Bak De Syv Fjell – “From Haavardstun” (1997)

Artist: Bak De Syv Fjell
Title: From Haavardstun
Label: Edged Circle Productions
Year: 1997
Genre: Folk Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “From Haavardstun”
2. “De Siste Tanker”

Non basterebbe nemmeno il doppio dei dieci minuti scarsi d’ascolto riservabili all’unico lascito tangibile e reperibile dei Bak De Syv Fjell per descrivere, o narrare, nemmeno la metà di ciò che dietro ed intorno a questi sfuggenti attimi incisi su disco si nasconde.
Per poterlo fare, occorre innanzitutto partire da molto prima di quei Wardruna fondati nel 2003 dal corvo bianco più celebre di Norvegia e dal compare Gaahl insieme a Lindy-Fay Hella. Bisogna guardare un po’ più indietro rispetto al limitrofo periodo in cui i due famosi compositori di Bergen hanno condiviso alcuni dei propri strumenti nella parte di carriera più mediaticamente esposta e discussa dell’istituzione Gorgoroth; prima della sanguinosa e celeberrima messa nera in Cracovia del 2004, della sua ondata di blasfemia come del resto di quella molto più prosaica, fatta di egocentrismo e avidità che hanno portato in tribunale nonché all’irrimediabile disintegrazione artistica di quella che già era, ed oggi in maniera pur diversa resta, in verità la band di Infernus.

Il logo della band

Bisognerebbe infatti ed intanto guardare al solo Kvitrafn: a quel giovanissimo ragazzetto biondo prima che facesse scalpore in giro per il mondo con le sue atmosferiche foto catturate dall’occhio acuto di Peter Beste lungo una via centrale di una remota città del nord Europa da tempo immemore diventata leggenda popolare ed iconografica; quando piuttosto, nel 1996, insieme all’ai tempi non troppo meno misterioso Haavard, questo si muoveva alle prime prese con un progetto che (differentemente dai paralleli Ildkrig autori di un mero split di più canonico Black Metal condiviso su cassetta insieme ai belgi Magia Posthuma) mischiasse folklore, mito, ma soprattutto i suoi primi e timidi tentativi di ricerca etnografica sebbene dalle coordinate maggiormente recenti rispetto alle ambizioni preistoriche e paleografiche divenute sinonimiche degli autori dei tre “Raunaljod” – quelli che, senza alcuna possibilità di ritorno, avrebbero poi creato schiere di epigoni dalle dubbie utilità e dall’ancor più esiguo spessore artistico, fatta eccezione per grandi interpretazioni nello stesso alveo quali i di gran lunga successivi Forndom e gli invece paralleli (ancorché etnograficamente lontanissimi) Nest di “Woodsmoke” e “Trail Of The Unwary”.
I Bak De Syv Fjell, al contrario, la storia della musica moderna non l’hanno fatta, né hanno fatto quella del loro sottogenere di riferimento. Non solo perché nella loro unica uscita ufficiale, l’EP “From Haavardstun” che è oggetto della seguente restrospettiva in quanto giunto ai venticinque anni dalla sua pubblicazione, sono inclusi due soli (per quanto realmente sorprendenti) brani in un totale di circa nove minuti di nondimeno grande musica; ma perché, in tutta evidenza, i germi d’altri che qui stavano maturando (forse anche meglio che altrove) hanno subito una violenta cesura materiale probabilmente dovuta alla disillusione dei due compositori nei confronti di un panorama Metal annerito, specialmente nazionale, che così tanto li stava deludendo sul piano personale. Se a tutto questo si aggiunge che i tentativi di sbarazzarsene ed occultarne l’esperienza da parte degli stessi due musicisti coinvolti sono stati dal 1997 al 2008 notevoli almeno quanto il successo riscosso dai Wardruna e dal loro motore primo (e dunque non appare più poi così sorprendente né casuale che alla ventilata reunion del 2009, ovvero al primo rilascio dei brani su formato CD tramite Frostscald Records, sia poi seguito un totale nulla di fatto fino ad oggi), le sabbie del tempo che hanno sotterrato i Bak De Syv Fjell ed il loro nome dimenticato dal mondo avvolgendoli nell’oscurità non potevano davvero essere meno pesanti di così.

