Novembre 2020 – Inquisition

 

Mentre il mondo là fuori crolla o si affanna tra le altre cose a stilare le consuete e copiose classifiche di fine anno, la lente di ingrandimento di Pagan Storm Webzine vuole prima, quanto piuttosto, soffermarsi per il momento sul dipartito novembre così da poter gustare i più apprezzati dischi uscitivi sicuramente meglio di quel che si può fare nella incontestabile dispersività complessiva dei soliti listoni (che, comunque innegabilmente utili agli appassionati ascoltatori già tali durante il corso dell’anno, anche su queste pagine arriveranno – come sempre, tuttavia, non prima della fine di dicembre). Sarebbe andata così in qualunque caso, ed il mese in corso a sua volta non sarà da meno una volta concluso, ma per uno come l’undicesimo del 2020 in particolare evitare un approfondimento dedicato figurerebbe davvero come un imperdonabile torto: con quattro dischi che, fatto più unico che raro, hanno ricevuto nessuno meno di quattro nomine su cinque delle totali possibili da parte dei figuri dello staff, ne è rimasto perfino escluso uno che alla sua uscita meritò (e ampiamente) uno spazio monografico su queste pagine in occasione del sesto appuntamento de “La Gente Deve Sapere” durante la stagione ormai agli sgoccioli ma ancora in corso.
Insomma: gli Inquisition con il loro superlativo, ottavo full-length intitolato “Black Mass For A Mass Grave” (e uscito per un’insolita Agonia Records) avranno anche stravinto per quattro quinti di noi, gli Ondskapt seguito a quasi pari apprezzamento complessivo e così anche i sorprendenti Stormkeep e gli Urfaust con i loro rispettivi, rimarchevoli e nuovissimi album, ma il penultimo mese di questo bizzarro anno -tanto nel male quanto in realtà nel bene- ha stravolto le carte nei gradimenti conclusivi che verranno stilati alla sua fine, complice l’inizio di dicembre, e -ben più sensibilmente- dato i natali ad una importante sequela di album da non dimenticare soltanto perché colpevoli di essere stati schiacciati tra la frenesia immancabile delle imminenti, seppure azzoppate, feste e quella della compressione consueta e forse fisiologica del finire di annata. Per questo motivo, in conclusione al presente editoriale, abbiamo questa volta deciso di fare uno strappo alla regola e aggiungere una quanto mai necessaria menzione a qualche altro selezionatissimo lavoro che durante novembre è entrato, seppure privo di un’altrettanto larga condivisione di gradimento, nelle case e sulle mensole di qualcuna di queste incallite e rabbiose anime… Persi (e ritrovati) tuttavia nel bel mezzo di una costellazione di spade, nel vortice dei colpi finali e fatali di un autunno senza pietà. Non resta che augurarvi una buona immersione, con lo stupore testardo di chi mai vuole mai sapere cosa andrà a trovare.

 

 

[…] La grandezza è afferrata su vari livelli: dall’originalità delle benedizioni sussurrate a fior di labbra da morte e diavoli che tutto inglobano in un album di profondità inedite più che di immediatezze come raramente rilasciato dalla band, pronta ed armata fino ai denti per il Giorno del Giudizio, mai così atmosferica ed avvolgente le sinapsi come in “Black Mass For A Mass Grave” – un’eulogia scheletrica dal canto suo per il funerale del mondo come lo conosciamo, un successo di disco che prende intuizioni e le mescola per creare una versione che, con ogni probabilità, non era mai stata altrettanto rinnovata dal duo nella sua storia, facendogli raggiungere così la sineddoche più alta, nitida e realistica della sfumatura amorale tra vita e morte, tra bene e male […]. Laddove, insomma, la pesantezza della stella del mattino si stempera nella bellezza atonale di vortici di lame dal potere atomico nel senso più stretto del termine: quello di un nucleo forte e al contempo pregno di indivisibilità, per permettere al vuoto di permearvi dentro senza annientare, di banchettare con le emozioni e di distendere il sudario, morta l’anima, sull’inverno della carne per poter abbracciare la primavera dello spirito tramite tutta la dettagliata ricchezza di un macrocosmo fatto musica.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Nell’acausale vuoto cosmico, un universo seppur vorticoso e vasto come quello degli Inquisition può trasmettere una sensazione di immobilismo se visto come osservatore esterno, ma scavalcando l’orizzonte degli eventi e addentrandosi nel microcosmo del duo si delinea perpetua la sua espansione: un rimescolamento continuo, che mai prima d’ora si è percepito evidente come in “Black Mass For A Mass Grave”, in cui l’impalcatura analogica mantiene quel filo tagliente del precedente “Bloodshed Across The Empyrean Altar Beyond The Celestial Zenith”, ma lo impasta accogliendo una sovrastruttura più calda costituita da lead dal tono epico e una varità vocale dalle stupefacenti vette espressive. Articolata in modo sopraffino, la nuova uscita degli Inquisition non si presenta solo come un’ennesima consacrazione del duo, ma come una delle più scintillanti e organiche opere della loro discografia.”

