Dødheimsgard – “A Umbra Omega” (2015)

Artist: Dødheimsgard
Title: A Umbra Omega
Label: Peaceville Records
Year: 2015
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “The Love Divine”
2. “Aphelion Void”
3. “God Protocol Axiom”
4. “The Unlocking”
5. “Architect Of Darkness”
6. “Blue Moon Duel”

“Time without limit, eternity in a minute…”

Per gli amanti dell’avanguardia nella musica estrema, ed in particolare nel Black Metal norvegese, un monicker come quello dei Dødheimsgard non dovrebbe necessitare di presentazioni. Il suo ritorno, un momento di giubilo o quantomeno fervente interesse.
Alfieri di un Avantgarde da sempre stilisticamente comunque ancorato nelle sue radici profondamente e coerentemente Black Metal, i Nostri tornano sul mercato discografico ad otto anni di distanza da quello che fu il loro ultimo acclamatissimo lavoro, quel “Supervillain Outcast” uscito nel 2007 come loro prima collaborazione con la britannica Peaceville Records, che vedeva anche per la prima volta la mancanza di Aldrahn dietro al microfono -di conseguenza- sostituito (egregiamente, va ammesso) a quel tempo da Kvhost (all’anagrafe Mathew McNerney dei Beastmilk, da pochissimo rinominati a seguito di pesanti cambi di line-up in Grave Pleasures).
Tali premesse sono necessarie anche ai fan di lunga data del combo da sempre soprannominato “DHG”, dato che è altrimenti impossibile capire la genesi del maestoso “A Umbra Omega” di cui ci accingiamo a discutere.

Il logo della band

Il quinto disco (“prolifici” non è mai stato un aggettivo adatto ai Nostri) uscito a marzo 2015, oltre ad essere il secondo prodotto dalle sapienti mani dell’etichetta d’Albione, rappresenta anche il ritorno del figliol prodigo Aldrahn tra le fila del poliedrico (ora) quintetto dei Dødheimsgard, unito di nuovo al mastermind Yusaf Parvez (meglio conosciuto da sempre come Vicotnik).
Correva l’anno 1994 (annata d’oro più che mai per il genere Black Metal -e l’estremo in generale- soprattutto in Scandinavia) quando la mutevole creatura prende vita nei sobborghi di Olso, nera città metropolitana che tanto -anche sotto il mero aspetto estetico- avrebbe significato per la musica di Vicotnik e compagnia.
Dopo due gemme troppo poco conosciute di Black norvegese, rispondenti ai nomi di “Kronet Til Konge” ed il ben più raffinato ed intraprendente “Monumental Possession”, che sanciva un netto passo in avanti nella carriera della band, il quintetto ai tempi coadiuvato da due nomi come Galder (Dimmu Borgir, Old Man’s Child) ed Apollyon (Immortal, Aura Noir) da inizio ad un cammino di sperimentazione che da quel momento non sarebbe più stato interrotto: il dichiarante EP del 1998 intitolato “Satanic Art” precedeva -anche in intenti- il suono industriale, claustrofobico, malato, schizzato e schizzoide, asettico ed elettronico, che solo un’etichetta come la leggendaria Moonfog Productions (di Satyr dei Satyricon) avrebbe potuto fornire ad un disco uscito nel 1999: “666 International”, tutt’oggi ritenuto il capolavoro della band. Immediato e spontaneo è il paragone schiacciante con “Rebel Extravaganza”, stesso anno e stessa etichetta, ricercante a livello di sonorità probabilmente lo stesso risultato, ma ahimè non recante nei fatti la stessa genialità controversa ed a tratti ineffabile del DHG-pensiero (ascoltare le tracce di apertura e chiusura del quarto disco dei Satyricon per rendersi conto della somiglianza di non-strutture o di assenza di forma-canzone).

DHG band
La band

Passano 21 anni dalla formazione dei Dødheimsgard ed esce “A Umbra Omega”: ennsimo (in)coerente capitolo discografico di una creatura tra le più affascinanti del panorama Metal estremo e tra le più interessanti in ambito Avantgarde. Le premesse sono altissime, i fattori scatenanti già elencati qui sopra.
La domanda sorge spontanea, il dubbio lacerante che coglie senza pietà chi da sempre li segue: saranno stati in grado di dare un seguito degno (viste tutte le importanti circostanze) a due lavori come “International” e “Supervillain Outcast”?
A parere di chi scrive, la risposta non può essere altrimenti che positiva. E forse più di quanto ci si potesse finanche aspettare.
“A Umbra Omega” è un lavoro dispotico.
Sì, dispotico: perché come un tiranno ti nega la possibilità di libero pensiero davanti ad esso. Non concede all’ascoltatore -essere umano e, in quanto tale, animale catalogatore per sua stessa natura- la facoltà di dissezionarlo in parti, di trovarne una forma o una struttura.
Il tutto scorre apparentemente ed in prima battuta caotico, senza un vero filo conduttore (in realtà sempre presente, ma nulla è immediato nell’opera)… Incoerente.
Incoerente, sì: quell’incoerenza della quale i Nostri hanno fatto uno stendardo, un vessillo da tenere alto e sfoggiare con orgoglio in un mondo fatto di stranezze e brutalità ben più degne del termine “assurdo” di quanto non lo sia, in fondo, la musica finemente intessuta sul pentagramma dai quattro norvegesi.
Come anticipato, i pezzi non hanno una vera e propria struttura o forma-canzone. Le diversissime influenze, i variopinti paesaggi scatenati nella mente dell’ascoltatore, s’inseguono e si rincorrono tuttavia senza mai rubarsi la scena a vicenda.
Il logico risvolto negativo risiede, chiaramente, nel primissimo impatto ove il tutto può sembrare slegato e a tratti addirittura forzato. In realtà, una manciata scarsa di ascolti basterà (per chi è avvezzo alle sonorità proposte e quelle dell’Avantarde più in generale) per ritrovarsi davanti un opera di solenne (dis)armonia, pur sempre imprevedibile, ma con invero una spiccata dose di fruibilità su diversi livelli: un viaggio, senza biglietto di ritorno, per gli abissi più profondi della nostra anima. Un’esperienza vera che merita di essere smaliziata e non semplicemente ascoltata.
Neri come la pece nel descrivere la tragedia del vivere.
Assurdi nelle loro più variegate influenze nel portare a rappresentazione il peso opprimente dell’orrore umano.
Poetici come i cangianti testi che forniscono compendio al platter.
Folli come chi, al cospetto dei Dødheimsgard di “A Umbra Omega”, non prova paura e sgomento.
Neri, assurdi, poetici, folli e cangianti non sono altro che i cinque monoliti che compongono il disco, nella sua ora di durata, dopo l’intro “The Love Divine”.
Impensabile è, ancora una volta, tentare di unire i mondi della musica estrema, del Jazz, dell’Industrial, della musica classica e del Post-Black.
Ancor più impensabile è riuscirci.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=wjI_0pydBsg

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