Høstsol – “Länge Leve Döden” (2023)

Artist: Høstsol
Title: Länge Leve Döden
Label: Avantgarde Music
Year: 2023
Genre: Black Metal
Country: Internazionale

Tracklist:
1. “As Seen Through The Eyes Of The Prophet”
2. “Det Som En Gång Var (Det Kommer Aldrig Igen)”
3. “Länge Leve Den Ansiktslöse Mördaren”
4. “Din Skördetid Är Nu Kommen”
5. “Parallellt Dubbelliv”

Lunga vita a colei che la vita, per mestiere, destino o semplice vocazione che sia, la toglie senza possibilità d’appello riservata ad essere alcuno: che con talento inscalfibile la leva al ricco, al povero, al grandioso come al più piccino; al celebre, all’indimenticato come al trascurato, al negletto, all’insignificante, una volta spartita la sua nefasta presenza equamente tra primo ed ultimo, senza sconti né cerimoniale nel preciso, fatidico ed inevitabile momento che corona tutti i momenti.
Lunga vita alla morte: un ossimoro, l’augurio solitamente da intendersi quale il più regale di ogni auspicio, destinato invece a quella grande e spaventosa regina della privazione che, nelle sue ossute e cave mani pallide come la luna, sembra ironicamente condannata a non potersene fare assolutamente nulla. Un triste destino, se vogliamo, quella regnante: quella sovrana che alla vita non solo sembra essere totalmente indifferente in barba al suo potere, ma che sembra esserle proprio sterilmente superiore perché sua fine, distaccata, aliena perché sua distruttrice incurante di ogni diversità e circostanza – ma nondimeno esistente solo in concomitanza con la sua controparte, in simbiosi con essa solo nella misura di esserne nemesi giurata.

Il logo della band

Eppure, in quell’augurio che è “Länge Leve Döden”, è sottinteso molto più di un semplice controsenso, o l’analisi meticolosa di un paradosso. Vi si nasconde tangibile tutta la devozione e persino una certa sorprendente empatia per la vera imperatrix mundi che, nelle sue varie forme, tutto porta a conclusione – la quale tutto termina col suo volere impietoso: che tutto raddrizza e corregge. Allora, sembrano volerci dire nemmeno troppo velatamente gli Høstsol, che l’esistenza -la vita, certo, per quanto assurdo suoni- di questa imperante figura grandiosa ed inafferrabile al contempo sia eterna, che possa essere sempre lì, sempre in agguato e sempre presente nelle pieghe della vita stessa, attorno a noi in ogni istante senza che ci sia donata la possibilità di dimenticarla: perché ce l’hanno insegnato gli Shining, come i Manes e in buona misura tutto il Black Metal nelle sue più varie ma caliginose sfumature, che in tutta quella inestinguibile negatività portata con sé dalla figura -metaforica e non- della falce vi è pur sempre un certo barlume non trascurabile. Una certezza, laddove le certezze sembrano impossibili da vedere. Un granitico scoglio del materiale più indistruttibile nell’universo, a cui aggrapparsi saldamente, a cui credere con quelle forze che altrimenti mancano quando nient’altro sembra funzionare e tutto sembra crollare.
Ma non è comunque e assolutamente l’atto del suicidio, divenuto immediatamente topos associato alla corte dei già nominati padrini svedesi dell’omonimo filone di musica cosiddetta Depressive, ciò che “Länge Leve Döden” propone quale potenziale chiave di lettura di una vita intera. Gli Høstsol non s’inseriscono infatti nemmeno per la (non esattamente marginale) parentela genetica nell’alveo selbstmortifero europeo di Bethlehem e Silencer, né in quello oltre-continentale di Abyssic Hate o Austere, restando originalmente più vicini in questo senso all’epicità larger-than-life, scarnificata ma profondissima degli Strid, forse dei Woods Of Infinity non fossero così perdutamente folli, sebbene sia completata ed attualizzata con una nerezza ultraterrena che sembra emergere a metà strada tra le atmosfere misteriche e rarefatte dei Manes del debutto, più recentemente dei Syning o di un certo “III: Angst” qualora combinato con l’agilità malata dei Forgotten Woods. E ciononostante, con un’aria che più che misteriosa è direttamente religiosa: la morte, l’ansiktslöse mördaren, l’angelo dalle ali d’acciaio o quello venuto col suo rastrello a mietere il raccolto, esplorata non in senso cristiano – non punto d’arrivo o di espiazione, bensì direttamente mistico e sacrale saltando a piè pari tutto lo sforzo accademico alla base di una possibile teologia. “Länge Leve Döden” è insomma una visione più che personale direttamente intima e pertanto onirica ma lucida, come tutta quella che gli Høstsol nelle squisite liriche del paroliere Niklas ci propongono: quella di un’ammirazione che va di molto oltre la più comune misantropia, oltre tutto l’odio per il genere umano o il vivente che sia.

