Primordial – “Exile Amongst The Ruins” (2018)

Artist: Primordial
Title: Exile Amongst The Ruins
Label: Metal Blade Records
Year: 2018
Genre: Doom/Black Metal
Country: Irlanda

Tracklist:
1. “Nail Their Tongues”
2. “To Hell Or The Hangman”
3. “Where Lie The Gods”
4. “Exile Amongst The Ruins”
5. “Upon Our Spiritual Deathbed”
6. “Stolen Years”
7. “Sunken Lungs”
8. “Last Call”

Abbiamo ancora bisogno della storia?
Necessitiamo ancora di un codice morale? Di generi, di mura, bordi, lingue, confini, nazioni; di un intricato costrutto sociale che ci guidi nelle azioni e nelle riflessioni?
Quesiti che vanno oltre la condizione per cui una dicotomia passato-futuro rimane ad oggi, per i più apparentemente nell’etere del livello retorico, pur sfibrata, imprescindibile e mediamente accettata.

Il logo della band

Eppure, attorno a noi, si ergono rovine completamente ignorate. Statue impolverate e roccaforti al tempo stesso monito e insegnamento di passioni, guerre, angoli personali che mai afferreremo appieno ma che (a chi ascolta) raccontano di carestie, spiritualità repressa e di quel filo comune di sofferenza che da sempre -e per sempre- lega non solo il destino, se di tale concetto si vuole parlare, ma nel più concreto e terreno gran parte della vita degli esseri viventi. Ciononostante, cerchiamo di rifuggire il dolore in ogni impossibile modo alla ricerca di una perfetta felicità che sappiamo essere irrealizzabile, senza afferrare quel momento con razionalità, talmente importante in sé da poter variare in molti casi il corso stesso della storia e di altre esistenze che seguiranno per secoli.