Ci sarebbe quasi da ringraziare chi ha causato tanto trambusto in casa Inquisition, dato che in tre anni di pausa dalla routine disco – tour i due musicisti hanno avuto modo di reinterpretare uno stile già elaborato ad arte piegandolo ad esigenze espressive differenti. Il ricorso a ritmiche serrate è via via sempre più una rarità, come a sorpresa anche quei riff ribassati e pesantissimi che Dagon si portava dietro fin dagli esordi; al loro posto ecco dei giri armonici dove la melodia non è ivi integrata come sentito in passato, ma bensì delicatamente sovrapposta tramite delle fugaci note effettate provenienti da una dimensione ben lontana dalla nostra. Sulla carta tale scelta può apparire banale rispetto alla composizione cristallina degli ultimi capitoli, ma è innegabile che col suo carattere introspettivo “Black Mass For A Mass Grave” sia al netto contrario un ulteriore passo avanti d’interesse e qualità per i suoi autori: del resto reinventarsi alle soglie dei cinquant’anni con per di più dei risultati degni delle proprie opere migliori non è facile tanto quanto dissotterrare vecchi documenti legali.”

Poteva ben dirsi difficile per il duo statunitense rimettersi in piedi alla luce degli spiacevoli avvenimenti degli scorsi anni, ma ecco che contro tutto e tutti, sostenuti apparentemente solo dalla nuova label, il loro nuovo full-length incredibilmente riesce nel non facile intento di surclassare il precedente “Bloodshed Across The Empyrean Altar Beyond The Celestial Zenith” lavorando in una maniera differente: laddove quest’ultimo è un concentrato di violenza sonora, a tratti tipica del duo, il nuovo album segue invece un tracciato quasi completamente diverso, fatto di mid-tempo e ritmi più cadenzati (ovviamente non mancano i blast-beat da parte di Incubus, tranquilli) in cui, manco a dirlo, l’assoluta protagonista è la chitarra di Dagon che traccia delle melodie e delle atmosfere cosmiche decisamente nuove e sensazionali. Non si può certo parlare di virtuosismo tecnico (o forse si?), ma è indubbio che l’ispirazione sia confluita con tratti perentori nella realizzazione di questo lavoro, come fosse un flusso cosmico inarrestabile completato da pezzi inediti di organo che sembrano arrivare direttamente dagli angoli remoti dello spazio più profondo, donando ancor più splendore al tutto. Ciliegina sulla torta il ritorno dello scream più gracchiante di Dagon, alternato in volume e profondità in una narrazione quasi corale (da ascoltare la bellissima “Luciferian Rays” come testimonianza). Inarrestabili.”

Gli svedesi Ondskapt con il nuovo “Grimoire Ordo Devus”, che si sono guadagnati addirittura una nomina in più dei luciferini campioni del mese. Il ritorno inaspetttato ma folgorante della rinnovata band già rivoluzionaria del filone più occulto, rigoroso e religioso del Black Metal è nuovamente fuori per le mani insanguinate di Osmose Productions, e soffia demoniaco sulle fiamme del sapere e dell’eterna condanna per l’interezza di noi.

[…] Bevuto è il sangue del Diavolo, il sabba efficacemente travestito da liturgia sclerotica, accettate sono le abiette menzogne come immacolate verità e le sporche verità come candide menzogne al pari, in grazia come in dannazione; e nella realizzazione indefessa del misfatto, il quarto full-length battezzato “Grimoire Ordo Devus” assume invero la forma di un compendio sia stilistico che qualitativo per l’operato Ondskapt che riesce oggi a suonare -non da ultimo per la pienezza di una produzione dai toni inediti- anche come un irremovibile raggiungimento di omnicomprensiva completezza che in precedenza fu appannaggio di svariati benché forse capricciosi lampi maggiormente diluiti, qual dove comunque graziati dall’ineffabile tocco del genio espressivo più candido: […] l’ossario in cui si nasconde l’imputridito punto di incontro -e non ritorno- ove la pienezza dell’orrore nero e la pienezza della gioia euforica coincidono.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

