Impaled Nazarene – “Rapture” (1998)

Artist: Impaled Nazarene
Title: Rapture
Label: Osmose Productions
Year: 1998
Genre: Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Penis Et Circes”
2. “6th Degree Mindfuck”
3. “Iron Fist With An Iron Will”
4. “Angel Rectums Do Bleed”
5. “We’re Satan’s Generation”
6. “Goatvomit And Gasmasks”
7. “Fallout Theory In Practice”
8. “Healers Of The Red Plague”
9. “The Pillory”
10. “The Return Of The Nuclear Gods”
11. “Vitutation”
12. “JCS”
13. “Inbred”
14. “Phallus Maleficarum”

“We are fucking artists, we are sensitive as shit!”
(Phil “Philty Animal” Taylor, 1954 – 2015)

Per capirci anche solo qualcosa in quel coacervo di volumi improbi e neuroni in pausa pranzo che erano gli Impaled Nazarene agli sgoccioli degli anni Novanta non occorre certo scervellarsi su di impercettibili analogie strumentali, o tracciare rimandi quantomeno ardimentosi in fatto di composizione. Al contrario, ciò che forse rende davvero quello specifico momento così affascinante ed irreplicabile in questa assai confusa biografia è la tragicomica parabola del tutto umana nel quale il combo finnico si ritrova arenato: coi fratelli-coltelli Luttinen in guerra aperta fino alla defenestrazione di Kimmo ed al conseguente senso d’onnipotenza di Mika, un Taneli Jarva già esonerato dai Sentenced e talmente in crisi d’identità da mollare anche la truppa di Oulu subito dopo lo spartiacque Latex Cult”, e per finire gli opposti incarnati dal veterano Jarno Anttila e dalla spina Reima Kellokoski rimasti a tappare i buchi nello scafo di una nave la quale sarebbe benissimo potuta colare a picco non fosse stato per l’estremo menefreghismo -verso prima di tutto sé stessi e la propria immagine- che è stato da sempre l’arma segreta con cui questi scappati di casa hanno potuto resistere alla prova del tempo ed ai giudizi a volte quantomai tiepidi dei blackster da mercatino equo-solidale. La regola rimane quindi andare avanti per la propria strada, col bassista che era stato elemento chiave nello sconquassante predecessore ora sostituito dal Jani Lehtosaari preso in prestito dagli stessi Belial dai quali erano già stati saccheggiati batterista ed axeman; e se questa strada termina in un muro di cemento armato sui cui andare allegramente a schiantarsi tutti assieme, allora tanto meglio.

Il logo della band

Li avevamo pertanto lasciati in preda al più molesto dei doposbornia seguito al parto deforme del 1996, un disco per certi versi ancora scostante come del resto i tre venuti prima ma necessario altresì allo scopo della fattuale affermazione del monicker quale cellula terroristica penetrata all’interno del serioso fenomeno Black Metal; e forse sono proprio le risatine di nervosismo mascherato da scherno appena raccolte che convincono i quattro briganti ad aver titillato l’audience di riferimento nelle zone giuste, mettendola davanti a qualcosa di facilissimo da sminuire ma impossibile da ignorare. Nascono allora i The Rocking Dildos, più che un gruppo musicale un grande scherzo tirato avanti nel corso dell’intero anno successivo, ove la stessa identica line-up dell’imminente “Rapture” decanta l’amore incondizionato per alcol, droga, risse, per i Motörhead e per tutte le altre cose belle della vita attraverso due full-length purtroppo finiti presto nel dimenticatoio, ma che col dolce stilnovismo delle imperdibili “Hangover Wank”, “Pregnant Women Must Die”, “Poopskin On My Ballhair” e “Toilet Seat Sniffer” hanno il merito di sfogare senza pudore alcuno il lato maggiormente demenziale e pecoreccio degli Impaled Nazarene, depurando così di codesta simpatica facciata il progetto principale in preparazione ad un follow-up che riparta da Latex Cult” e che ne raddoppi i megatoni.
Al netto di una vena dissacratoria comunque sovrastante e canalizzata verso qualunque cosa finisca per irritare Mika Luttinen, ormai trasceso ad una dimensione di puro spirito tanto dietro al microfono quanto soprattutto in veste di paroliere, le intenzioni della band all’indomani del colossale dito medio rivolto all’esistente (meno una Osmose abbonata al satanismo etilico come testimoniano tra gli altri i Gehennah del mitico “King Of The Sidewalk”) si fanno di contro serissime sul piano sonoro in vista di quello che, almeno fino all’ultraviolenza aggiornata al nuovo Millennio di Pro Patria Finlandia”, rimane il definitivo paradigma della distruzione messa a segno dalla spietata combriccola in un solo colpo.