La band

Eppure, questo punto d’incontro bizzarro tra i cinque capitoli della fiaba “Bergtatt” (specialmente l’iconico primo), tra la sensibilità chitarristica degli Storm e le ombre invernali degli Isengard tormentate dallo spirito degli Hagalaz’ Runedance, e che risponde al nome ben poco reclamizzato di “From Haavardstun” con la sua title-track manifesto di un modo di comporre e la non meno bella “De Siste Tanker”, resta un lascito seriamente indimenticabile nel suo genere.
Non nei quattro minuti e mezzo della prima né nei quasi quattro della seconda si trova infatti nulla di quel che i due hanno corsivamente condiviso negli Ildkrig, e nemmeno -fatta eccezione per una certa iperattività ritmica d’eccezione- quel che il solo Einar Selvik avrebbe apportato (in ordine cronologico di apparizione sulle scene) nei Sigfader subito divenuti Gaahlskagg (dal batterista peraltro prontamente abbandonati ancor prima del rilascio del peculiare debutto “Erotic Funeral” del 2000) mentre i Trelldom rilasciavano lo splendido “Til Evighet…”. Più lontano, poi, l’approccio dei Bak De Syv Fjell non potrebbe rivelarsi dai Det Hedenske Folk dell’ex-Old Funeral per cui le bacchette del percussionista si sono prestate in una manciata di prove senza generare nulla di tangibile, né da quello degli stessi Gorgoroth (in particolar modo quelli di “Twilight Of The Idols” in cui Selvik ha registrato) o dei possibilmente ancor più lontani Dead To This World formati insieme all’Iscariah dimissionario dagli Immortal di “Damned In Black” e “Sons Of Northern Darkness”.
Concettualmente invece non troppo alieno al solo tentativo ulteriore di Kvitrafn di sposare le tematiche a lui più care con l’efferatezza del Metal di casa in un suo progetto in cui riuscisse a permanere per più di un’uscita -vale a dire quegli Jotunspor fondati invece con il King Ov Hell conosciuto proprio alla corte di Infernus durante il periodo, e dei quali, dal 2006, esiste il solo debutto “Gleipnirs Smeder”– il Folk Metal sporco, ruvido, vero ma melodico e privo di ogni eccessiva asperità dei Bak De Syv Fjell nonché figlio di “From Haavardstun”, è piuttosto fin dalla sua title-track qualcosa di evidentemente e musicalmente ben più attribuibile all’altra metà del duo: proprio all’Haavard che, a lungo, negli anni nebulosi che senza internet alla portata di tutti hanno avvolto la chiacchieratissima musica norvegese tra la fine degli anni ‘90 e i primi cinque dei ‘00, fu erroneamente confuso con l’omonimo Håvard Jørgensen – colui il quale, invece, battezzatosi per metà del tempo Lemarchand, aveva e avrebbe tra gli altri composto (con un gusto strumentale alquanto vicino, cosa che ha certamente aiutato l’equivoco tra gli ascoltatori più attenti) i primi dischi marchiati Ulver nonché contribuito alle chitarre dei Satyricon di “Dark Medieval Times” prima di sparire dal radar e rientrarvi solo grazie ai Dold Vorde Ens Navn di “Gjengangere I Hjertets Mørke” nel 2019.
Il flauto distante, i semplici eppure ricchi cori di voci pulite maschili e l’eterea sfuggevolezza di quella femminile, le chitarre di Haavard che incalzano squillanti e vivaci insieme agli accenti folkloristici della batteria di Kvitrafn (un precedente stilistico per il batterismo di gruppi come i Primordial dal 1997 in poi, e senza dubbio cruciale per lo sviluppo dello stesso Einar di quei ritmi dell’anima che ne fungono oggi da firma, così legati a forze ctonie ed ancestrali), sono insieme un vortice di elementi quasi soavi e disposti non in contrapposizione bensì in unione primordiale e pagana con il terroso e ventoso Metal dei due pezzi, prendendo le intuizioni gettate soprattutto nella “De Siste Tanker” già incisa (insieme ad altre quattro bozze di brani eterodossi e senza titolo) nel nastro registrato in sala prove a luglio del 1996 e circolato in una manciata di copie tra amici, migliorandole esponenzialmente e facendole diventare vettore autentico di una religione tutta matriarcale, dell’amore di una madre (a cui il concetto di terra, artisticamente, è da sempre legato) che mai si estingue, infinito quanto disinteressato – che può essere dimenticato per del tempo ma che mai si permette di essere totalmente sradicato dal cuore dell’uomo, e che dunque non può essere realmente rimosso dal pantheon di quelle divinità. Due canzoni il cui canto parla nel suo fluttuare quadrato eppure estremamente arioso come di una brezza nordica, di un anelito che si risolve nella scoperta di sé nelle proprie origini; fatto di poche note che nella loro semplicità e generosa originalità gettano un lungo ponte verso terre che ancora sono lontane dall’essere esplorate in quei 27 e 28 novembre del 1996 (ovverosia quando i due brani vengono registrati nei Rec90 Studios nel giro di quarantott’ore) e che sarebbe tuttavia presto diventato un passaggio strettamente necessario per schiere di grandi artisti che ne avrebbero fatto la propria via privilegiata alla scrittura del nascente Folk Metal, ma anche di tutto uno spettro di sensazioni e suggestioni sì innegabilmenge figlie della scuola ’93-’95 di Enslaved, Helheim ed Hades, eppure nel 1997 ancora in via di sviluppo nel Viking e nello stesso Black Metal a cui il duo per suono e retaggio è indissolubilmente legato.

