The Ruins Of Beverast – “The Thule Grimoires” (2021)

Artist: The Ruins Of Beverast
Title: The Thule Grimoires
Label: Ván Records
Year: 2021
Genre: Avantgarde/Doom Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Ropes Into Eden”
2. “The Tundra Shines”
3. “Kromlec’h Knell”
4. “Mammothpolis”
5. “Anchoress In Furs”
6. “Polar Hiss Hysteria”
7. “Deserts To Bind And Defeat”

Vive e prospera un antagonismo di ordine psicoticamente dicotomico e personale nell’intimo di Alexander Frohn, il despota illuminato ma assoluto regnante sulle rovine di Bifröst che tuttavia comprende quanto il musicista quale personalità, per la celebrazione ultima della musica, sia totalmente ininfluente ed irrilevante. Questo inarrestabile dibattito interiore, questa contesa esoterica fittizia e cionondimeno vitale getta, nelle stesse parole dell’autore, una riflessione poetica del suo continuo meditare esistenziale: un carnevale di suoni, una raccapricciante mascherata seria, una parata di umori e sfere del sensibile che si allineano sulla traiettoria di un odio smisurato e senza filtri per coloro che invece magnificano con le loro azioni vuote l’ignoranza di tutto ciò che non è creato o coltivato per la mera superficialità, nella più piena mancanza di quel che invece richiede devozione, raggiungimento di consapevolezze, di attenzione, che ordina dall’alto sacrificio di tempo e forze alla sua comprensione ed assimilazione.
Non sempre ciò si traduce in un compito piacevole, benintesi, e comunque uno che per poter giungere a pace e liberazione occorre -escatologicamente ciclico- portare a termine su quel filo rosso di progresso e caduta dell’umanità, del singolo come del collettivo, dallo spirituale al materiale, che il Von Meilenwald rilegge ermeneuticamente in occasione del suo sesto personale lavoro su full-length tra le pagine ingiallite dei grimori impolverati dell’Ultima Thule; l’abominio della desolazione desertica in cui il declino avviene nella ricerca di un catacombale passaggio sotterraneo, tra stalagmiti e figure criptiche – all’ombra celtica del tempio elementale quadripartito.

Il logo della band

I The Ruins Of Beverast riescono ad essere quindi da un lato una puntuale terapia personale non solo per il possibile avventore allo strambo banchetto ma in primis per il proprio creatore, un male necessario dagli abissi profondi di “Unlock The Shrines” alle esplorazioni mistiche di “Blood Vaults” e della sua genesi storica “Rain Upon The Impure”, passando per la meditazione invasata di “Exuvia” e finendo senza pretesa di continuità o linearità diretta proprio con le visioni lucide di “The Thule Grimoires”. Eppure, in qualche modo, è altrettanto vero che quegli stessi intenti disturbanti che oltraggiano il profondo del compositore tedesco macerandone i pensieri, finiscano per sedurre ogni parte in gioco mentre gli stati mentali a cui questa prole malata dà vita si riversano a flutti sull’ascoltatore, mentre una voce che coniuga quanto mai prima d’ora le altezze del cielo con le bassezze degli inferi vomita agonia e solletica le paure più profonde con il potere raffinato della simbologia; tra mitologia, classicità, psicologia, religione biblica e pagana, storia ed immaginazione onirica individualmente fattisi territorio intellettivo su cui disporre testi e musica, visioni e metafore da leggere e far proprie con riflessione attiva.
Ciò che innegabilmente è un monolite anecumenico di un’ora e dieci, musicalmente avventuroso (non serve nemmeno arrivare al suo centro mappale, agli esperimenti dalla firma totalmente sui generis di “Mammothpolis” o alla mesmerizzante conclusione del viaggio per definirlo tale), riesce a portare nei laboratori del plus ultra le ambizioni protagoniste disincarnate in suono da sempre notevoli dei The Ruins Of Beverast senza peccare di artificialità né svelare alcuno dei suoi essenziali accorgimenti retorici perché creato con l’intento primo di mettere in musica i testi, gettati su carta e sputati sotto l’influenza di fumi inebrianti alla maniera più mediumistica e trance-like possibile, come fossero sequenze d’immagini in una trama d’alternanza e giustapposizione psichica che procede a sprazzi e visuali, talvolta talmente ampie da essere stendhaliane ed altre così stringenti da far mancare il fiato per la loro claustrofobia indotta.