“Se il passaggio da “Dödens Evangelium” ad “Arisen From The Ashes” aveva visto gli Ondskapt prendere una piega più muscolare, andando a predilire un riffing più denso e infittito di medi, gli svedesi impiegano un’altra decade per estremizzare quel dogma e ottenerne i definitivi neri frutti. Poco meno di un’ora di ribollente caos e sinistra violenza si scaraventano sui padiglioni auricolari: un ascolto asfissiante e impenetrabile, groviglio intricato razionalizzato da una produzione che, potente e pulita, esalta trionfante i dieci inni al perverso. “Grimoire Ordo Devus” è un mostruoso tumulto che, se sulle prime rischia di destabilizzare per la sua compattezza, con gli ascolti rivela singolarmente le grandiosità che lo compongono.”

Dopo una decade di vuoto ritornano gli Ondskapt, band che si contraddistingue nei primi anni 2000 e che oggi si ripresenta in una veste sotto certi aspetti rinvigorita, merito anche una produzione qualitativamente superiore che rende giustizia ad ogni piccolo dettaglio messo in gioco. Lo stile di Black Metal col quale ci interfacciamo è indubbiamente derivante dai canoni svedesi già propri del gruppo ma “Grimoire Ordo Devus” martella dall’inizio alla fine, spesso includendo digressioni melodiche che vanno sia ad amplificare la portata sonora delle composizioni, sia a scandire delle riduzioni ritmiche atte a rendere la strumentazione e i vocalismi ancora più massicci e profondi. Nel complesso un ritorno sulle scene di assoluta classe e diabolica raffinatezza, perfetto per chi non ha paura di cadere nell’abisso luciferino griffato Ondskapt.”

Tralasciando magari i finnici Ordinance nel nero settembre, nessuno in questo sconsacrato 2020 ci ha fatto sentire gli zoccoli del Maligno battenti sul terreno meglio degli Ondskapt, anche loro maestri nell’imbastire scenari terrificanti senza però rinunciare alla elegante schiettezza della via svedese al metallo nero. Anziché perdersi tra artificiose pause atmosferiche e posticci panegirici vocali, i quattro assatanati tengono sempre il ritmo elevato non tanto nei (soli) bpm quanto nella pura intensità, grazie soprattutto all’avviluppante operato delle sei corde. Lead e arpeggi bruciano come tizzoni d’Inferno in quel limbo tra l’ammaliante ed il respingente, dove chi ascolta fatica a metabolizzare i vari passaggi dell’album percependone piuttosto la soffocante interezza; la quale, una volta radicata nel subconscio, risulta incancellabile alla stregua di un marchio diabolico.”

“Dieci anni di attesa sono valsi decisamente la pena del silenzio nel caso di un nuovo album degli Ondskapt, quasi da far sperare che tutte le sospensioni temporali possano essere di questa portata considerato poi il risultato. Perché per “Grimoire Ordo Devus” le parole sono quasi inutili: un autentico gioiello di musica sulfurea e morbosità melodica alla svedese, in cui i riff di chitarra sono pilastri mutevoli capaci di reggere le strutture, esaltare l’ascoltatore e annichilire allo stesso tempo le orecchie. Insomma, con un album di tale riuscita, il gruppo di Stoccolma ribadisce ancora una volta come deve tassativamente essere e suonare un album di Black Metal alla svedese nel 2020.”

Quasi una standing ovation anche per l’intensità tagliente di un debutto fuori dal mondo come “Galdrum”, magico biglietto da visita come pochi esistenti per gli Stormkeep. Loro ci hanno messo più di due anni di lavoro senza fretta e pieno di passione per realizzarlo, Ván Records l’ha impacchettato per noialtri, mentre delle sue composizioni, sinfonie di mistero risplendenti oscura magia e scintillante stregoneria noi vi parliamo nei seguenti termini:

[…] Contro la volgarità che fa piangere gli angeli viene scelta ed esercitata la classe di artisti dotati di vero senso della bellezza finanche incastonata nella pietra più dura, grezza e comune; allora la brevità e l’incisività, la complessità che non esce a scapito dell’immediatezza e che vanno pertanto a braccetto in “Galdrum” ne fanno un disco da rotazione continua senza che questo perda o possa mai perdere d’interesse, appeal e sfaccettature. Lo chiamano ‘90s Black Metal: eppure ciò che viene tramato nelle sue sale è tremendamente attuale, perché malgrado gli Stormkeep facciano apparentemente di tutto per ottenere il contrario, per merito di originalità e capacità che scavalcano, quasi mistiche, qualunque improduttiva nostalgia revivalistica, la particolarità della disabitudine emerge fuori potente come un mostro affamato dalle brume argentee senza nemmeno dover aspettare la fine. Nessun artista fu mai, del resto – e ne consegue a corollario, vero artista senza vedere e rappresentare la sua singolare verità, senza aver visto qualcosa di fantastico che alcun altro vede né potrà mai afferrare.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

