Bulldozer – “The Final Separation” (1986)

Artist: Bulldozer
Title: The Final Separation
Label: Roadrunner Records
Year: 1986
Genre: Thrash/Black Metal
Country: Italia

Tracklist:
1. “Final Separation”
2. “Ride Hard – Die Fast”
3. “The Cave”
4. “Sex Symbols’ Bullshit”
5. “Don Andras”
6. “Never Relax!”
7. “Don’t Trust The Saint”
8. “The Death Of Gods”

È un fatto ineluttabile: o è l’Italia ad inventare qualcosa, oppure al paese occorrono più anni del dovuto per replicare anche solo adeguatamente alle novità apprese da oltreconfine. Soffermandoci in particolare ora sulla seconda casistica, l’assunto che vorrebbe vedere o mostrare il Belpaese refrattario a qualsiasi innovazione importata da fuori è innegabilmente un classico leitmotiv di molti metallari che proprio nel paese sono nati; e per quanto tale chiosa ben rappresenti realmente forse alcuni risvolti cupi del settore musicale -più o meno estremo- le sue ulteriori fondamenta vanno tuttavia ricercate per una volta in un’evidenza di carattere assai più generale: l’Italia non è (mai stata) arretrata per chissà quale ineffabile bigottismo di sorta, quantomeno questo non causa geografico-sociale unica di un azzoppamento che altrimenti si sarebbe verificato con altrettanta insistenza ed evidenza anche altrove, bensì poiché quasi ogni volta che un prodotto straniero è stato raccolto da queste parti esso è finito, nella sua auspicabile trasmutazione locale, per sembrarne irrimediabilmente la versione paesana quando non scadendo, come spesso accaduto, nell’imitazione trash e sensibilmente maccheronica di ciò che nel resto del mondo costituiva pura avanguardia.
Che sia questione di saper prendere male appunti in maniera quasi congenita o meno, il Metal tricolore non ha fatto eccezione, essendo nella pratica esploso per una maggiore popolarità ed esposizione all’estero soltanto nella prima metà degli anni Novanta, quando il carrozzone Power porta all’inconsapevole e quasi aleatorio sdoganamento di quel nostro innato barocchismo kitsch sublimato dai Rhapsody e portato avanti fino a generare esempi stilistici come i Fleshgod Apocalypse: tutte realtà ad ombrello, tralasciandone il maggiore o minore valore artistico attribuibile dal singolo, non a caso accomunate dalla massima serietà nelle intenzioni e dalla conseguente sensazione di prurito o ridicolo involontario generata in molti. Meglio non andava, del resto, nel decennio precedente fregiato dal boom dell’esoterismo d’accatto inaugurato dai Venom e ripreso nella Penisola da numerosi gruppi oggi considerati pionieri; ma se Cronos e compari mantenevano comunque un’attitudine goliardica in retrospettiva cruciale dietro al loro satanismo un tanto al chilo, i primi Necrodeath e Schizo (del comune diacronico punto di svolta “Main Frame Collpase”, per il paese in fatto di estremismo – involontario colpevole solo di aver concretizzato gli sforzi dei demo tardi, nel 1989) ne adottavano soltanto qualche simbolo ostentando esteticamente di contro un’aura che, per molti, suonerà fin troppo forzatamente diabolica.

Il logo della band

I Bulldozer però sono diversi. Degenerata figlia della Milano yuppie arrivata al contratto con Roadrunner Records ancora prima di debuttare col già seminale “The Day Of Wrath”, la formazione ambrosiana si è conquistata un posto d’onore tra le band cardine della scena nazionale e di apprezzamento all’estero non solo per merito del suo stile selvaggio e debitore dei tre demoni di Newcastle (in un periodo in cui una tale scelta non era affatto sinonimo di sicuro successo d’usato garantito come invece giunge ad essere oggi), ma in special modo per aver elaborato proprio un’iconografia in voga, corrente ed attuale nella seconda metà degli Anni ‘80, riadattandola con piglio quasi Punk al proprio personale vissuto. La veracità dei testi di A.C. Wild, i quali alle fascinazioni occulte alternano senza preamboli tematiche di vita vissuta come l’uso massiccio di pornografia e la violenza riversata fuori dalle curve degli stadi, rappresenta difatti il corrispettivo verbale di una proposta che -anche in senso musicale- rigetta testarda gli inevitabili paragoni con l’estero e ne irride i linguaggi proprio mentre li usa a modo tutto suo per veicolare immagini totalmente estranee a quella che, nel 1986, è la già invero solita estetica diabolico-cartoonesca: un’operazione a suo modo dirompente con cui i Bulldozer, pur attraverso liriche spesso corredate dai pesanti toni ironici, si elevano nello scenario italiano e rivendicano la loro identità in aperta sfida all’establishment metallico internazionale di etichette e riviste; una sfida che, sebbene stravinta solo con la vendetta sonora e testuale dei due full-length successivi, vede in questo senso il punto di tensione massima nel secondo atto di una quadrilogia qualitativamente pressoché immacolata.