La band

Se difatti nel ’96 le varie “Motörpenis” ed “I Eat Pussy For Breakfast”, coi loro assoli di basso e testi vietati ai minori, conservano lungo l’intera mezz’ora di minutaggio l’idea di allegro sfottò all’indirizzo dell’ex-membro e di quella fetta di pubblico incapace di prenderli per i pur talentuosi sbruffoni che sono in fondo sempre stati, con “Rapture” invece la carica ironica tipicamente finlandese dell’ensemble viene vaporizzata dall’impatto nucleare col quale sembra dover fare i conti anche l’angelo bardato di maschera antigas oggi associato all’opera, rimpiazzo di un artwork originale a tema alieno che comunque ben illustrava venticinque anni fa la follia generale di casa Impaled Nazarene. Come da regola per ognuno dei migliori lavori consegnati ai posteri dal quartetto nel corso degli anni, “Rapture” dissimula infatti sotto un’ignoranza crassa sbandierata ai quattro venti l’istinto annichilente stavolta non esorcizzato dalle sbandate maggiormente Rock ‘N’ Roll esauritesi nel biennio antecedente, ma semmai al contrario potenziato dalla scrittura mai così a fuoco: la svolta melodica messa in essere sin dal successore “Nihil” è al momento quanto di più lontano possibile, eppure ognuno dei quattordici proiettili infilati nel caricatore colpisce in un punto diverso e lascia vistose cicatrici dovute ad una certa catchiness la quale, ad esempio, scolpisce nelle sinapsi i ritornelli a base di gang-vocals opportunamente saturate presenti su “Penis Et Circes” o “Healers Of The Red Plague”. La mossa di lavorare sui pezzi in sé portandone la larga maggioranza (tutti ad eccezione del dittico conclusivo) entro il canone dei due/tre minuti ripaga la ciurma nordica con una quantità di brani memorabili pari solo a quella dei capisaldi d’inizio carriera, ed in cui si può scegliere tra il rimanere inceneriti dall’assordante attacco rumorista della sclerotica “Goatvomit And Gasmasks” o del manifesto bellicista “The Return Of The Nuclear Gods”, prendere a testate i muri con sotto il d-beat da occhi vitrei e naso imbiancato che regge “Vitutation” e “6th Degree Mindfuck”, oppure tenere botta lungo tutta la tracklist il contrasto tra l’armageddon in cento secondi “Inbred” e la zampata “Phallus Maleficarum” riservata per dei titoli di coda d’inaspettato gusto trionfale; ciascun passaggio insomma occupa uno spazio preciso nell’ecosistema “Rapture” sfruttandone al meglio il singolo potenziale, sebbene l’indubbia unidirezionalità dei suoi quaranta minuti limiti il campo d’azione alla pura vessazione del sistema nervoso con ritmiche fino a quel momento inconcepibili e urla belluine. Di fronte ad un simile fallout sonico, forse persino sfuggitogli di mano rispetto alle intenzioni, non per nulla gli stessi Impaled Nazarene eviteranno ogni tentativo di replica con l’arrivo in formazione di un secondo ed assai noto giovane maestro delle sei corde, trattenutosi brevemente ma comunque abbastanza da inaugurare una nuova fase per degli artisti ben più inclini al trasformismo di quanto sia stato loro mai riconosciuto.

Proprio per via del suo essere testimonianza ultima e definitiva del periodo di completo disagio casinista inquadrabile nel dittico di seconda metà dei Nineties, la quinta prova dei quattro filibustieri trascende la dimensione esclusivamente musicale per occuparne invece una di ideale perfezione a tutto tondo: di chiusura del cerchio di Giotto che collega intenzioni di partenza e risultato finale. In quella che è la visione senz’altro distorta di Mika Luttinen, c’è da credere che “Rapture” sia stato, almeno tra quelli pubblicati ai tempi, l’album più aderente alle sue stralunate intuizioni estetico-sonore; pregno com’è di un’onestà e di una veracità da sempre sinonimo della creatura da lui interamente retta durante la delicata fase di transizione verso il Nuovo Millennio. Su tali basi, pur non avendo dalla sua la meticolosità distruttiva delle uscite venute dopo né l’anarchia svarionata traboccante dagli esordi, “Rapture” ancora meglio del fratellone meno elaborato Latex Cult” sbatte in faccia alle beneducate platee l’orgoglio da brutti, sporchi e cattivi che la band è ormai in grado di trasmettere semplicemente suonando questo incendiario mix di Black, Speed, Grind e chi più ne ha più ne beva, senza per forza indulgere in testi scabrosi comunque presenti in gran numero. Lì in fin dei conti risiede il fascino autentico degli Impaled Nazarene; non c’è nulla da capire, ma soltanto da apprezzare o rigettare a prescindere, perché roba come la “Angels Rectums Do Bleed” poi eletta a capostipite di una trilogia dotata di sequel e prequel non la puoi spiegare a chi non la sente già sua nel profondo.
Ebbene, chi scrive ritiene che nessun altro platter chiarisca tale realtà empirica allo stesso limpido modo del “Rapture” giunto tra spintoni e minacce ai suoi primi venticinque anni di esistenza, e perciò non ha timore ad includerlo tra i per lo meno tre capitoli migliori dell’istituzione finnica: chi invece legge si spera sarà d’accordo, specie se costoro hanno mai trascorso gli ultimi avanzi di notte in situazioni surreali insieme ad altri soggetti da caso clinico, per poi rincasare all’alba in condizioni vergognose con l’inno generazionale “We’re Satan’s Generation” sparato nelle cuffie, e nel cuore un misto di gratitudine verso quegli adorabili debosciati e di compatimento per chi, a certa roba, non sarà mai in grado di arrivarci.

“Go get fucked if you are not one of the bestial ones!”
(Mika “Slutti666” Luttinen, 1998)

Michele “Ordog” Finelli

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