“Coinvolgete fin da subito, ma in grado di resistere con tenacia alla prova di ascolti ripetuti che, complice la breve durata e la freschezza dell’opera, non possono che essere numerosi: suoni secchi e un mixing equilibrato a includere e valorizzare l’apporto magniloquente delle tastiere senza mai perdere nerbo nelle cariche frontali, affinché gli squisiti arrangiamenti sinfonici si amalgamino perfettamente alla composizione e che, anche grazie alla ricca varietà in cui questi si ripropongono, non permettano mai di percepire la sensazione di già sentito; c’è chi del resto rivanga il passato proponendolo come nuovo, chi nasconde limitate visioni artistiche sotto un dichiarato intento revivalista e chi, invece, come gli Stormkeep, presentandosi come araldi dell’antico in musica e del fantastico come tramite, riesce a rielaborare con spontaneità i tratti storicamente difficilmente malleabili del Black Metal melodico e sinfonico rendendoli arduamente dimenticabili.”

Raramente la lezione dei Taake in tema di Black Metal dalle impervie strutture punteggiate da suggestioni Folk/Symphonic ha raccolto discepoli volenterosi quanto gli Stormkeep, progetto americano che porta avanti la diffusa fascinazione d’Oltreoceano per l’iconografia medievale. Alla forse non strabiliante originalità della proposta in apparenza si oppone un furioso saliscendi di spumeggianti linee operistiche le quali, pur ricordando non poco l’aura melanconica del giovane Hoest, sono comunque una festa per le orecchie degli ascoltatori più esigenti in fatto di scrittura. Mixing fumoso e vocals latenti sono un problema soltanto al primo paio di giri, dopodiché spetta a chitarra e tastiere dominare la scena per un’infuocata mezz’ora grazie alla prestazione grintosa degli strumentisti, guidati da uno dei rari e perciò splendidi casi di talento “forestiero” prestato al genere con esiti ottimali.”

Chi scrive non nasconde il fatto innegabile di nutrire molti dubbi, quando si approccia all’ascolto di band statunitensi dedite ad un Black Metal medievale; se già in Europa infatti le band più valide nel filone si possono contare sulle dita di una mano, difficile è ancor di più immaginarsele nel contesto del Nuovo Mondo, dove un certo immaginario è radicalmente importato. Non è tuttavia questo il caso degli Stormkeep (non certo musicisti ed artisti novellini dal canto loro), che hanno decisamente pubblicato in “Galdrum” un buon lavoro di Black Metal dai tratti epici e medievaleggianti, uno che quindi per forza di cose deve il suono ad alcuni mirati classici europei del genere ma senza mancare di personalità. Il risultato è che la tempesta di chitarre, sia acustiche che elettriche, e tastiere à la Dungeon Synth si amalgamo perfettamente in mezz’ora abbondante di viaggio fra lande desolate, cavalieri erranti e folklore dimenticato.”

Mese ricco per la label tedesca che, non contenta di una realtà entusiasmante come quella del Colorado, ci ha messo in fila niente meno che il sesto attesissimo full-length del prodotto primo di esportazione dei Paesi Bassi tutti: gli Urfaust. “Teufelsgeist” è ufficialmente fuori e le sue nebbie che svelano lo spirito del Diavolo in musica hanno irrimediabilmente ottenebrato le percezioni di quattro di noi, dando vita ad orrori artistici senza fondo.

[…] “Teufelsgeist” ricorda con un afflato quasi enciclopedico di chiusura totale del mondo al suo esterno, ve ne fosse mai bisogno, che se è poi vero che restare esclusi fuori da un contesto può talvolta risultare spiacevole rimanerne intrappolati dentro è decisamente imperdonabile; allora gli Urfaust possono ben permettersi di non porsi alcun quesito né problema di identità, attori istrionici e anche un po’ bohémien fortissimi delle redini della loro creazione evolutiva di pirandelliana memoria, che in soli trentaquattro minuti di sopraffazione, paralisi e nausea colorate di fiaba senza tempo, laggiù nel reame di un eterno brodo primordiale fatto di un dedalo intossicante di processi mentalistici a tuffo infinito, esplora i fondi del disagio, del topos della confusione e della disperazione esistenziale con rara raffinatezza, con una pignoleria mascherata da trasandatezza che, manifesto dell’anti-arte, della negazione della pretesa artistica, si fa arte.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

