Luglio 2023 – Wyrgher

 

Un’estate all’insegna dello spazio profondo non la si vedeva davvero da qualche tempo a questa parte. Ancora da più tempo e generalmente ancor più difficile da trovare, che sia in estate o meno, è tuttavia la visione di un Black Metal che non guardi alle stelle e agli abissi di lassù con lo stupore, con la meraviglia atmosferica, sognante e dilatata a cui siamo stati maggiormente abituati dagli esploratori del cosmo nel panorama della musica distorta par excellence – bensì che faccia suo l’orrore siderale, la mostruosità del silenzio e dell’assurdamente diverso: dell’inconcepibilmente distante che collassa su di noi. O, nelle parole stesse dei campioni di luglio: di padiglioni auricolari che vengono showered in the roaring of a thousand alien vessels.
La nazione a cui rivolgere lo sguardo è la Svizzera ma non sono i Darkspace (peraltro l’unico nome -davvero vagamente, ma comunque solo atmosfericamente o idealmente- accomunabile all’esperienza), bensì la conquista dei Wyrgher: progetto del ben noto Menetekel alle prese con coordinate spazio-temporali invero molto differenti da tutto ciò a cui siamo stati abituati dall’alpina diavoleria degli Ungfell, dall’oscurantismo degli Ateiggär, dal misticismo alchemico dei Kvelgeyst, dei Lykhaeon o dall’ultrantichità Arkhaaik. La rinascita “Panspermic Warlords” riprende infatti le fila del progetto arrivato ad un punto di svolta nel 2015 con “Kosmokrater”, ed è più un Ridley Scott che non un Wachowski volendo tratteggiare un non troppo assurdo parallelo cinematografico; non aspettatevi dunque scenari futuristici dall’immediata presa nell’immaginario collettivo e facili da decifrare – bensì l’accecante oscurità e la sconfortante disarmonia di scenari inediti all’uomo che ha bisogno del sacro concetto di sconosciuto per sopravvivere in un mondo dove tutto è solo superficialmente compreso. Di questo ci parlerà (a suo differentissimo modo) il secondo disco della kermesse di oggi, vale a dire della fisiologica assenza a cui erigere monumenti per l’importanza che questa riveste -consapevoli o meno- nelle nostre vite (volendo proseguire con il numero tre). E cos’altro è cruciale da sempre su queste pagine? Corretto: stregoneria, manate e cattiverie assortite con cui salutarci. Con quel pizzico di mistero adunco ed umbratile che anche nell’articolo di oggi persiste a legare il tutto.

 

 

Le possibilità del nostro bardo preferito di Svizzera sembrano davvero essere linguisticamente infinite: non solo la mente estremamente inventiva di Menetekel ci regala, con “Panspermic Warlords”, una nuova visione di musica nera esteticamente differente da qualunque altro suo precedente esito; ma anche stilisticamente, in una bizzarra eppure splendida combinazione di “Tyrannemord” virato alla disarmonia più siderale e alienamente geometrica, al melodico vuoto assoluto dei Darkspace esplorato e riscoperto riempito di abitanti à la Hawkwind che non vengono in pace, ma spaventosamente pronti a trasformare nuova vita in guerra quale colonna sonora splendidamente visiva. La conquista del cosmo da parte dell’Helvetic Underground Committee, volendosi lanciare in una curiosa metafora, non è mai stata così reale.”

La propensione di Meneketel ad una forte composizione visiva e saldamente interlacciata, quasi simbiontica, con gli sfaccettati microcosmi che plasma è ormai evidente: se a travolgere nell’immediato in “Panspermic Warlords” sono infatti i dettagli atmosferici liquidi, i sintetizzatori ambientali, gli sparsi espedienti elettronici dal gusto cinematico, questi si disgregano e si aggrappano come parassiti e larve su un denso e mutevole strato di pattern ritmico che non è assolutamente da meno. Minaccia tentacolare, subdola e annichilente, lame glaciali che penetrano la carne e la crosta cerebrale instillando morte e terrore: fra trame che si serrano e si ampliano seguendo schemi al contempo geometricamente programmatici quanto violentemente caotici, il disco dei Wyrgher, considerabile quasi un debutto per la nuova linfa e dedizione infusi nel progetto, è tutt’altro che una divagazione dello svizzero su un nuovo tema, ma l’ennesima gemma di ispirazione e talento reale frutto di una strabordante urgenza artistica.”

