Artist: Furia
Title: “Marzannie, Królowej Polski”
Label: Pagan Records
Year: 2012
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Polonia
Tracklist:
1. “Wyjcie Psy”
2. “-”
3. “Wodzenie”
4. “Skądś Do Nikąd”
5. “Kosi Ta Smierć”
6. “Pódź W Dół”
7. “Są To Koła”
In Polonia, i primi anni del duemila sono ancora diretto sinonimo di Behemoth e, forse, della veloce ascesa degli stilisticamente imparentati Hate. Ovvero, ai piani più alti dell’ambito Black Metal (un’etichetta in questo caso quanto mai da prendere con le pinze), di tutta quella serie di meccanismi stilistici ed atmosferici, sebbene ancora neri, puntualmente contaminati ed ibridati con modi di suonare e comporre molto più palesemente Death Metal; non quelli melodici della fama svedese a questo punto già eclissatasi col finire del millennio, bensì quelli più vicini all’America che proprio i primi (secondi cronologicamente, nel mondo, giusto a dei God Dethroned già fortissimi del coevo “Bloody Blasphemy”) hanno inserito nel genere a partire dai pontili verso il nuovo millennio in “Pandemonic Incantations” e “Satanica”. Ma più giù, nel sottosuolo polacco, si inizia a muovere proprio in quegli anni qualcosa di concettualmente molto più vicino alla grande eredità e tradizione musicale del paese dalla seconda metà degli anni ’90 a cui Pagan Records (che rilascia il disco oggetto del presente articolo) non è assolutamente estranea. È così che la seconda metà di questo primissimo decennio, più a nord della Cracovia che stava dando i natali ai Mgła o alla Kielce dei Cultes Des Ghoules, inizia ad arricchirsi di realtà underground che si mostreranno da subito di assoluto livello nonché estremamente eterogenee tra loro.
Tra queste troviamo proprio i protagonisti della retrospettiva di oggi, ovvero i Furia, i quali esordiscono su note di stampo norvegese à la Taake, se vogliamo, attraverso il piccolo classico “Martwa Polska Jesień” (2007): con ogni probabilità uno dei dischi maggiormente ispirati alla seconda ondata Black Metal usciti al di fuori della Norvegia che chi scrive ha più il piacere di ascoltare anche ai giorni nostri, a distanza di anni. Un prodotto che, nella sua pure esemplare bellezza, viene leggermente macchiato dall’essere un minimo derivativo; ma questo lo devono del resto sapere anche gli stessi autori, dato che già con il successivo EP di transizione “Płoń” e nella concretizzazione di “Grudzień Za Grudniem”, il secondo full-length del gruppo, si avvicinano ad un sound particolarmente più sperimentale gettandosi senza più ritorno in quel vortice di follia che, in tempi recenti alla scrittura di questo articolo, raggiungerà picchi sfortunatamente incomprensibili al sottoscritto.
“Marzannie, Królowej Polski”, terzo album in studio pubblicato ormai dieci anni fa, non è altro se non il perfezionamento proprio di “Grudzień Za Grudniem” (2009) tramite l’esperienza dei venti minuti di traccia inclusa nel sensazionale altro EP “Halny” (2010): è un’espressione migliore e ancora più raffinata di un suono che grazie alle proprie dissonanze e alla sua estrema organicità riesce a trasmettere a trecentosessanta gradi quasi una panoramica paradossale delle sensazioni di un territorio tecnologicamente arretrato eppure estremamente industrializzato, ancora verdissimo accanto alle sue colate di cemento armato e fabbriche che esalano vapori, e collegato alla tradizione rurale ma intriso di quel freddo e grigiore tipici di un ex-satellite dell’URSS. A pensarci bene, le sensazioni che si provano con un disco del genere sono infatti molto simili a quelle ascoltate durante un disco di natura Folk (non per nulla la band inizia da qui a definire peculiarmente la propria produzione Nekrofolk); semplicemente, la palette di colori normalmente utilizzata viene svuotata e al posto di canti o momenti di celebrazione del passato ci ritroviamo a vivere uno scenario quasi lunare, intriso di desolazione, dove le uniche tonalità che siamo in grado di visualizzare sono quelle che compongono la copertina del disco – il nero della morte, la regina della Polonia a cui è intitolato il disco, e una scala di grigi spettrali quasi macchiati dal candore algido della neve di cui Morana Marzanna è padrona. Quest’immaginario abbandonato vive e viene alimentato anche attraverso le liriche, le quali si presentano nella forma di poesie tematicamente vicine al nichilismo dove arieggia un costante fetore di cruda realtà osservata tramite lenti allucinate, che si lega al carattere organico della produzione e al post-industriale concetto di folklore già espresso in precedenza. Leggendo questi testi si entra difatti, in qualche assurdo modo, in contatto con la natura e l’entità che risponde al nome di Madre Terra; quella che in inverno, esattamente come i Furia in studio sul finire del 2011, ha seminato un terreno infertile per ingozzare di morte con generosità i suoi figli. Non si tratta dunque assolutamente di un incontro idilliaco con una natura limpida e radiosa, madre vitale; al contrario, la sensazione è riconducibile al prendere una manciata di terra, ficcarsela in bocca e cominciare a masticare. La struttura poetica e le pause tra una strofa e l’altra lasciano aperte delle insenature che permettono così alla musica di insinuarsi parola dopo parola, in modo tale che la componente ritmica vada ad infondere un ulteriore peso al verbo scandito dal cantante e leader Nihil.
