Marduk – “La Grande Danse Macabre” (2001)

Artist: Marduk
Title: La Grande Danse Macabre
Label: Blooddawn Productions
Year: 2001
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Ars Moriendi”
2. “Azrael”
3. “Pompa Funebris 1660”
4. “Obedience Unto Death”
5. “Bonds Of Unholy Matrimony”
6. “La Grande Danse Macabre”
7. “Death Sex Ejaculation”
8. “Funeral Bitch”
9. “Summers End”
10. “Jesus Christ… Sodomized”

Non si può davvero uscire dai solchi lasciati dalla “Panzer Division Marduk” con la stessa mentalità con cui vi si è approcciati, tanto per gli ascoltatori oggi come ieri ammutoliti dall’implacabile e seminale opus del 1999 quanto per la fazione armata presieduta dall’inflessibile Morgan Håkansson. A prescindere da un’accoglienza che ad oltre un ventennio di distanza rimane tutto fuorché netta, la comunque celebre sesta offensiva sferrata dagli svedesi ha finito col lasciare un’impronta parecchio profonda nella percezione che le masse hanno dei Marduk e forse dell’intero genere al varco del nuovo millennio, oggi in minima parte superata attraverso una copiosa serie di pubblicazioni dall’innegabile valore autoriale ma all’alba degli anni Duemila talmente radicata nell’immaginario collettivo da contagiare persino i musicisti stessi, ormai dediti in tutto e per tutto allo shock value uditivo e non solo; a posteriori si spiegano così certi risvolti improbabili quali il mini “Obedience”, magari frutto di qualche backstage di troppo condiviso con gli Impaled Nazarene, ed il conseguente look eccentrico scelto da Legion in diversi photoshoot e calate dal vivo del gruppo. Proprio quelle esibizioni live ai limiti dell’umano confermano anche nel comparto prettamente sonoro l’attitudine fracassona abbracciata dalla band di Norrköping dopo l’ingresso in formazione del vocalist: la testimonianza registrata sul coevo “Infernal Eternal” ed incentrata su quello che nel 1999 è il corrente album di fuoco del gruppo rappresenta infatti lo stato dell’arte dei Marduk più eccessivi, intenti a rileggere persino gli ormai classici provenienti dall’epoca sinistra di “Those Of The Unlight” ed “Opus Nocturne” alla luce del mastodontico wall of sound messo a punto dal fu Evil insieme al demiurgo dell’estremismo Peter Tägtgren in casa Abyss Studios.

Il logo della band

Ad allontanare il bellicoso quartetto dalla comfort zone entro la quale iniziano giusto allora a ristagnare precocemente i vari Dark Funeral e Gorgoroth, in quello che si rivela dunque un progetto a lungo termine dagli insperati effetti salvifici, è il completamento della rinomata trilogia di sangue, fuoco e morte iniziata nell’anno Domini 1998. Spinti alla ricerca di una terza via che capitalizzi ma non ricalchi né il progredire narrativo di Nightwing” né lo statico assalto di “Panzer Division”, i Marduk sfuggono al maleodorante calderone norsecore (etichetta denigratoria sorta ad inizio anni Duemila per indicare quelle frange della scena scandinava ai tempi povere di idee e rifugiatesi così nell’ultraviolenza reazionaria) proprio grazie a “La Grande Danse Macabre”, lavoro che all’uscita non riesce ad imporsi come effettivo passo in avanti ma che, in una retrospettiva di venti anni da quel momento, costituisce una premessa estremamente importante a tutto ciò che verrà rilasciato da lì in avanti. Riallacciatasi a quanto inciso nell’appena abbozzato concept in onore dell’infame Impalatore di Valacchia, la band ne arricchisce gli spunti atmosferici in un album forse di minor personalità rispetto ad altri suoi più illustri capitoli, eppure irrinunciabile nella ricostruzione del trentennale percorso degli svedesi; già titolo ed estetica adottata danno il là al culto della Nera Signora così ampiamente celebrato per almeno un lustro abbondante, prima delle invocazioni ad entità di lei ancor più temibili officiate in “Wormwood” e “Serpent Sermon” da un Mortuus a quel punto perfettamente integratosi nei ranghi.

