Kampfar – “Profan” (2015)

Artist: Kampfar
Title: Profan
Label: Indie Recordings
Year: 2015
Genre: Black/Folk Metal
Country: Novegia

Tracklist:
1. “Gloria Ablaze”
2. “Profanum”
3. “Icons”
4. “Skavank”
5. “Daimon”
6. “Pole In The Ground”
7. “Tornekratt”

A distanza di un anno e dieci mesi dall’uscita dell’ottimo “Djevelmakt”, torna a far parlare di sé il quartetto di ratti norvegesi denominato Kampfar con un nuovo album -settimo di un’ormai ventennale carriera- intitolato “Profan” ed in uscita il 13 novembre tramite la connazionale Indie Recordings, come il fortunato precedente capitolo.

Il logo della band

Il solo anno trascorso dall’uscita dell’ultimo disco (anche se, a conti fatti, ben più che abbondante) ha destato tra i più attenti seguaci della band stupore, in quanto storicamente il combo ha da sempre preferito prendersi pause talvolta anche molto lunghe -come capitò nei sette anni di silenzio trascorsi tra l’uscita di “Fra Underverdenen” e “Kvass”– senza mai farsi prendere dalla fretta di rilasciare del nuovo materiale a tutti costi o per obblighi di alcun tipo.
Nonostante questa lecita sorpresa, il valore dell’ormai penultimo disco, il solito silenzio dei Nostri (rotto unicamente dal laconico flyer promozionale messo in rete due mesi prima dell’uscita di “Profan”) e la qualità del singolo digitale intitolato “Icons” e del videoclip -il primo in assoluto della band in ventuno anni di carriera- per “Daimon”, hanno subito levato dalla testa del pubblico anche il più minimo malizioso pensiero riguardo un possibile calo qualitativo dovuto alla routine.
Entrambi i pezzi in anteprima denotano una forte e rinnovata ispirazione, già giunta con il precedente capitolo, ed una direzione stilistica tendenzialmente riassumibile in una vena ancora più tendente alle origini prettamente Black Metal del frontman Dolk, con richiami vari ed eventuali ai primi due capitoli del combo (“Mellom Skogkledde Aaser” del 1997 e “Fra Underverdenen” del 1999), mescolata al mood annichilente, oscuro e maligno delle composizioni del precedente “Djevelmakt”, che aveva consolidato e reso al meglio la virata stilistica il cui foriero trova i suoi cardini in “Mare” del 2011, primo disco a portare il peso dell’abbandono del chitarrista e co-fondatore Thomas Andreassen e quindi della mancanza del suo apporto più fortemente folkloristico.