Se ci si approccia al disco conoscendo solo gli album precedenti, questo ne è in fondo la summa perfetta: una scarna ed essenziale diapositiva di tutte le sperimentazioni allargatesi altrove nel campo creativo dei Furia; se, al contrario, si conoscono solo quelli pubblicati dall’EP minerario “Guido” in avanti (uno spartiacque di ambizione, per certi versi, ma anche di estrema difficoltà e possibilità di comprensione nel catalogo del gruppo) quella che sentiamo in “Marzannie, Królowej Polski” è letteralmente un’altra band. Se poi, invece, non si ha ancora mai avuto il piacere di scoprire affatto i Furia, chi scrive assicura che proprio il terzo full-length è un ottimo punto di partenza considerando il suo essere legato sia a caratteristiche Black Metal piuttosto comuni, a differenza del successivo e apice “Nocel” che risulta ancora più avanguardistico e di più difficile approccio, seppur riassumente gran parte delle geniali intuizioni con cui il quartetto di Silesia ha infarcito la sua musica dal carattere qui già estremamente unico. Prendiamo come esempio le fasi iniziali dell’opener “Wyjcie Psy”, la quale anche senza l’ausilio della voce ma con un basso d’importanza ci spedisce immediatamente in quegli scenari lugubro-rurali descritti in precedenza muovendosi in territori all’unisono vicini al Black, al Doom e alla Drone. Anche nei momenti più intensi e veloci, spesso comandati dall’originalissimo cantato in scream e dai blast-beat, un grande pregio dei Furia è poi quello di saper rendere sempre distinguibile ogni aspetto del proprio sound. La composizione infatti è sviluppata in modo tale che ogni elemento si incastri a vicenda risultando così molto pulita e scorrevole nonostante sia complessa e sporca, quasi curatamente lo-fi sul piano della resa sonora. Non a caso troviamo brani dai sei agli otto minuti che volano in un attimo grazie al modo in cui riffing, voce e assoli si susseguono uno dopo l’altro senza sovrapporsi e saturare lo spettro uditivo. Quest’idea di svuotare la planimetria sonora quando entra in gioco il comparto melodico delle chitarre accentua ulteriormente quella sensazione di desolazione e isolamento post-urbano, dimostrandosi una formula vincente che sostanzialmente traina il disco verso la vera eccellenza.
Come dimenticare del resto che una delle critiche rivolte alla band all’uscita del disco fu proprio quella di essere vagamente prolissa e spesso persa nella sua atmosfera. Si capisce come la seconda traccia senza nome, ad un determinato orecchio, possa benissimo dare questa impressione (e non è neanche l’unica, a conti fatti); eppure non solo già dieci anni or sono la cosa non avrebbe dovuto provocare alcun fastidio, ma oggi, con una visione maggiormente distaccata e pertanto differente, più ampia all’interno dell’evoluzione del gruppo, sono da ritenere proprio questi momenti se vogliamo più tergiversati come un’espressione estremamente intima ed unica di tutta la cultura che vive dietro al nome Furia: se la musica vuole infatti essere l’espressione di un modo di vivere lento e lontano dai ritmi occidentali, è assolutamente necessario che anche il sound rispecchi queste caratteristiche sviluppando senza alcuna fretta di sorta tutte le sue derivazioni più vicine ad un certo sconsacrato ritualismo Drone e alla disgregazione Post-Metal. Proseguendo con il disco troviamo infatti “Skądś Do Nikąd”, un altro chiaro esempio in tal senso con la sua naturalezza nell’essere correlabile persino allo Shoegaze: è chiaro come si tratti di una somiglianza stilistica dovuta alla naturale progressione ed espressione di “Marzannie, Królowej Polski” e non ad un certo bisogno di omologarsi ad un movimento che stava spopolando precisamente in quel periodo. Ancora una volta, il brano più che per il mero aspetto chitarristico stupisce per il modo in cui il comparto vocale pieno di teatralità si destreggia tra il lugubre, l’aggressivo e il catatonico: l’opera di veri, orgogliosi emarginati nel loro stesso panorama musicale.
Queste sono dunque più o meno tutte le più salienti caratteristiche che si possono ritrovare all’interno di un disco estremamente sfaccettato quale “Marzannie, Królowej Polski”: dal groove martellante di “Kosi Ta Śmierć” (che anche nei toni generali sembra anticipare il debutto degli altrimenti diversissimi Plaga) all’anima Progressive di “Pójdź W Dół” vivente di fattezze non lontanissime, nei suoi layer conclusivi, ai coevi Mgła di “With Hearts Toward None”, passando per quell’eclettica “Są To Koła” (con le sue armonie non troppo dissimili ai risultati degli Inquisition, non proprio inconsapevoli del panorama polacco, di quel che sarà un anno dopo “Obscure Verses For The Multiverse”), la quale con il suo ondeggiare Post-Punk -che diventerà negli anni successivi un tratto abbastanza distintivo del Black Metal dalla Silesia aggregato al circolo Let The World Burn– si presta come un trampolino di lancio per quello che sarà il sublime risultato raggiunto nel disco successivo, nel giro di due ulteriori anni. Ma prima di voltare pagina e dirigerci verso quel 2014, una fermata per celebrare questo strambo eppure vivido viaggio nella Polonia più grigia e stralunata è necessario. Perché il terzo disco del magnifico gruppo di Katowice è nel 2012 molto più di un passaggio obbligato tra una tradizione musicale e il suo successivo sdegno avanguardistico; e del resto anche solo la presenza di una traccia come “Wodzenie”, forse la canzone più travolgente dell’intero album e una delle più significative nell’intero catalogo, dovrebbe suggerirlo esprimendo ancora oggi al meglio tutto il significato del Black Metal targato Furia: più che solamente ambizioso, semplicemente sincero fino al midollo.
– Giacomo “Caldix” Caldironi –