L’Helvetic Underground Committee è ormai, senza dubbio, una delle realtà più prolifiche di questi anni e non poteva quindi mancare all’appello una nuova pubblicazione targata Wyrgher. Il duo svizzero formato da Voidgaunt e dall’iperproduttivo Menetekel (mente di Ateiggär, Ungfell e -come già detto- molti altri) ci delizia in questo caso con un prodotto dalle sfumature maggiormente distopiche e dissonanti; due aggettivi che purtroppo nell’ultimo periodo mi ritrovo ad utilizzare un po’ troppo spesso. Ma fortunatemente il modo in cui i Wyrgher sfruttano oggi questo tipo di sonorità corrisponde ad una benché piccola sicuramente sufficiente ventata di aria fresca: infatti le composizioni che troveremo all’interno di “Panspermic Warlords” sono sì a tratti molto complesse, opprimenti e claustrofobiche, accompagnate da un onnipresente riffing melodico-distonico, ma contengono un numero di dettagli e personalizzazioni sci-fi tali da permettere al prodotto finale di spiccare in termini sia di qualità che di creatività.”

“Una volta sgomberata la mente da copertine enigmatiche e titoli bizzarri, basterà la pura e semplice musica qui sopra incisa a differenziare di netto “Panspermic Warlords” dalle centinaia di uscite all’insegna dell’approssimazione spacciata per sperimentalismo, specie quando intrise di cosmicismo e contrassegnate dal marchio I, Voidhanger. Il senso di spaziale enormità veicolato dal secondogenito di casa Wyrgher non necessita del minutaggio titanico dei connazionali Darkspace o dell’esuberanza compositiva dei nostri indimenticati Progenie Terrestre Pura, e difatti pur senza raggiungere tali fulgide cime astrali riesce ad incutere paura e al contempo curiosità tramite soluzioni abbastanza quadrate e godibili per chiunque, avulse alle storture dei cugini Kvelgeyst ed esacerbate dall’ottima produzione, tangibile e fisica quanto un nero monolite di kubrickiana memoria. In campo Avantgarde, uno dei se non il miglior esemplare dell’anno in corso; Menetekel semplicemente infallibile anche nello spazio più profondo.”

Un sole nero che annichilisce coi suoi raggi l’umanità dimentica del valore sacro dell’ignoto: ovvero quello che la Clandestine Blaze del sempre discusso Mikko Aspa ci racconta con la solita eloquenza di un pugno armato in pieno volto in “Resacralize The Unknown”. Fuori per la sua rinomata Northern Heritage, l’album numero dodici del progetto è in realtà una discreta sopresa anche nonostante il conservatorismo strenuo dell’autore finlandese.

Se un progetto come l’output Black Metal per antonomasia di Mikko Aspa vocifera sottobanco di piccole novità all’interno del proprio suono, allora, pure al netto di un mindset dei più incrollabili e di una visione complessiva che è più dura a modificarsi del granito, c’è probabilmente da credergli. In alternativa si possono ascoltare con le proprie orecchie gli inediti passaggi di grande malinconia negli insoliti ritornelli di “Bring Me The Head”, o come avviene nel chitarrismo sghembo di “The Birth Of The Sun” oppure nella scorticante “Mass Grave For Eternity”, dove il solito radicalismo d’intenti e sound dei Clandestine Blaze si sporca (forse per la primissima volta) come fosse pietra attraversata da venature di minerali nobili dell’esperienza caleidoscopica dei Deathspell Omega di “The Long Defeat” e di una serie di soluzioni in generale talvolta più complesse, altre più stratificate e droning come accade nei commilitoni Mgła di “Age Of Excuse”. Escludendo quindi marchi di fabbrica atonali e ruvidi come “Our Cross To Bear” o una comunque insolitamente dilatata title-track (con tanto di lead sabbatiani ‘of doom’ alla Candlemass, Pentagram o Saint Vitus – a scelta), è lecito aspettarsi questa volta di essere sorpresi – anche qualora non si sia mai stati i più grandi affezionati della one-man band di Lahti.”