La band

Ma si volesse prendere per buona la definizione di Reign In Blood” in salsa Black Metal affibbiata tutt’oggi a “Panzer Division Marduk”, allora viene sin troppo facile accomunare la sorpresa dei fan all’ascolto inaugurale del seguente “South Of Heaven” con quello provato nel 2001 non appena partita “Ars Moriendi”, malefico incipit che insieme alla gemella “Pompa Funebris 1660” restituisce benissimo la sensazione di timore ma anche reverenza di fronte alla natura insieme distruttiva e nobile della morte, esplicitata dalla prima e non ultima statua in memento mori d’un teschio munito di corona a troneggiare sulla copertina originale. Il riffing strascicato eppure regale dei due intermezzi si sfalda rispettivamente nel classico “Azrael” ed in “Obedience Unto Death”, esempi di come i Marduk non siano affatto interessati a replicare le cannonate di due anni prima quanto più ad immettervi sprazzi di maggiore ariosità, sebbene ancora abbastanza estemporanei nell’economia dei pezzi più brevi; basta però allungare le tempistiche ed invertire la composizione per ottenere “Bonds Of Unholy Matrimony”, primo vero scossone in scaletta dove sono invece i blast-beat a cedere il posto alle razzie del Quarto Cavaliere orchestrate dal senso melodico quasi operistico di Morgan. Come su Nightwing” ai similmente elaborati svolazzi in tremolo della title-track si accompagna nel 1998 in rapida sequenza la cadaverica marcia di “Dreams Of Blood And Iron”, così ne “La Grande Danse Macabre” è la portentosa traccia omonima a completare la genia di quello che n’è il cuore pulsante: impostati sui toni ribassati a differenza delle due strumentali sopra citate, i suoi otto funerei minuti sono l’unico biglietto da visita possibile da esibire a chi dopo vent’anni continua ad ignorare il settimo full-length dei Marduk, ai quali, al contempo, il brano fungerà da base teorica d’appoggio ogni qualvolta essi andranno a lambire quei non più distanti territori Doom da cui provengono alcuni tra gli episodi migliori della loro discografia più recente e tutta. Non bastasse un tale manifesto di riappropriazione verso gli slow-tempo nel 1999 solamente accennati quando non del tutto ignorati (uno degli svariati aspetti, concettuali, visuali, musicali e persino logistici per cui “La Grande Danse Macabre” pur senza strattoni o strappi evidenti è una prima volta assoluta per i suoi autori), la zampata “Summers End” si spinge oltre arrivando addirittura a ricordare per suono e poetica i padri fondatori Black Sabbath e le linee in hammer-on del profeta Tony Iommi, consegnando ai veri appassionati una terza trascurata gemma nell’immenso catalogo del monicker come preludio al saluto a ventuno pistole esploso su “Jesus Christ… Sodomized”: sicuro incrocio tra la rinnovata ferocia del mastermind compositivo e l’indubbio estro lirico anche quando non canoro di Legion – per la prima volta, forse già in procinto di mostrare le sue debolezze fisiologiche nell’evoluzione della band che qui inizia a delinearsi.

Quelli sentiti sul nascere del ventunesimo secolo non sono quindi mai stati, non saranno mai e nemmeno dovrebbero essere i Marduk più apprezzati di sempre, ma come del resto accade con ogni grande gruppo musicale è proprio nei periodi meno reclamizzati che si vanno a plasmare i più importanti e cruciali prototipi delle differenti identità assunte in seguito; anche e soprattutto al riparo dall’approvazione effimera e momentanea di un’utenza che passa dall’esaltarti al considerarti con malcelata indifferenza secondo un inspiegabile trend che ha colpito anche e soprattutto l’istituzione nordica in oggetto, insieme ad altri act troppo consistenti per un mondo modaiolo come l’opinionismo Black Metal specialmente italiano. Prima tra le opere di Morgan e compagni a conoscere tale trattamento, “La Grande Danse Macabre” è in realtà un passaggio vitale che mette un punto fermo su parecchie scommesse fatte dal chitarrista: le frequenze assemblate da Peter Tägtgren qui in squadra col fratello Tommy funzionano perfettamente se prestate, ancora una volta, ad un autore capace di reinventarsi continuamente, finemente e con una raffinatezza non ascoltata né colta da tutti, sperimentando sui rallentamenti con una convinzione che ne legittimerà qualsiasi flirt di lì in poi, mentre quella che è per la prima volta l’autoproduzione nel vecchio continente tramite la propria Blooddawn Productions distribuita da Regain Records porta avanti la concezione self-made ai limiti dell’imprenditoria di sé stesso sostenuta da Håkansson persino oggi, con la sua creatura sotto Century Media (nel 2001 partner solo per il mercato americano) eppure lontana da qualsiasi delegazione in merito a faccende esterne al mero processo creativo.
Non quindi l’abbandono tutto fin de siècle della storica Osmose Productions a segnare un comunque preciso e visivo punto di svolta senza ritorno – soltanto il potenziale giro a vuoto intitolato “World Funeral” (unico, effettivo ma passeggero, momento di eventualmente scarsa iniziativa stilistica in tre decadi di gloriosa avanzata) ed il relativo cataclisma in line-up conseguente saranno abbastanza da mettere in fugacissima crisi che tuttavia sarà a sua volta fonte creativa del lìder maximo; “La Grande Danse Macabre” è d’altro canto la sua personale dimostrazione di forza e di una visione evolutiva a tutto tondo pubblicata a stretto giro dopo quella della sua band, differente nella sostanza quanto altrettanto, o forse più, necessaria alla sopravvivenza dei Marduk che per nostra fortuna conosciamo oggi.

Michele “Ordog” Finelli

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