Alexander Von Meilenwald

La profondità di un oceano viene dapprima scandagliata con corde insicure gettate in un Eden abissale, illuminato dal fish-eye di motivi saturnini in quasi-gotico (la presa rapida di “Kromlec’h Knell” e la sensazionale “Deserts To Bind And Defeat”, che inter alia non si fanno mancare nemmeno inedite virate in territori Dark-Wave) all’esplorazione pericolosa di un cunicolo sotterraneo lontano dal mondo esterno, dalla superficie, in cui si aprono labirinti di direzioni sempre magistralmente ricondotte ad un punto centrale dalla composizione altamente non ortodossa, che stralunate galleggiano in un torvo vacuum di bioluminescenze melodiche così colorate a sublimazione da mettere a disagio. “Ropes Into Eden” contiene, nei suoi coraggiosi tredici minuti d’apertura, suggerimenti di tutto ciò, immediatamente trasposti con un carico da novanta di novità proposte al meglio delle loro potenzialità: visioni d’orrore e tele artiche macchiate di sangue fresco dalla severità della legge, dalle mani macchiate della giustizia scavanti nell’assenza, metafora di una croce nodosa sul Golgotha straziantemente vuota. Nessun intermediario semidivino indugiante tra alto e basso più disposto a sacrificarsi, nessun rosario snocciolato allo scadere della mezzanotte nell’anelito di salvezza, in quella grande opera di Redenzione rimasta incompiuta tra i solchi di “The Tundra Shines” la cui bellezza è come alito di fuoco e moto d’ira regale per la mancanza assoluta di dignità nell’uomo. Il risultato è una sensibilità morbosamente nuova per l’artista, un naturalismo immediato e quasi atavico, animista; il decadimento inarrestabile dell’Albero della Vita è evidenziato dalla meccanicità ipnotica e disturbante dei loop di retaggio Death Industrial sperimentati con una sincretica grazia persino per il progetto tedesco, così come nell’accordatura ribassata, moribonda ma sognante delle sei corde (vicina e forse anche superiore ai picchi di personalità del 2013 per gravità dei toni chitarristici) ma, soprattutto, una dose di violenza atmosferica inedita per la band che getta sì un occhio agli irripetuti, rossastri stilemi del più ripugnante seme di un’élite protetta (2009), ma in realtà anche ben più indietro ancora nella carriera di Alexander Von Meilenwald. La fucilata che riporta i blast-beat in scena nel finale di “The Tundra Shines”, con tanto di grancassa a risuonar sinfonica al seguito, e la voce che la segue con toni alti e raspi insoliti per il cantautore tedesco nel suo solitario output, sono l’inaudito spettro dei riff, stacchi e ritmi implacabili dei Nagelfar di “Virus West”. Così tanto che ai primi approcci non sarebbe poi troppo assurdo reputare “The Thule Grimoires”, proprio, e soprattutto dopo una certa dilazione stilistica in tal proposito a cavallo tra i dischi rosso e blu citati poc’anzi, un quinto o addirittura sesto album in prospettiva ipotetica della precedente band del batterista non si fosse mai sciolta dopo il terzo full-length; non solo per la mera costruzione ritmica massiva delle parti più serrate, bensì anche in quella che -polverosa e gialla cianotica- si insinuava già mediorientale nel carattere aspro, biblico di una profezia penetrante come “Hetzjagd In Palästina”.
E sebbene la sensibilità comune ai due progetti che rispettivamente furono -da un lato- e da vent’anni sono -dall’altro- la principale elaborazione compositiva del Von Meilenwald autore ben oltre il pur pregevole compito suo di percussionista, il nuovo The Ruins Of Beverast colpisce per la sua particolarità di unire, sotto la bandiera del collasso rituale ed in maniera invero assai creativa, le migliori caratteristiche à propos degli ultimi e più evoluti Nagelfar (mai fino ad oggi avvicinati con una tale, intelligente importanza nel suo progetto per così dire solista) alle novità continue del suo corpo musicale, sempre più forti ed aliene al Black Metal a partire dal precedente, tanto ipnotico quanto sciamanico “Exuvia”. Il tootem ed il suo mantra sono però qui riposti nelle ombre della coscienza in favore di uno sguardo ancor più ampio sulle concretizzazioni Doom nella loro controparte gotica, inglese e americana da pari, come mai prima d’ora gettato. La voce pulita, ad esempio, muta ed osa insistentemente ricercata quanto personalmente ricalcante la lezione di un Peter Steele che si fa Meilenwald il quale, a sua volta, si fa David Vincent di “Covenant” senza particolari intoppi o alzate di sopracciglio, in trasposizioni che sono quasi il collante immaginifico tra medium che lega i brani in un continuum di manifestazioni d’astrattismo dotato di una concretezza granitica, singolare.
Così le litanie sparpagliate come sull’elettronica sperimentazione ibrida di “Mammothpolis”, laddove avviene la metamorfosi ovidiana che accompagna ai vertici delle psicosi esoteriche della seconda metà di album, inglobano come organon metodologico i dialoghi cinematografici (del vocalist e non), i sample innalzati al valore d’inerenza e non ingerenza compositiva, spesso acremente contrastanti la musica proprio per evidenziare l’importanza di parti, melodie o segmenti strumentali: il lamento delle maleficae delle cripte di sangue diventa canto sirenico di danzatrici ed anacorete mediorientali sotto ai colpi pachidermici di un Doom mefitico, violento come l’euforia di bombe che cadono a capofitto, mentre nella tragedia centrale del cuore congelato di “Polar Hiss Hysreia”, nel ventre arido di lassù dove geograficamente nulla nasce, l’eredità dell’esploratore diviene linfa vitale prosciugata nell’impassibilità gelida del bianco, di liminali paesaggi estremi e shelleiani, in continua comprermeazione tra loro. Il sole a picco diventa così divinità infernale nelle vastità della già citata “Deserts To Bind And Defeat”, tableau vivant in cui le accelerazioni repentine suonano come rimproveri e fustigazioni per hybris, capricci di una mente lucida e trasognata al contempo che depistano veloci e creano tracce false leggere come le impronte di una lepre sulla neve; giochi di prestidigitazione che sono quanto mai un pugnale rituale conficcato da parte a parte nel cuore dell’intrattenimento innocuo, un infugabile incubo senza risveglio per la generazione della distrazione, ma che permettono anche all’intero “The Thule Grimoires” di essere l’album più completo e ricco mai prodotto dai The Ruins Of Beverast (andando a comparare, in profondità, i picchi del Vangelo di mostruosità ardente di Kramer ma superandolo in ardire musicale) e al contempo quello che scorre fresco come fosse di stacco il più breve di tutti – benché sia persino più lungo di “Exuvia”.

