Marzo 2018 – Primordial

 

Siamo in ritardo, lo sappiamo. Vi è mancato il recap mensile di marzo in questi primi giorni di aprile in cui ancora non era online? Avete fatto i bravi nel frattempo? Speriamo di sì. A nostra discolpa possiamo dire che il mese è stato così intenso, così ricco e così soddisfacente, ma anche così incredibilmente pieno di uscite tutte concentrate sul suo finire, che ci ha costretti (complici le vacanze) a rimandare di una settimana più qualche giorno il tutto per poterlo fare al meglio. E lo sanno tutti che le cose si fanno bene o non si fanno. Ma ci facciamo perdonare subito perché, oltre a presentarvi quella che è probabilmente la migliore selezione di sempre da quando proponiamo la rubrica sui dischi del mese, questa volta al posto dei soliti tre runners-up ne abbiamo aggiunto un quarto. In sostanza oggi di dischi ne trovate cinque al posto dei quattro cui siete sempre stati abituati in questo appuntamento. Caso fortunato, peraltro, dato che dopo le consultazioni interne estrarne solo uno più tre dalle nostre nomination sarebbe stato compito decisamente impossibile nonché abbastanza insensato.
Come ormai di rito il vincitore può apparire quasi scontato, e forse per molti estimatori della band irlandese lo è, ma in realtà neanche troppo in questo caso dato che la qualità di tutti i dischi nominati oggi (non uno escluso o da considerarsi minore) è talmente alta che se l’è quasi vista brutta, pur riuscendo alla fine a strapparsi la sua risicata ma meritata preferenza generale. Stiamo parlando dei Primordial e del loro monumentale “Exile Amongst The Ruins”, nono album della band guidata da Alan Averill uscito ufficialmente il 30 per Metal Blade Records. La totalità di noi non può stressarvi abbastanza su quanto siano belli i dischi di cui andiamo a parlarvi oggi, quindi bando ad altri preamboli e proseguite la lettura per conoscerli tutti…

 

 

“La figura di un re in una repubblica che si rispetti non può esistere. Ma l’eroe di ieri è l’usurpatore del domani. Se ad ogni costo ne volessimo quindi trovare una in quella d’Irlanda, questa sarebbe la silhouette imponente dei Primordial. “Exile Amongst The Ruins” ce li restituisce con estrema rabbia, abbandonata per l’ultima volta la più tipica rassegnazione fisiologica della loro musica per scendere in campo nonostante tutto, voce fuori dal coro dei tempi amari che viviamo, e regalare un disco di difficoltà d’assimilazione tanto alta quanto bello si mostra non appena fatto proprio l’amalgama di storytelling e musica straziantemente sincera. Perché ogni uomo sarà anche un bugiardo, e io non faccio certo differenza, ma non nel momento in cui vi dico che cambiando la veste non puoi mutare il risultato: unicità e vittoria su ogni fronte.”

(Leggi di più nelle tre colonne dedicate a brani del disco, qui.)

Chi si avvicinerà a “Exile Amongst The Ruins” sperando in un’epica e sanguinosa odissea rimarrà forse un po’ deluso. Non sono emozioni a basso prezzo quelle proposte nei 65 minuti di disco, bensì frutto di un doloroso percorso personale, che si stia parlando del processo di scrittura della formazione irlandese o del semplice ascoltatore che si appropria dell’ennesimo sofferto capolavoro della band, meravigliato e sopraffatto da sentimenti contrastanti, simili a quelli provati quando si leva una spessa patina di polvere da vecchie fotografie di famiglia.
La speranza non è mai stata di casa, ma l’amarezza e la malinconia insite nello scorrere degli anni impregnano le partiture di un disco sempre più solcato da venature Heavy, che da artisti ormai maturi da decenni riescono a gestire con insuperabile eleganza compositiva, tuttavia rifuggendo le rapaci dita del tempo e suonando ben lontani dal poter essere definiti stantii o sterilmente nostalgici.
Aggiriamoci dunque come spettri fra i calcinacci di una città sconosciuta, smarriti ma rassicurati da questa nuova desolazione interiore, capaci di godere di piccoli piaceri (o catartiche sofferenze?) come può essere solo l’ascolto di un nuovo album dei Primordial.”
 

“Con una lunga carriera alle spalle, costellata di album magnifici, questi irlandesi hanno ancora la capacità di sorprendere il pubblico. Perché con questo nono album intitolato “Exile Amongst The Ruins” dimostrano di voler andare oltre i dettami e le basi del loro genere musicale mantenendo però sempre quel filo conduttore con il passato, ben in mostra nei riff di chitarra, sempre ispirati, talvolta nuovi, ma pur sempre Primordial al 100%. Per non parlare del perenne tono epico-tragico che si riscontra nell’atmosfera generale del disco (anche se la scelta in questo caso è di ridurre parecchio l’epicità più immediata), coronata dall’inconfondibile voce del leader A.A. Nemtheanga, che qui regala il meglio del suo repertorio, specialmente nella title-track. Interessanti anche le influenze Post-Punk in un pezzo come “To Hell Or The Hangman”, probabilmente uno dei più belli del disco. Gli irlandesi hanno sfornato un lavoro non propriamente immediato, ci vorranno parecchi ascolti per giudicarlo appieno, ma superato questo scoglio non potrà che essere apprezzato.”

“Se “Where Greater Men Have Fallen”, con il suo grandeur pessimista, metteva in musica la sconfitta dell’uomo contro l’ineluttabilità della sua condizione, questo nuovo “Exile Amongst The Ruins” pare descriverne la definitiva presa di coscienza. Mai gli irlandesi erano suonati così cupi, innestando nel loro ormai tipico sound persino elementi Post-Punk ed elevando all’ennesima potenza le componenti Goth e Doom. Ma davanti ad un disco simile, probabilmente il più intimista della discografia della band, sarebbe inutile snocciolare generi e definizioni, per cui il consiglio è semplicemente di dargli più ascolti per apprezzarlo al meglio, data la sua non immediatezza.”