“From Havaardstun” rimane a cinque lustri esatti dalla sua prima uscita su quel piccolo quarantacinque giri, stampato anche un po’ amatorialmente da Edged Circle Productions in mille copie numerate a mano (che oggi paiono quasi uno sproposito), una testimonianza vitale e cruciale che va quindi ben oltre la fama del suo percussionista; ben oltre le peripezie che lo avrebbero visto coinvolto, musicalmente e non. I suoi dieci minuti scarsi restano sospesi in una dimensione in qualche modo estranea al passare del tempo, benché geolocalmente impossibili da allontanare dalle nebbie delle sette montagne che attorniano quella nativa Bergen a cui un altro futuro frontman, non meno famoso, avrebbe col suo cuore autunnale dedicato la parte più fruttuosa e strabiliante della carriera dal 1999 al 2005 negli altrettanti episodi che scandiscono lo scorrere dei sogni familiarmente intitolati “Nattestid”, “Bjoergvin” e “Doedskvad” (è chiaro: proprio i Taake in cui Haavard milita per la realizzazione del debutto su EP “Koldbrann I Jesu Marg” nel 1996) – e meritano dunque una riscoperta molto più approfondita di quanto non potrebbero tradire ad una prima occhiata o ascolto. Non solo perché sono e restano un momento, quantunque innegabilmente giovanile, cruciale ed interessante nella carriera dell’animista bardo che tanto avrebbe dato in fatto di intuizioni e sensibilità alla musica contemporanea dopo il cosiddetto millenium shift; non solo perché qui ci suona quello che sarebbe stato uno dei più famosi batteristi dei Gorgoroth benché in una fase di carriera tutto tranne che qualitativamente felice; ma proprio perché i due pezzi che compongono un’uscita come “From Haavardstun” sono un vero tesoro nella diapositiva opacizzata che scattano ad un genere intero nelle sue primissime intenzioni, quelle che troppo spesso, nel futuro, saranno disastrosamente travisate e storpiate: un precedente molto poco conosciuto ma estremamente importante in due pezzi che avrebbero fatto sognare e volare con l’immaginazione ascoltatori per oltre vent’anni, nonostante ogni tentativo di oblio più o meno forzato. Perché, in fondo, quando dieci minuti scarsi d’arte trascendono il passare del tempo come avviene in questo caso, forse, meritano qualcosa in più che essere ritenuti interessanti storicamente parlando: meritano di essere riconosciuti a pieno titolo come qualcosa che permette di continuare tutt’oggi a cercare -o magari anche di scoprire- cosa si cela là dietro, al di là di quelle sette eterne montagne.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=YlcVYg-mKDk

Precedente Covenant - "In Times Before The Light" (1997) Successivo Summoning - "Dol Guldur" (1997)