La band

Non è difatti il più solito, il gotico e forse familiare volto d’inverno, quello della chiusura totale del cerchio coi suoi neri rami scheletrici coperti di bianco, ciò che cerca in musica un disco raffinato com’è il debutto del progetto inizialmente tirato su dagli illustri Cernunnus e Kvarforth, infine accompagnati da una sezione ritmica di solidità quanto inventiva eccezionali – anche nonostante l’impossibilità di realizzare la band con la presenza di un Hellhammer come inizialmente annunciato. Non è un caso che, al netto dell’indubbio talento dell’Axel Blomberg rinunciatario al momento di concretizzare gli sforzi in studio di registrazione, la cosiddetta musicianship delle colonne portanti del ritmo in “Länge Leve Döden sia una di seria eccezione: il versatilissimo Rainer Tuomikanto è innanzitutto un altro dei pesta-pelli dal passato trascorso in combutta con il cantante svedese (uno dei più bravi, per di più: si pensi alla sua fondamentale partecipazione sul coraggioso “IX: Everyone, Everything, Everywhere, Ends”, 2015), e inoltre un professionista la cui sinergia con Kalmos alle sue quattro corde così magnificamente distorte e presenti è qualcosa di squisitamente rodato, in oltre dieci anni di gruppi in comune (dagli Ajattara al divertissement Decomposter).
Distrutte pertanto le fondamenta linguistiche di un genere, tutto riparte senza falle proprio dal curatissimo suono delle singole componenti, così aperto ed etereo eppure emotivamente soffocante, magistralmente orchestrato in una cosa sola dalla coppia d’interno ed esterno – Tor-Helge Skei ed Andy LaRocque (ormai al lavoro con il ventennale pargoletto del nato Olsson dai tempi di “Redefining Darkness”). Tra i cori ecclesiastici e distorti di angeli di pietra (la preghiera “As Seen Through The Eyes Of The Prophet”) che flirtano maledetti con le atmosfere da incubo di scuola Cold Meat Industry (si badi ad inizio e fine di “Det Som En Gång Var…”, in cui l’etichetta svedese viene omaggiata tanto quanto, con ogni probabilità non per coincidenza, viene fatto nell’iconica costina sinistra nel formato compact disc dell’album), già l’opener ha nel suo inizio dimesso, in quel riff melodico d’altri tempi quell’anticipata propensione melancolica all’autunnale più che invernale come fosse un sentiero imbrunito di foglie secche che vi cadono sopra, aumentando notte dopo notte, ognuna peggiore e più ricolma di tormenti della precedente perché più vicina al grande nulla – come pensiero dopo pensiero, sempre peggiore di ogni precedente pensiero perché in marcescenza per la vicinanza sempre più ampia al grande vuoto. Colei che si sottotitola “Det Kommer Aldrig Igen” -quasi una crudele specifica d’ethica– procede così, in una spirale vorticosa verso il basso, analizzando con lucidissima prosa l’assoluta assenza di un meglio obiettivo nel nostro passato, ricreato a tavolino dal male del presente prima di schiudersi in un passaggio Ambient che rimembra la freddezza cristallina dei Paysage D’Hiver seppure tolti dal loro Welt aus Eis, riportati senza escapismo tra le membra di un incubo che è realtà di ogni giorno. E difatti gli organi spettrali dei Manes che furono (i brutti sogni “Min Trone Står Til Evig Tid”, “Under Ein Blodraud Maane”) fanno la loro inaspettata ma ravvicinata ricomparsa non solo nell’incipit e nella distensione di una più atipica, distante e liquida, quasi aulica “Länge Leve Den Ansiktslöse Mördaren” (un gioiello, dal canto suo), ma soprattutto nel punto compositivamente focale della -con essa- dicotomica “Din Skördetid Är Nu Kommen” (dove peraltro risplende come non mai tutta la genialità ritmica della band): nei giri appena precedenti il pandemonio emotivo in minore che si sviluppa in tutto quel magnifico spazio lasciato dal leggendario chitarrista alla corte di King Diamond tra le parti della batteria in modo che queste, al pari di un mantello dalle pieghe che volteggiano ritmate, fagocitino la restante parte della strumentazione – così scarna in elementi che quasi non ce ne si accorge per via della ricchezza musicale che questo sparuto parco di protagonisti porta in tavola.
Vale infatti in conclusione la pena di soffermarsi ulteriormente proprio su quella quasi-title-track già accennata, quale vera cartina tornasole di un coraggio sperimentale a firma Høstsol il quale, sebbene dichiari un po’ ingannevolmente di guardare ai primordi gloriosi di un genere quasi ne fosse tributo al dittatoriale modus operandi (si può sicuramente discutere sul fatto che sia un effettivo inchino, invece, a quella straripante originalità nel suo savoir-faire), mostra senza veli né misteri tutto il suo carico di pura unicità nelle scintillanti rifrazioni chitarristiche di “Min Tid Skal Komme” e “Heart Of The Ages” che si mescolano per magia con quelle di “Faith” e “Pornography”; della musica Dark meno danzabile e più mefitica, più storta e maledetta dei Christian Death di “Catastrophe Ballet” e “Only Theatre Of Pain”, forse anche dei Bauhaus e sicuramente figlia dell’esoterismo Fields Of The Nephilim, ma lasciando traspirare l’incanto inaspettato di spiragli dal gusto Post-Rock raffinatissimo e quasi luminoso facente il paio con un cristallino prologo à la Progenie Terrestre Pura di “U.M.A.” nella conclusione che, quasi un postumo con i riff strascicati e strazianti della catartica “Parallelt Dubbelliv”, nella sua annunciata doppiezza non potrebbe effettivamente essere più disperata, fresca e al contempo edificante di così.