Proseguendo con altri veterani del nuovo millennio, il settimo disco in studio dei britannici Fen, “Monuments To Absence” (secondo fuori per la nuova partner Prophecy Productions), convince il nostro Kirves con il suo forte carattere all’interno della produzione del trio. La magia eterea ultimamente più esplorata nei Fellwarden c’è; l’inconfondibile mix di stili c’è; a patto che non vi dispiaccia sentirlo un po’ più crudo, diretto e persino violento del solito.

Incanalando le trame spoglie e Progressive di “The Dead Light” nella furia luminosa di un “Carrion Skies” che aveva faticato a trovare un degno seguito, i Fen inquadrano una nuova dimensione: se gli incastri e le soluzioni del retaggio più atmosferico à la Agalloch e Drudkh degli esordi sono ormai un linguaggio istintivo e assimilato del progetto più che una scelta, i toni e il riffing si affacciano sui lidi più solidi e ambiziosi degli Enslaved immediatamente post-2000, dando vita a strutture sfaccettate e dotate di un nuovo dinamismo nervoso e selvatico. Pur non riuscendo forse mai a raggiungere i superbi picchi di drammaticità degli alter-ego Fellwarden per via della fin troppa eccessiva muscolarità e, anzi, volendo forse caratterizzare i Fen su sonorità diametralmente opposte e spsculari alla ricerca di un’identita sempre inseguita ma mai definitivamente ritrovata, The Watcher e soci sigillano tuttavia con “Monuments To Absence” uno dei più completi e riusciti album in studio della storia della formazione.”

Infine, abbandonato il sacro, lo sconosciuto e l’assenza, l’uomo si rivolta contro i suoi stessi simili: i Ghörnt recuperano la sempre affascinante figura metaforica della strega e con “Häxekult” (Dominance Of Darkness) riprendono un discorso musicale incominciato tramite “Nedchrescht” estremizzandolo. La violenza è garantita – e sebbene qui non s’inventi né reinventi nulla con chissà quale grande personalità, l’estro al duo apprezzato da Ordog non manca.

“Chiamati a rimpinguare con un po’ di onesta brutalità il fondo cassa del metallo nero elvetico, i Ghörnt del vocalist Thulus e del multistrumentista J (Grusig, Chotzä, colonna degli Aara, new entry nei Forgotten Tomb e forse pure nel gruppetto appena messo su da qualche lettore all’ascolto) molestano corpi e tormentano anime con quaranta minuti di musica estrema i quali, pur nel loro piccolo, ridanno lustro al vituperato filone Black/Death troppo spesso affetto dalla più totale genericità. Non che il duo rossocrociato pretenda di apportare chissà quale novità, eppure non può passare inosservata la sua innegabile abilità nel far convivere una sezione ritmica semplicemente spaventosa a melodie sibilline che farebbero invidia a Behemoth e Dark Funeral, e nel complesso una prova del summenzionato Jöschu Käser che nonostante la giovane età ne conferma lo status di richiestissimo sessionman e compositore.”

Nessun altro consiglio resta da dispensare in sede di chiusura questa volta. L’estate, si sa, da queste parti è sempre un pochetto scarna, ma con quattro dischi del genere a traghettarci verso i più floridi periodi autunnali e invernali sembra non esserci comunque poi troppo da lamentare. Che siate infatti tra i più affezionati allo sperimentalismo e alle novità oggi regalateci dai Wyrgher nella tela nera che scandagliamo qui sopra, o quelli il cui cuore batte per l’atmosferico e dunque per proposte come quelle in cui i Fen sono stimati campioni da anni, oppure ancora i più avvezzi alla ferocia dei Clandestine Blaze e alla brutalità immancabile per merito dei Ghörnt in tutto questo, dovreste poter trovare qualcosa di vostro gradimento…
Così non fosse, tuttavia, ci riproveremo se sarà il caso tra un mesetto più o meno esatto. Fra Urfaust, Rome, e dei già apprezzati An Autumn For Crippled Children, la diversità dovrebbe sulla carta far da padrona. Chi non perirà, ascolterà.

 

Matteo “Theo” Damiani

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