Ciò che si staglia smisurato sull’orizzonte di ascolto è dunque un onnivoro musicale il cui tonante rintocco semiologico fa vibrare la terra, un sussulto profondo in un mondo fatto di urla di bestie senza classe tanto forti e muscolose quanto sprovviste di voce; una preghiera pagana di morte quale poesia ad Helios, per le stelle al fine della preservazione, affinché i crateri di Kaali possano brillare per sempre, pietrificati, intoccati. Ascoltare la ricchezza sbalorditiva ed avvincente dei suoi sette lunghi brani significa infatti rifugiarsi nella luce verde fuori dalle mura del villaggio, nella notte polare che storicamente per il branco è soltanto sinonimo di pericolo ed oscurità, ma che per Alexander Von Meilenwald e chi lo vuole coscientemente seguire rappresenta invece la salvezza non concessa dalla collaborazione e socialità futile con la propria specie, fatta illustre e guadagnata esclusione per Michael Zech e Victor Santura (rispettivamente chiave di silenzi e risposte a tutto ciò che sarebbe altrimenti impossibile il primo, nonché produttore generale dell’album, e curatore del mastering nei suoi Woodshed il secondo) – e nondimeno avere responso a come si possa inserire con precisione maniacale aghi nelle algose regioni cerebrali che causano paura ed ansietà, usando la sola esperienza aurale.
Come pellicole surrealiste piene di suspense prima che brani, fatte di tensione e malessere, tutte le cui armi ed espedienti puntano nella direzione di congiurare avventure d’ascolto estranianti, senza la convenzionale gravità musicale, divorano feroci allontanando dalla familiarità e da ciò che è conosciuto, facendo diventare un puntino in spaventosa lontananza il salvo, il rassicurante – ben consci che, tuttavia, l’angoscia provata non stia mai veramente dentro, nel suo mondo, bensì fuori da esso, manifesta non mentre la sua magia procede, piuttosto quando questa finisce. In ciò, negli spazi comunicativi vastissimi più che nella convergenza pur effettiva di stilismi in superficie, Meilenwald continua ad espandere il mondo The Ruins Of Beverast verso territori nuovi e sapori totalmente inesplorati con costanza, diligenza artistica ammirevole e sorprese che attendono dietro ad ognuno dei sfaccettatissimi angoli impolverati delle pagine rivelatrici dei grimori dell’apparentemente irraggiungibile; e chissà se, in fondo, l’irraggiungibile sia poi realmente tale.

Matteo “Theo” Damiani

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