Non bastasse la grandezza di musica dai simili tratti in sé, “Länge Leve Döden” ottiene un collaterale altro risultato francamente niente affatto marginale: abbatte finalmente ed in un solo, poderosissimo colpo sferrato dalle sue cinque lunghe tracce quella croce e delizia che sono sempre stati gli Shining per Kvarforth (testimoni privilegiati delle sue indubbie qualità d’interprete canoro, qui non a caso sfruttate anche molto diversamente dal solito – vi si confronti l’alterna fortuna dei Lice), almeno quanto sistema e rattoppa l’evoluzione per molti troppo repentina di quei Manes per Cernunnus, i quali, fino ad oggi, mai erano davvero riusciti a rivivere completamente nei Manii che volevano esserne l’eredità spirituale in qualche modo. La coppia che è l’evidente motore concettual-musicale degli Høstsol, quella da cui tutto parte e con cui (benché per il tramite imprescindibile del paio di finlandesi) finisce anche tutto, porta qui finalmente avanti un discorso vagheggiato e coccolato per anni: prima, dopo e durante la gestazione di quell’irripetuta esplorazione insieme a nome “Solve Et Coagula” (2008); qualcosa che, nonostante le loro estreme e palesi differenze caratteriali e d’istrionismo o secretività che riescono a bilanciarsi in un album magico come il debutto del progetto trans-nordico ad otto mani, li accomuna nel profondo e proprio non sembra riuscire ad abbandonarli – con buona pace di qualunque maturazione e rotazione completa d’asse delle loro principali creature musicali. Perché forse è vero che la morte è il significato ultimo della vita – ma non in sé, non nel nulla: bensì in ciò che sta al di là, in quella Transilvania spirituale che dal fatidico 8 aprile 1991 ha trovato spazio e casa in un genere di rumore e di pensiero che è maledetto, e rifugio per così tanti. Se questo, da chi legge, è ritenuto potenzialmente vero, allora vale davvero la pena di scoprirlo tra i raggi pallidi ma non ancora gelidi di un sole d’autunno…

Inatt – inatt blir vi ett.
Inatt – du och jag döden…

Matteo “Theo” Damiani

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