“Consapevoli esegeti del proprio lemma artistico, in “Teufelsgeist” gli Urfaust riguardano al debutto non come un diretto successore stilistico, ma come in uno specchio amletico raggiunto dopo un tortuoso percorso: dal Metal soffocato fra polveroni neri, fino alla cupa Ambient discretizzata con eleganza dall’atipico utilizzo della strumentazione elettrica. La disgregazione, conseguenza di una volontaria eppure visionaria intossicazione del sound, continua inevitabile: gli amorfi bagliori cosmici si dissolvono poco a poco come stelle riflesse su una distesa d’acqua torbida e densa e quelle progressioni che nel precedente “The Constellatory Practice” sfociavano in visionari rumorismi orrorifici si abbandonano qui gradualmente ad un torpore sinaptico. Ancora una volta unici nel ricreare con ricercatezza un intenso e totalizzante viaggio sensoriale.”

Ormai il linguaggio dell’act mitteleuropeo è stato somatizzato da buona parte del pubblico di settore, permettendo al duo di cimentarsi in operazioni parzialmente alternative al continuo perfezionamento artistico dei due monoliti precedenti. L’impianto narrativo lineare (dall’euforia al coma etilico) dietro “Teufelsgeist” limita forse l’estro e le possibilità dei neerlandesi, ma nemmeno l’andamento prevedibile di questa mezz’ora può scalfire il fascino dell’Urfaust sound: il sordo martellare del rullante e l’agonia dietro al microfono di IX rimangono tra i trademark di un gruppo fieramente uguale soltanto a sé stesso, persino quando ondeggia tra delle magnetiche storture orchestrali ed un basso carnoso dall’animo Sludge; peccato però che ormai anche loro siano in qualche incomprensibile modo finiti nella lista nera delle band ripetitive stilata dal popolo del web, quindi l’appello è di dare una letta alla definizione di “consistenza” sul dizionario e riascoltarsi questo disco una volta ancora.”

Dopo due anni ritorna il duo con il suo sesto capitolo di pura intossicazione sonora, in cui vengono ampliate sensibilmente sezioni e sensazioni Doom, Ambient e rarefatte, ma non scarne, del precedente disco “The Constellatory Practice”. La radice Black Metal (più atmosferica che mai) è praticamente ridotta all’osso, essenziale per stile ma decisamente sempre un punto fermo per sensibilità su cui basare un disco in cui la voce straniante di IX guida nei recessi del caleidoscopico viaggio venefico. Sicuramente un lavoro che per molti avrà bisogno di parecchi ascolti attenti e predisposti prima di poter essere goduto appieno (come forse il resto della loro discografia), ma che in maniera altrettanto certa farà poi ancora una volta breccia negli amanti della musica più estrema e paradossalmente ricercata.”

Come anticipato è tuttavia impossibile congedarsi non menzionando e consigliando almeno al volo, in estrema chiusura, qualcosa come le nerezze asfissianti dei madrigali in “A Grey Chill And A Whisper” dei tedeschi Beltez, distintisi con il loro debutto pratico per Avantgarde Music ad inizio novembre, già seguito spirituale del grandioso “Exiled, Punished… Rejected” nonché album della settimana di un mese fa di cui abbiamo parlato lungamente quanto merita qui, e il cui apprezzamento del resto non è solo di chi firma l’articolo che state leggendo sebbene non condiviso quanto l’effettivo disco del mese o i tre runner-up; uno o due gradini più in basso avremmo poi trovato con facilità anche “Gods Have No Name” dei russi Eoront (uscito in versione per ora limitata via Drevo Music -affrettatevi, nel caso!- e caldamente suggerito a chi stravede per i viaggi in musica e le sonorità più pagane ed atmosferiche nello spettro rituale est-europeo di questo genere) o l’innevato debutto omonimo dei finlandesi Ymir uscito tramite Werewolf Records per qualche gelido sganassone celato nell’eclisse del lato notturno. Ma la lista potrebbe andare tranquillamente avanti con altri due o tre titoli che farebbero la felicità di più d’un ascoltatore.
Insomma: novembre avrebbe chiuso l’anno sulla nota forse più alta immaginabile, non fosse che toccherà attendere dicembre…

 

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Pagan Storm News: 11/12 - 17/12 Successivo Abigor - "Totschläger - A Saintslayer's Songbook" (2020)