La band

Prendiamo la penna e iniziamo a scrivere di azioni travolgenti che fanno la differenza. Non ce ne si rende conto subito. Iniziano sottovoce, come un rintocco lontano di una campana dal funebre presagio. Suona a morto, una chitarra acustica arpeggiata che riecheggia nell’aria una melodia greve. L’inquietudine è palpabile in simili epifanie, perché chi agisce -pur non potendo afferrare nell’istante l’importanza globale che ne scaturirà- è consapevole che quel suo gesto metterà a repentaglio se non altro la sua stessa esistenza, immolata per la causa. Un terremoto emotivo che solo una manciata di eletti può gestire senza venirne sopraffatta. E l’inevitabile violenza distruttiva che ne segue. Lo fanno per altruismo? No, questa parola non ha significato. Lo fanno perché non possono altrimenti, perché il cambiamento e la luce della ragione perseguitano nell’inesprimibile profondo il riottoso, e il suo sentimento di giustizia contro le menzogne, pila di ossa vuote, diventa chiodo fisso con cui frenare la lingua di chi si oppone. Lutero come Lucifero. Paradiso o inferno? Terra o inferno? La salvezza personale non è contemplata dal principio, perché il ritmico fuoco della volontà arde troppo intenso. Ogni despota, ogni martire, ogni tiranno, nasce dapprima uomo e animato dalle intenzioni più nobili.
—-Interviene la morale: quel famoso cerchio di gesso intorno alla gallina, ne è legato chi ci crede, diceva Hjalmar Söderberg. È quando scende la notte, dopo aver passato la giornata a giudicare chi per amore e promesse tradite si è macchiato dell’imperdonabile, che il nostro Io interiore si affloscia denudato in un angolo, sfinito, e non riesce a fare i conti con sé stesso perché altrettanto imbrattato. Un figlio impiccato dalla mano di un genitore, per salvare l’onore di famiglia, per redimersi socialmente da un peccato non commesso e lavarne la colpa di fronte al pubblico giubilante che punta il dito, è meno infame di ciò che non è stato perdonato? Esiste una pena giusta? Un dramma che assume i contorni di una tragedia gotica narrata in prima persona dall’incedere tumultuoso, una tensione interiore che nessuno può vedere e che termina con il solo gesto di liberazione estrema in una piazza portuale.
—-Neanche questo può impedire a quell’anima in fiamme di salpare verso mete inesplorate, di scandagliare l’ignoto e il mistero. Una ricerca ruvida, in progressione che si fa concitata, guidata dalla visione delle rovine dal colore sabbioso che ci fanno toccare una civiltà dimenticata, con i suoi riti, culti, dèi, che si plasmano in un amalgama che sottopelle compone la società stessa e ne guida i movimenti. L’uomo del ventunesimo secolo, l’occidentale, si mette a ridere conscio del livello evolutivo che ha raggiunto. Non ha più bisogno di un dio, di generi addossati, maschio o femmina che importa?, di una religione come del folklore di chi l’ha preceduto. Padrone del suo destino, tuttavia, terrore ed incertezza nei confronti del futuro gli mozzano il respiro. Speranze appese senza più fiato sull’albero maestro di una nave la cui rotta ha lui stesso scelto d’interrompere, perché la ricerca appariva ormai conclusa.
—-Sfuggendo alla storia abbattendo muri, statue, bruciando i libri ormai inutili e percepiti addirittura ostili al progresso, una sola lingua – una sola mente, ricominciando tutto dalla ridefinizione dell’uomo moderno. L’anno zero riparte da qui. Silenziamo ciò che è stato e anche il presente, gli uomini di valore passato – proprio perché passato, quindi morto. È una marcia funebre verso la pira su cui diamo fuoco alle colpe dei nostri padri, per non rischiare di ereditarle spaventati dall’orribile coscienza collettiva. Così amaramente emancipati, così deboli e limitati da noi stessi nelle sfide della vita, così superstiziosi ed esiliati tra rovine d’imperi sepolti.
——La marcia prosegue. Tamburi battono un ritmo inarrestabile e qualcuno nel mucchio si accorge, con rabbia che monta nel sangue e freme nell’aria, che stiamo premendo il grilletto che porterà alla nostra stessa fine, complici della bancarotta spirituale a cui assistiamo senza distogliere il dito dal ferro ricurvo. La presa di coscienza si fa forte e l’istinto di sopravvivenza reagisce: la guerra sarà anche persa, ma non questa battaglia.
—-Potrebbe essere l’ultima volta che combattiamo per qualcosa. Ogni momento che viviamo può essere l’ultimo e occorre tenerlo sempre a mente per non soffocare quando l’oscurità cade opprimente. Il groppo alla gola si fa pesante se realizziamo che perderemo tutto ciò a cui non diamo importanza, da un momento all’altro. In ogni caso. La nostra inerzia è sempre stata al comando della nave.
—-Il cullare delle onde calma per un istante i pensieri come in un ballo folkloristico, ma la vastità del mare ricorda anche che tutto affogherà. Che tutto va restituito alla schiuma. La metafora dal sapore biblico della ballata del vecchio marinaio torna alla mente. Ecco cosa voleva dire Coleridge, ecco il pericolo insito nel non apprezzare il volo di quell’albatros. L’orrore del nostro cuore di tenebra l’ha ucciso per sfamare la sete sociale. Senza capire. Si può tornare indietro? Sfuggendo a noi stessi.
—-Ma è davvero un’ultima chiamata quella che sentiamo, rannicchiati al buio nel nostro letto di morte. Riflettiamo convulsamente su tutto ciò che è stato, su quello che avremmo potuto fare ma non abbiamo mai fatto. L’alba sta per sorgere. Ma solo fuori dalla finestra. Riempie di dolore il pensiero che tutto è stato nient’altro che aspettare di morire, mentendo a noi stessi anche oggi, cercando un nuovo motivo per non farlo, un nuovo perché. Ancora una volta. L’ultima.
L’inchiostro nella penna è finito, non riesce a terminare quella parola. Una lacrima scende silenziosa lungo il corso di una ruga.

Oppure, avrei potuto semplicemente scrivere che “Exile Amongst The Ruins” è più oscuro e arrabbiato di ciò che l’ha preceduto, che presenta momenti più lampantemente Black Metal di “Where Greater Men Have Fallen”, che è il più difficile, il più Doom e il più decadente della discografia degli irlandesi, che la sofferta prestazione canora di Alan Averill è sempre sopra le righe e caratterizzante almeno quanto la musica composta dal duo Ciáran MacUiliam e Micheál O’Floinn, che Simon O’Laoghaire è un batterista di bravura e classe introvabili, che “Stolen Years” è un pezzo dal coinvolgimento emotivo che viene scritto una volta ogni molti anni.
Avrei potuto, continuando a descrivere con giri di parole l’atmosfera ruvida, sabbiosa e polverosa del disco, e avrei così evitato di condividere su carta un’infinitesimale porzione di pensieri che possono scaturire dal connubio unico, rasente magica alchimia d’altri tempi, di splendida musica ed intelligenza lirica senza pari del nuovo album dei Primordial.
Sarebbe stato possibile. Ma non mi sarei perdonato per non aver colto l’occasione di combattere in prima persona l’ultima battaglia di una guerra ineluttabilmente persa, tuttavia ancora in corso.

Matteo “Theo” Damiani

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