La band

Coerentemente con quanto proponeva “Djevelmakt” solamente un anno fa, “Profan” gode di diverse chiavi di lettura: è facilmente apprezzabile fin dai primi ascolti, pur essendo tutto tranne che un disco immediato o carente di profondità.
Al netto di una buona dose di orecchiabilità (prendere con le pinze l’affermazione, si parla pur sempre di Black Metal!), la maggior parte dei passaggi e dei minuziosi dettagli si svela in tutta la sua bellezza dopo diversi e più attenti ascolti, mostrando il vero contenuto del disco e rendendo il susseguirsi delle tracce sempre più irresistibile; una scelta compositiva che è sempre stata -in misure differenti a seconda degli episodi- il punto di forza dei pezzi e dell’approccio musicale dei Kampfar e che si era sublimato (ad oggi) proprio in “Djevelmakt”.
Nonostante i trade-mark elencati finora, sarebbe fuorviante e infinitamente ingiusto etichettare “Profan” come il successore diretto di “Djevelmakt” e niente più: all’atto pratico il nuovo platter dei norvegesi non suona come nessun altro disco della band uscito finora.
E’ infatti bene esplicitare fin da subito che “Profan” taglia via in gran parte le commistioni folkloristiche che così spesso in passato erano state alla base del sound e degli arrangiamenti della band, tramutandole il più delle volte in musica dal sapore arcano e ritualistico, presentandosi così come il disco più freddo, aggressivo, crudo, nero, senza speranza e stilisticamente più prettamente Black Metal da essi mai realizzato; l’apertura affidata a “Gloria Ablaze” è un chiaro monito in tal senso, con le sue chitarre secche, taglienti, grondanti sangue ed asciugate di medie frequenze in fase di registrazione, le ritmiche veloci e dal sapore quasi old school, tuttavia senza mai scadere nell’anacronismo, tenendoci bensì saldi nel presente grazie ad un refrain che passa agevolmente dallo scream acido e tagliente tipico di Dolk (incredibile come negli anni le sue performance siano quasi costantemente in salita) trasformarsi in un lamento tanto sporco ed incredibilmente straziato quanto avvincentemente epico.
Gli up-tempo sono all’ordine del giorno in “Profan”, ma i Nostri hanno già dimostrato di essere più che bravi a rallentare e creare veri e propri gioielli sonori quando l’oscurità ed il misticismo la fanno da padroni: la successiva quasi-title-track “Profanum” gode di una varietà di ritmiche ed incastri di riffing belli e maturi come non mai, e se “Icons” aveva -come anteprima- stupito il pubblico per la sua velocità e la sua carica frontale adagiata su brevi cori dal sapore antico e folkloristico, stemperando la cattiveria di cui è pregno il resto del pezzo, “Skavank” gioca ancora una volta sui cambi di tempo ed il pregio delle linee di batteria (varie e costantemente interessanti per tutta la durata dei quaranta minuti secchi del disco) con guizzi di sintetizzatori importanti e decisivi a sbucare dal muro di riffing ancora una volta di gusto non comune.
“Daimon” è il pezzo più anomalo del platter, a tratti folkloristico, e che ben si stacca dalle ritmiche veloci e senza tregua dei primi quattro pezzi nella sua prima parte, riportando anche nei ranghi strumentistici il didgeridoo (retaggio del secondo disco del 1999, di quella “Troll, Død Og Trolldom” che ancora oggi rappresenta una perla rara nel suo genere) qui suonato dall’ospite Geir Torgersen, che si occupa anche dei suggestivi canti di gola ad inizio pezzo, godendo però di un’accelerazione fulminea che ancor di più valorizza le restanti parti lente, decadenti e litaniche.
Quasi contravvenendo a quanto fatto in “Daimon”, l’accoppiata finale non concede più tregua o salvezza catartica all’ascoltatore che si trovi di fronte a “Pole In The Ground” e “Tornekratt”: il primo è uno dei momenti più immediati del lavoro, trionfo di cattiveria ed oscurità dal grande gusto melodico della combinazione di partiture vocali, chitarristiche e delle maestose tastiere di fondo, che culmina in una coda di sintetizzatori (esperimento ripreso da alcuni riusciti momenti del precedente “Djevelmakt”) che fungono anche come introduzione al pezzo finale che si pone come l’episodio dal più grande pathos all’interno del lavoro, grazie al perenne equilibrio tra lento e veloce, agguerrito e desolato, oscuro ed epico, senza mai scadere nel pomposo fine a sé stesso.

I Kampfar, ad un solo anno di distanza da quello che rappresentava il loro picco di maturità, non solo riescono a mantenersi ad altissimi livelli sotto ogni punto di vista, ma riescono ancora una volta a superarsi confezionando quello che -da oggi in avanti- risulterà uno dei loro lavori più riusciti: un disco compatto che supera le pur altissime aspettative, andando a fare centro nel bersaglio dell’ineffabile equilibrio tra immediatezza, coraggio e ricercatezza.
Consigliando chiaramente il disco, suggerisco altresì fortemente l’ascolto in alta qualità per poter apprezzare al meglio il grande lavoro eseguito in fase di produzione dallo stesso chitarrista Ole Hartvigsen, coadiuvato dal missaggio e mastering di Jonas Kjellgren, che lo rende carico di dettagli e finezze ascolto dopo ascolto.
Presenti oggi come venti anni orsono, e visibilmente intenzionati a non mancare nemmeno un colpo.

Matteo “Theo” Damiani

 

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