Summoning – “With Doom We Come” (2018)

Artist: Summoning
Title: With Doom We Come
Label: Napalm Records
Year: 2018
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Austria

Tracklist:
1. “Tar-Calion”
2. “Silvertine”
3. “Carcharoth”
4. “Herumor”
5. “Barrow-Downs”
6. “Night Fell Behind”
7. “Mirklands”
8. “With Doom I Come”

Cosa si può aggiungere, che possa non risultare prolisso rispetto a quanto già detto in lungo e largo nel mondo, in venticinque anni, riguardo la creatura del duo austriaco di Silenius e Protector?
Avrei iniziato circa in questo modo uno scritto incentrato su un nuovo disco dei Summoning, ormai sulla fiducia, se me l’avessero chiesto anche solo sei mesi fa. Ma pare evidente che un album come “With Doom We Come” lo renda impossibile, o quantomeno riduttivo. Saltando qualche spiegazione: sbagliato.

Il logo della band

Se un anno fa mi avessero chiesto quale fosse l’unica pecca della musica del duo, di fronte a carriera e stile che in più di vent’anni si sono dimostrati di coerenza e qualità invidiabile, nonché irraggiungibile per chiunque abbia provato ad imitarla in due decenni, la risposta sarebbe stata quella che il sottoscritto si fornisce da svariati anni a questa parte: l’assenza di qualsivoglia variazione effettiva. La conseguente mancanza, ad occhio meno critico e d’esigenza inferiore forse innecessaria, di un possibile reale miglioramento.
Falso, dirà qualcuno. “Old Mornings Dawn” forniva infatti una pletora di nuovi spunti – dall’utilizzo del percussionismo world, ora tribale e ora più caldo che mai, alla venatura più smaccatamente Darkwave, finendo o iniziando proprio con il lanternino più immediato (e più notato) di scelte che in fase di produzione si sono fatte più platealmente lo-fi. Obiettivo? Porsi in netta controtendenza con il filone che prende le sue mosse proprio dalle intuizioni melodiche e stilistiche dei Summoning – che lo hanno innalzato, ad oggi ed in totale retrospettiva, ad una delle prove più longeve dei due. È stato proprio l’ultimo full-length del gruppo, datato 2013, a portare -finalmente- quella ventata di novità (seppur non ancora certo un vento di bora) che dopo così tanti anni la proposta iniziava a necessitare febbrilmente. Dividendo, come fisiologico in questi casi.
E se questo li ha resi effettivamente meno appropriati per essere impiegati durante una partita del gioco di ruolo di turno, chi scrive immagina che a Michael Gregor e Richard Lederer possa interessare fino ad un certo punto. Così poco, invero, che “With Doom We Come” li vede tornare non solo a relativamente pochi anni di distanza (cinque confrontati con gli oltre sette che trascorsero tra la penultima prova e l’ammiratissimo “Oath Bound”), come di consueto per Napalm Records, tuttavia portando ancora più novità che nel precedente disco. Possiamo finalmente parlare di evoluzione?