La band

Dei quattro cruciali lavori registrati dal gruppo milanese prima dello stop sancito dopo il live in Polonia datato 1990, “The Final Separation” detiene però sicuramente il titolo di opera più influente per quello che diventerà il Black Metal conosciuto al suo stato primigenio e pristino norvegese. Viene infatti allentato a sufficienza il cordone ombelicale che attacca il precedente “The Day Of Wrath” e la materia nera tutta ai comunque sempre imprescindibili Motörhead, e nel mentre si mantiene un clima di onesta, occulta cialtroneria ancora lontano dalla cupezza di “Neurodeliri” e delle sue tastiere non certo passate inosservate nell’Europa settentrionale di dieci anni più tardi. Ironia della sorte, a rendere l’album un tassello rilevante nel mosaico proto-Black sono anche e soprattutto il sound e l’artwork, ossia proprio quegli accorgimenti presi dalla sola label olandese ai quali sarà poi dovuta la frattura occorsa tra essa e i musicisti subito dopo la pubblicazione del secondo album: la copertina, alla band imposta e dileggiata ancora oggi da molti commentatori del web, si inserisce in realtà benissimo nel grottesco filone nato dal big bang di “Welcome To Hell”, e consacra il frontman come fratellino orgogliosamente ignorante e meno spiritato del più aggraziato King Diamond; allo stesso modo la produzione, evidente prova di quanto poco la futura major credesse nel progetto, finirà invece proprio col collocare i Bulldozer tra gli antesignani di quel suono approssimativo fatto di chitarre impastate sul sottofondo e batteria sorda in primo piano nel mix, non troppo dissimile a quello sviluppato in contemporanea dall’embrionale Thrash teutonico, ma forse anche più affilato: succede quindi che un possibile passo indietro rispetto all’esordio, spassionato atto d’amore per il basso tonante di Lemmy, non dona soltanto personalità ma anche un immortale impatto cronologico ai pezzi incisivi.
Di certo, Andy Panigada e soci non hanno e non avranno mai alcuna intenzione di liberarsi del leggendario three-piece britannico, citato a piene mani anche qui nelle folli corse di “Never Relax!” e “Sex Symbols’ Bullshit”; eppure, proprio l’incipit di quest’ultima supera tale ispirazione sconfinando in un rudimentale blast-beat poi ripreso più puntualmente da degli insospettabili Voivod in “Order Of The Blackguards” di “Killing Technology” l’anno successivo, dagli Schizo nel debutto di fine decennio nonché, più sensibilmente, un po’ da chiunque in Scandinavia allo svoltare negli anni ’90; e se “Ride Hard – Die Fast” si avvale di beat di classica discendenza Hardcore mentre “The Cave” deraglia nel caotico up-tempo primordiale e venomiano, con i dieci minuti di “The Death Of Gods” i Bulldozer si spostano con risultati sorprendenti quanto validi dalle parti più Doom dei Celtic Frost, arricchendoli però di una epicità quasi avanguardistica per effetto che strizza l’occhio a dei dimessi ed esoterici Manilla Road che incontrano i primi Candlemass più che l’afflato fragoroso dei Manowar, anticipando qualche idea che farà il successo dei Bathory da “Hammerheart” in poi (comprensivo di vaghi richiami Folk nelle chitarre della prima parte di brano): ultima innovazione in campo estremo all’epoca, nonché pubbliche vittime loro stessi proprio come i coevi svizzeri citati del ludibrio da parte della critica togata.

Forse sono state proprio le pessime esperienze con colossi stranieri del Metal-business quali appunto Roadrunner e quello che fu l’altrettanto rinomato rotocalco Kerrang a spingere il gruppo nostrano alla volontaria ricerca non tanto della mera provocazione, quanto più di quella stessa provincialità italiana che al netto contrario da sempre mina la credibilità di molti loro colleghi. Così l’esperimento di “Don Andras” (arcinoto motivetto partenopeo riproposto in chiave Heavy/Speed con tanto di acute dissertazioni in lingua locale) acquisisce senso in qualità di convinta rivendicazione di tale dimensione terra terra e provinciale, erigendo dunque uno muro tra sé e le migliaia di rivisitazioni con chitarra distorta di canzoni popolari e hit da classifica registrate da una pletora di band italiche al solo scopo di strappare una risata e fingersi in questo modo calate nel contesto musicale contemporaneo.
Nel loro smaccato umorismo, talvolta così roboante ed esagerato da risultare piacevolmente ai limiti del surreale, i Bulldozer si mostrano invece nel 1986 un’entità capace non solo di scherzare in maniera blasfema col genere senza mai mancare di rispetto e passione per esso, ma di non perdere nemmeno mai la serietà di chi dietro alle battute vuole far passare un messaggio che a distanza di trentacinque anni suonerà forse pure banale, ma quanto mai sentito: anche in questo, un precedente diretto o indiretto ma evidente di molti iconoclasti e rivoluzionari del nord.

Michele “Ordog” Finelli

https://www.youtube.com/watch?v=XEKiQTIHbdk

Precedente Mercyful Fate - "Melissa" (1983) Successivo Voivod - "Rrröööaaarrr" (1986)