Blackdeath – “Also Sprach Das Chaos” (2021)

Artist: Blackdeath
Title: Also Sprach Das Chaos
Label: End All Life Productions
Year: 2021
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Paralysiertes Äquinoktium / Мир Рухнул”
2. “Im Labyrinth”

Nel labirinto, nelle sue mura che sono il significante e la manifestazione tangibile delle mutevoli leggi del Cosmo, si consuma una tragedia di proporzioni colossali illustrata da un protagonista anonimo e morto: un’essenza non più umana che ha rigettato lo sbarramento del corpo precisamente al fine di poter volare oltre quelle barriere e quell’ordine (ovvero, per essere finalmente in grado di sfuggire tramite la fine della vita alla dittatoriale rigidità di quelle prescrizioni che ne sono significato) e solo così dare inizio alla narrazione dell’occulto mistero Anti-Cosmico per i posteri. Gli equinozi tremendamente paralizzati per via di questo arcano rito iniziatico, impossibilitati nella loro interrotta ciclicità, gli dèi al contempo bloccati nel mezzo della loro rinascita e la strada necromantica intrapresa da questo narratore che non esiste più né mai è ancora esistito, verso la liberazione dalla norma del creato e dei suoi crudeli guardiani arconti; verso l’energia del Caos primordiale e la sua nera fiamma.

Il logo della band

Dunque è con la figura metaforica della Morte al fianco, nulla meno che lo storico aiutante fiabesco di coloro che vogliono liberarsi da catene e vincoli di qualunque tipologia, che i Blackdeath si liberano in un certo senso da qualunque precedente dogmatismo musicale per passare loro stessi attraverso i livelli necessari che la composizione di un lavoro come “Also Sprach Das Chaos” fa apparire quale un vero rito d’iniziazione adiacente a quello più puramente dialettico, narrativo, metafisico, teologico e nella fattispecie gnostico incastonato nello scorrere di sorprendente musica dai tratti audio-teatrali. Ma è proprio nel tentativo di risvegliare ed attizzare quella fiamma iconico-spirituale, il cui tizzone ardente prospera con più o meno facilità al risveglio in qualunque essere vivente, che la band della fredda San Pietroburgo materializza -concettualmente quanto stilisticamente, e anche qualitativamente- qualcosa di ambivalentemente alieno a qualunque suo sforzo precedente, abbandonato per l’occasione il lessico più esteticamente intransigente ed inoculatovi tutto l’orrore libero e voivodiano dell’esperienza sperimentale adiacente e scrutata tra le artiche montagne della pazzia dei suoi membri (Cthulhu, Nuclear Cthulhu e Cthulhu Biomechanical in base all’esigenza tematica); una serie di corpora ora aperti come una bara scoperchiata che rifuggono la standardizzazione ed inseguono la variabilità in prospettiva di una composizione divenuta costantemente in evoluzione, una vergleichende Grammatik dai sentori quasi persi, se si vuole, in movimenti carichi di una propulsione psicotica che si propagano concentrici verso l’esterno come onde a creazione di due soli brani dall’estensiva e rispettiva lunghezza di un quarto d’ora e quasi venti minuti.
In questo scenario Anti-Cosmico una dovuta tripartizione a ritroso: l’incipit in cui è inclusa la descrizione gelida, a sequel, della fine del mondo, del collasso del Cosmo sotto i colpi vibranti del nostro Morto-ricercatore e della sua cerimonia che ha spezzato il ciclo di rinascita ed incarnazione della vita; la fine dell’Uroboro glorificata poi dalla tertium comparationis, nel delirio allucinato e laterale di “Мир Рухнул” (non dimentico degli Enslaved di “Mardraum” e “Below The Lights” che incontrano la pomposa follia vocale dei Magma meno musicali in un’esaltata fantasia corale) dove il mondo è collassato senza rimedio. E, per converso, la conclusione nell’inizio: nella tabula rasa che spiega, comprensibilmente nella tranche più lunga del disco e nel dettaglio più raffinato, come e tramite quali precisi passi poetici questa sia avvenuta.