La band

Si (ri)parte dalle fondamenta. I due ristrutturano (per la prima volta) il tutto cominciando proprio da ciò che era rimasto dalle sessioni dell’ultimo disco, lavorandoci in modo atipico per gli standard costituiti, così apparentemente e drammaticamente immutabili, costruendone volontariamente un malinconico continuum naturale come quello biologico tra due fratelli nati a diversi anni di distanza, i quali, nonostante la lontananza temporale, non possono che presentare tratti somatici distinguibilmente ed inevitabilmente simili. Ed è quindi proprio dalle intuizioni del suo predecessore, già al tempo diverse per il rinomato sound dei Summoning, che muove i suoi passi più profondi “With Doom We Come” – abbattendo innanzitutto il solito concetto di fugace introduzione e trasformandola in un corposo brano da sette minuti a tutti gli effetti che, ciononostante, con l’assenza diretta di cantato e l’impiego marziale di campionature, svolge esattamente la funzione isagogica di preparare l’atmosfera che troveremo in “Silvertine”.
Le differenze sono immediate: l’approccio vocale (come sempre sdoppiato) è direttamente in primo piano e variegato come non mai, includendo un utilizzo frequente di controcori e soprattutto di tonalità e rifiniture che -sebbene non osino mai andare sul clean tout-court– rimangono comunque su uno sporco ad oggi totalmente inedito. Cantautoralmente per approccio, la voce guida e detta il passo per le canzoni che si dispiegano, sviluppandosi ariose e più ricche di dettagli nascosti, non più sulle ali facilone delle melodie epiche dei sintetizzatori, bensì sui reiteranti arpeggi distorti delle sei corde e sulle profonde liriche (sempre in prestito, ma spesso lontane dall’universo fantasy) per la prima volta intelligibili.
Se è vero che i nostri hanno via via cercato di rifuggire sempre più l’uso di accordi solidi e propri del Metal in senso stretto, non si può non notare come in tutti i brani di “With Doom We Come” le chitarre stendano continuamente tappeti che un tempo furono invece risolutamente affidati ai ricami delle tastiere, la cui importanza non è chiaramente scomparsa ma risulta decisamente decentrata di ruolo sull’immediato. Pochi sono infatti gli agganci melodici o i tormentoni tonali dalla facile e battagliera presa nelle lunghe composizioni, pur non rendendo il disco lontanissimo dalle atmosfere solenni di siffatta specie, se non in un primo momento per toni, colpiscono più per la loro sporadicità (“Carcharoth”, “Night Fell Behind”, “With Doom I Come” e in particolare l’intermezzo di “Barrow-Downs” la cui natura appare non casuale alla luce dell’analisi) che non per la grandiosità del passaggio in sé. I sintetizzatori non dipingono più quella distesa romanticamente in bilico tra l’inafferrabile e il nebbioso; sono piuttosto impiegati in modo apparentemente scarno, quanto in realtà più forti proprio nel dipingere con dettagli e contrasti un sottobosco di rifiniture e garbate funzionalità che si discostino maggiormente dagli abusati corni, ottoni ed atteggi orchestrali per cui sono diventati famosi. Una scelta intelligente e coerente con il mood più introspettivo, ramingo ed elegantemente raffinato dell’album, che ora disegna soundscapes nitidi a favore di una più grande analisi interiore, che scansa in sostanza l’allettamento che un tempo fu del più catchy ed infinito ridondare del drone melodico, in favore di un operato meno decifrabile con le chiavi del (solo) Metal o del Rock, non mancando di far sue quelle divagazioni parallele del duo che, sulla carta, ha sempre orgogliosamente e testardamente ritenuto non appartenere all’universo Summoning.
A dar loro parziale torto ci pensano tuttavia proprio esempi di altissima fattura come la già citata “Silvertine”, “Mirklands” o “Herumor” che, pur suonando indistinguibilmente Summoning, si dimostrano finalmente diverse per via delle loro costruzioni ipnotiche, notturne e in progressione di dettagli sottoesposti e sospesi, creando un puzzle più complesso e di aumentata difficoltà d’assimilazione, che permettono il dispiegarsi del ventaglio emotivo di umori e poetica trasposti in una musica che colpisce davvero solo dopo ripetuti passaggi, perché altrettanto magica ma oggi più nitidamente intima e trasparentemente disillusa.

Si potrebbe proseguire altrimenti nel sottolineare punti di stacco e congiunzione tra la nuova opera e ciò che l’ha preceduta, ma ne consegue più sinteticamente che, con “With Doom We Come”, giunti ormai all’ottavo full-length, gli austriaci abbiano realizzato il loro disco dalle fattezze più ambiziose e diverse, portando facilmente a storcere il naso in segno di disappunto a quel fan che reputava fino ad oggi sensata (quando non persino auspicabile) la stagnante mancanza di evoluzione nella loro musica.
In sostanza, al bivio tra lo scioglimento per comprensibile mancanza d’interesse nel ricreare all’infinito lo stesso sound, o il continuare pedissequamente statici per soddisfare le autistiche esigenze dei più caparbi sostenitori, è stato invece audacemente scelto di instradarsi scavando una terza e più valorosa direzione: staccarsi dai proseliti, staccarsi in gran parte anche dall’universo tolkieniano (innanzitutto liricamente), perdere quindi qualche ammiratore per guadagnare infine nuova linfa in nobiltà di ricerca, creando con ciò il suo lavoro più coraggioso, qualcosa da gustare con grande calma, nei giusti momenti, e pertanto -in senso stretto- artistico. Questa volta, tanto più solitari ed erratici quanto unicamente il fato può imporre.

“And all I loved, I loved alone.” (Edgar Allan Poe)

Matteo “Theo” Damiani

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