cosiddetto supergruppo finisca per realizzare un disco di pieno valore, senza che l’infido manierismo che bolla (preventivamente quanto in realtà correttamente) le uscite di tale stampo si mostri tronfio quale unica pietra sporgente a cui la composizione si aggrappa, senza poi troppa convinzione, trattandosi nella maggior parte dei casi di sassolini che aspettano solo di essere rimossi da scarpe divenute troppo strette attorno ai piedi di musicisti, acclamati e famosi, magari anche di talento, ma semplicemente un poco stanchi del loro rinomato progetto principale.

Il logo della band

Ma più che una proverbiale e rara eccezione a confermare la regola, forse un caso non è che i norvegesi Mortem poi tanto supergruppo, a conti fatti e ben vedere, non lo siano. Altrettanto caso probabilmente non è che, nonostante l’uscita (e soprattutto l’ascolto) di “Ravnsvart” un po’ di effetto clessidra rotta lo faccia, non porti a interrogarsi sull’esistenza di un’ipotetica macchina del tempo: a trent’anni di distanza esatta dal loro primo ed unico lascito (prossimo nell’immaginario comune del ventennio successivo ad essere dimenticato come il passaggio pre-Arcturus di Sverd, Hellhammer e Marius Vold dei Thorns, quest’ultimo il primo cantante della band di avanguardisti norvegesi su “My Angel” del 1991), ovverosia il demo “Slow Death” del 1989 (titolo più loquace di qualunque descrizione), i Mortem confermano a chiare lettere fatte di Black Metal dai tratteggi di maligno grandeur sinfonico (di quello sottile, raffinato, riluttante al bombastico) e flavour smaccatamente norvegese che i macchinari per simili viaggi spazio-temporali ancora non esistono -e nemmeno servono a granché- ma che le riesumazioni graziate da una pura ed innegabile propensione ad un certo genere di musica riescono talvolta ad avere anche del miracoloso.