La band

L’imprinting delle chitarre abbraccia così tutta la sperimentalità di cui è capace per trasmettere la distruzione in sensazioni discordanti che si sviluppano in ramificazioni allarmanti, in una catacomba di suoni intrusi mentre i sussulti e sommovimenti d’elettronica sempre più intensi col passare dei minuti rimangono impiccati tra le sei fila cosmiche di Abysslooker; e in ciò -nel rinnovamento, ricordiamolo- l’anello è rotto, la nascita di nuovi dèi è congelata ed il trait-d’union col passato (fatta salva una certa preferenza di tono chitarristico) resta quasi unicamente quel tedesco espressione veicolare scelta da musicisti russi che, in un simile contesto, non dovrebbe poi stupire quale semplice modernizzazione comprensibile all’orecchio contemporaneo di un antenato linguistico in qualche modo comune – una koiné indoeuropea (e, in maniera qui forse ancora più adatta, indogermanisch), l’Ursprache insomma dell’inconscio e del cerebrale che si traduce metaforicamente esplicita nella serie di accorgimenti sintetici ed elettronici la cui ideazione è portata alla luce della forma pratica dal quarto membro per l’occasione associato al nucleo strumentale, T.T. (il Thomas Tannenberger di fama Abigor nonché produttore del taglio finale dell’album come già del precedente “Phantasmhassgorie”), che fanno l’assoluta differenza ed aprono la musica dei Blackdeath verso -ed oltre- orizzonti precedentemente inimmaginati probabilmente dalla stessa band. Pan suona il suo flauto (ed occorre quanto mai ricordare all’esperienza di “Also Sprach Das Chaos” come ogni parola sia in fondo una bugia prosaica – che nessuna rappresentazione è del resto univoca o dovuta tra il significato gnostico e il significante esposto di un Black Metal che si carica d’alterità Electro-Industrial) tra graffianti influenze Laibach, dei primi Wumpscut più malati, delle frustate di elettronica analogica Leæther Strip ed Einstürzende Neubauten che amoreggiano con l’impurità oscura dei Sephiroth aumentata di battiti, promulgata come editto dalla base degli strumenti più comunemente associabili al genere nero di musica estrema par excellence (il quale, a scanso di equivoci in descrizione, resta la base prima ed ultima nella tassonomia artistica del trio) nelle innervature nebulari di squilibrio elettroacustico su cui s’innestano spettrali cori angelici e riaperture di blast-beat verso un mare aperto nero e rigogliante di un caos risucchiante tutta la composizione. In questo exploit, gli accorgimenti sinfonici e di campionamento suonati dalle tastiere dell’austriaco sono l’elemento di coraggiosa rottura in una commistione che per riuscita metodica, per finezza d’incastro con le melodicità della scrittura e per concetto (sebbene non per forma estetica finale), sa tanto della grandezza dei Nihil Nocturne di “Wahnsinn​.Tod​.​Verrat” come di “Hvis Lyset Tar Oss” – ma analiticamente rivisti nelle pieghe più recondite di una mente in preda a lucide convulsioni di memoria Dødheimsgard ottimamente trasposte sul pentagramma dall’eclettismo abbracciato dalle urla deliranti di Colonel Para Bellum; da quel parallelo Dark Ambient al robotismo Kraftwerk perso nel labirinto di ambigui scenari gotici.
E nonostante la sperimentalità delle unioni depravate e delle ramificazioni chitarristiche che bucano ora un canale acide, ora l’altro svirgolandovi fuori in geometrie sistematicamente divergenti d’acerbi Gorguts che, suonando ossessionati da una sinfonia in B minore, flirtano con gli stratagemmi a detonazione multipla degli ultimi Abigor nel tono gretto e svuotato dei Blut Aus Nord anno 1996, una certa linearità progressiva nell’esplorazione uditiva è costantemente mantenuta in modo che celle di minuti passino nel giro di secondi e che anche le evoluzioni più particolari ed inattese accolgano come fosse sempre la più naturale delle opzioni possibili. In tutto questo, una grande profondità che si rivela sia con gli ascolti che addentrandosi nel cuore più sperimentale ed avanguardistico del disco: da una partenza dritta e semplice che evolve gradualmente e quasi lentamente (in squisito contrasto con i ritmi sostenuti del suo momentum) verso le stranezze seriori che attendono intensificate e sempre più uniche dietro l’angolo di ogni strofa, in ciò profetizzate da un basso estremamente pieno e significativo, spesso ipnotico e pulsante che con i suoi profondi ed industriali rimbalzi anticipa le soluzioni elettroniche in cui il comparto distorto va a sciogliersi (su tutte: quella che apre maestosissima l’ultimo quarto d’ora finale dell’apocalisse palpitante “Im Labyrinth”) come neve tra le fiamme ardenti dell’Inferno di ghiaccio sinistro ed irrazionale da cui queste verosimilmente provengono.

Non solo dunque è la progressione che porta i Blackdeath da qualunque loro altro disco ad un qualcosa come “Also Sprach Das Chaos” ad essere rimarchevole, quale traguardo inaspettato di per sé e che in pochi musicisti del genere potrebbero raggiungere, ma l’enorme progressività, ostile ed ammirevole, di un trio che suona come fosse un’orchestra sintetica dall’enorme maestria nella gestione del fattore spaziale, performante un’apocalisse che ha luogo nei recessi della mente umana che ha tradito la divinità per perdersi negli abissi dello spazio aperto e senza fine, fatto di paure dai mille nomi; e che lo fa con l’organizzazione ferrea ed ineccepibile degli elementi puramente estranei in un contesto tanto poco lineare quanto può esserlo il marasma evolutivo in due pachidermici brani da oltre un quarto d’ora l’uno, specialmente in una oltremodo pienissima seconda metà. A dimostrazione, in fondo, che lasciare le mura del labirinto significa da ultimo testimoniare il sorriso della Sfinge: e se non esistono più barriere fisiche nel dedalo che respira per il Morto protagonista dell’opera, perché il Nulla è il contrario dell’esistenza che conosciamo fin troppo bene ma tutto ciò che esiste è infine generato dalla morte stessa, allora è vero che Blackdeath significa in fondo Black Metal nella sua forma più autentica, originale, individuale, letteralmente ed etimologicamente radicale, tradizionalmente insulare eppure senza confine possibile -a ricordo di un tempo senza passato né futuro in cui le stelle dell’amara Via Lattea erano polvere- nonché puntualmente pronto, abbandonata ogni vana speranza e angoscia, per ciò che mai è esistito.
Così parlò il Caos, sic et simpliciter: e mai la sua lingua nera e biforcuta fu più soddisfacente e trionfale.

Matteo “Theo” Damiani

 

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