La band

Si riporta subito indietro la lancetta dell’orologio allo scoccare del primo secondo della maestosa title-track che con i suoi giri ampi e voli delle aperture melodiche ad altezze vertiginose (forti i richiami ai ritmi valzer dell’Avantgarde novantiano) apre il disco, questo debutto inatteso e inaspettato di una band che senza particolari meriti se non quello di essere stato crogiolo (come molti altri embrioni Death della fine ’80 in Norvegia) di musicisti prossimi a scrivere più di qualche pagina della musica estrema; ma chi si sottopone all’ascolto con curiosità compie l’azione con un soddisfatto sorriso anche quando per ammissione è meno avvezzo o incline alle proposte di revivalismo o citazione, perché quel che fanno i Mortem non potrebbe di fatto piazzarsi più lontano dall’esserlo in essenza.
Si riparte proprio dall’inconfondibile stile degli Arcturus degli albori, da quel breve “My Angel” che è la pietra di paragone con cui si confronta una line-up di amici ritrovati cristallizzata nel tempo (raggiunta dal bassista Tor Stavenes di fama 1349), giungendo fino ad “Aspera Hiems Symphonia” coraggiosamente incluso per rileggerne l’operato e ricreare una precisa magia strumentale che -sviluppata con questo preciso gusto in questo preciso frame-work stilistico- non veniva forse ripresa (e con ciò non si sottintende non sia stato fatto con la stessa qualità, bensì in toto) proprio dalla parte centrale della nera decade ‘90.
La voce di Vold è pestifera, ricchissima di gracchianti e grasse tonalità medie – stile d’altri tempi perfettamente reinterpretato che riporta alla mente l’operato dei Kvist non per coincidenza datato 1996 (“Blood Horizon” e “Sjelestjeler” i migliori esempi del misfatto), rimaneggiati anche nel gusto chitarristico di Sverd che manipola dalla sua dei toni nodosi e di grande originalità (sfiorando la squisita rumorosità metallica e cava del basso otto corde dei primi Necromantia usato come chitarra ritmica) che si sublimano nell’atipica “Mørkets Monolitter” o in “Port Darkness”, mentre tagliano come rasoi sui tempi sincopati della micidiale “Truly Damned” ed Hellhammer mostra tutta la sua perizia e grande inventiva specialmente nelle parti più lente o cadenzate (deus juvante un’espressività coi pedali da quest’ultimo raramente dimostrata anche in ambiti più melodici). Il basso resta più indietro come da tradizione a compattare un sound che, anche grazie alla sua posizione (e nonostante la rilevante distorsione), lascia sempre ottimo respiro ed ariosità all’intera proposta; menzione totalmente a parte la merita, come forse prevedibile per gli estimatori, il lavoro tastieristico squisito ed impareggiabile di Johnsen: impossibile portare come esempio l’una o l’altra parte, tra quelle più magniloquenti o quelle più sotterranee – tutte sono elemento chiave semplicemente imprescindibile per la tessitura di atmosfere incantate, sospese nel tempo, dall’incredibile inventiva, variegatura e levatura in ogni momento degli otto brani del disco. Da quelle sottilmente orchestrali a condurre i giochi in “Blood Horizon” ai tetri pinnacoli quasi gotici e Dark di “Mørkets Monolitter”, passando per quelle della magica epica sanguinosa di “Demon Shadow”, finendo con gli archi della graffiante “Port Darkness” o della conclusiva “The Core” che fa anche uso di suggestiva effettistica onirica sul finale – le chitarre vengono quasi sempre raddoppiate dalle stratificazioni degli 88 tasti e delle Korg senza che queste, con le grandiose esplosioni di atmosfera nebbiosa e misteriosa che generano, tolgano mai impatto e violenza a musica che rimane ritmicamente serrata e precisa senza per questo diventare sterilmente chirurgica.
Come il 1988 non fosse mai finito, ad esempio, “Demon Shadow” lascia a bocca aperta mostrando quanto sia ancora un buon giorno per morire, tanto che la sezione che si dischiude verso i due minuti di timing potrebbe tranquillamente essere stata presa da “Blood Fire Death” – tra l’irresistibile ritmo pounding pounding e persino un sanguigno assolo claudicante con relativa linea ritmica sottostante mutuati dalla penna di Quorthon; eppure i Mortem la orchestrano con una tale abilità e un gusto che spazzano via ogni maliziosità di netto e la fanno immediatamente suonare loro nonostante l’estrema vicinanza stilistica sia mantenuta con orgoglio.
Un risultato quasi impensabile e che va ben oltre la masterclass in citazionismo dei più nobili, specialmente notevole considerato che fino all’uscita di “Ravnsvart” uno stile attribuibile al nome della band nemmeno si poteva dire esistente – ancor meno immaginarsi di tale portata.

I Mortem nel loro sostanzioso debutto guardano senz’altro al passato, ma lo fanno senza un briciolo di nostalgia perché genuinamente certi che questo sia finalmente il momento per sviluppare ciò che era rimasto non detto sul finire del 1996, facendolo con la sicurezza riservata a chi è estremamente ancorato nel presente, nella maniera -insomma- più legittima, lodevole e qualitativamente ammirevole che possa capitare di sentire: quella che non concede spazio di deprecatio temporum, bensì ai soli sviluppi incompiuti di un percorso che, sul finire degli anni ’90, ha (felicemente) scelto di parare altrove.
Va da sé che, in un mondo interessato solo al sensazionalismo e perennemente alla rincorsa della sensazione del momento (in realtà quanto ironicamente lontana dal concetto più puro di zeitgeist!), un disco come “Ravnsvart”, colpevole di regalare solo un lotto di ottimi brani -non uno escluso, dal primo all’ultimo- in una maniera che si è ritrovata quasi per caso cristallizzata in oltre vent’anni privi di emulatori diretti o eredi (sicuramente perché necessitante una maggiore predisposizione alla scrittura che sia eccellente senza veli, ma anche perché presto dimostratasi fondamentalmente untrendy), nonché di essere semplicemente quanto tremendamente ispirato e graziato da pura classe, da una capacità lontanissima dalle mode che va oltre l’ingegno o la furbizia, è destinato a rimanere sugli scaffali ben più di concorrenza nella pratica meno abile e dotata.
Tuttavia è proprio questo, per qualcuno, che oggi come allora potrebbe presentarsi quale attestato di stima e riconoscimento più grande.

Matteo “Theo” Damiani

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