Il pathos che i Primordial sanno infondere in ogni loro lavoro, in ogni parola e singola nota dovrebbe essere già noto alla maggior parte dei lettori qui presenti. Il modo in cui la tragica, a volte gloriosa ma mai esultante, poetica viene trasportata in musica dal quintetto però non manca mai di stupire o regalare nuove sfumature emotive, nuove prospettive sulla condizione stessa dell’uomo, del popolo e della “storia” nel suo senso più ampio. Difficile – nonché inutile – cercare di dilungarsi sul perché non dovreste perdervi “Exile Amongst The Ruins”.”

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Il terzo album dei tedeschi Ascension, un delitto non sia stato nominato vero e proprio disco del mese. Un delitto di cui ci assumiamo la totale responsabilità nostro malgrado, ma del resto se un lavoro di questa caratura non riesce a guadagnarsi la palma (anche se per un soffio) in un’occasione simile è solo merito di un mese a dir poco stellare. Vi basti sapere che il nuovo album degli esoterici mitteleuropei, uscito anch’esso il 30 marzo ma per World Terror Committee, in qualunque altro mese e senza esagerare sarebbe stato vincitore assoluto. Un po’ come capitò agli Arkona a gennaio. Non ci credete? Ascoltatelo e leggete il perché.

“Quello degli Ascension è tra il Black Metal attualmente più affascinante e versatile che possiate trovare, e questo vale ovunque voi cerchiate. Non da oggi, i primi due capitoli parlavano già ben chiaro in tal senso, ma “Under Ether” non solo lo conferma, bensì apre ulteriormente la mappa di sentori tra cui la musica dei tedeschi si aggira e sviluppa. La profondità che cerca e raggiunge la proposta degli Ascension è sempre più ampia – si stia parlando di una trovata violenza dei rari momenti più melmosamente Death Metal, che avvolgono in vortici neri di disprezzo ed esoterismo una composizione di strabiliante valore per caratura di songwriting, o dell’indistinguibile approccio metrico. “Under Ether” propone del Black Metal unico, intelligente, affascinante dal primo attento ascolto ma pienamente comprensibile solo quando le strutture delle canzoni iniziano a sedimentare e trovare il loro spazio nella mente dell’ascoltatore. Per farle paura. Per non uscirne più.”

(Ascolta “Dreaming In Death” e “Stars To Dust”, e leggi di più nelle due colonne ad esse dedicate, qui.)

Gli occhi sbarrati e neri che si stagliano sulla copertina di “Under Ether” sono le porte di ingresso per una dimensione labirintica di cui solo i tedeschi Ascension possono rivelarci il corretto percorso alchemico, ottimo preambolo visivo, magistrale reinterpretazione ad opera di David Glomba della morente medusa del Caravaggio, simbolo della massima consapevolezza della morte, istantanea del terrore e portavoce dell’agonia dell’umanità intera. La fumosa oscurità di “The Dead Of The World” lascia spazio a efferate fiammate sotterranee: la coltre densa degli stratificati layer chitarristici, per l’appunto protagonista dei due precedenti capitoli della band, tende a dipanarsi in questa uscita per rivelare un approccio più ferino, violento e primitivo, in cui il riffing netto e corposo rincorre le suadenti lead, capaci di intessere sinistre melodie. Forti di una cosciente reinterpretazione del proprio sound e di una produzione analogica superlativa, la band dà alle stampe un disco dal valore assoluto, in grado di svelare il suo recondito splendore dopo diversi e attenti ascolti.”

A distanza di quattro anni al precedente album, con questo terzo e nuovo full-length i tedeschi si riconfermano come una delle migliori realtà Black Metal in circolazione grazie al loro suono oscuro e soffocante, ma stavolta aperto a nuove contaminazioni, alle volte Death e altre volte Thrash, che donano maggiore varietà al tutto rendendo anche questo lavoro assolutamente degno di nota.”

Pur rimanendo nel loro alone di cripticità e mistero, modus operandi ormai largamente apprezzato tra gli esponenti della scena Black più Occult, i tedeschi Ascension non possono che saltare all’orecchio dei seguaci più esigenti della nera fiamma. Con due lavori impeccabili che già da soli sono riusciti a forgiare un sound personale e facilmente riconducibile, le aspettative per il nuovo “Under Ether” non potevano che essere altissime. Lascio a voi il giudizio di valore, ma sono sicuro che il vorticoso connubio di sonorità Metal (che sia Black, Doom, ma anche Thrash a tratti, purché realmente estremo in intenti), unite dalla volontà di creare un’atmosfera più oscura possibile, non potrà non lasciarvi scossi.”

 

Un altro tipo di esoterismo, quello dei finlandesi Alghazanth con il loro album finale “Eight Coffin Nails”. Se ci avessero detto un anno fa che avrebbe persino meritato la vittoria in un articolo sui migliori dischi del mese (e con una tale concorrenza) non ci avremmo creduto. E vi assicuriamo che in un altro mese l’avrebbe davvero meritata. Ma battute a parte non è nemmeno solo merito di Sorvali, l’album è davvero bello in ogni suo minimo aspetto e i nostri hanno nella pratica optato per un funerale classe A, di quelli di lusso ma comunque blindati, costosi e un po’ esclusivi, rilasciato l’ultimo giorno del mese per la partner Woodcut Records. Semplicemente chapeau.

“I finlandesi hanno sempre qualcosa in più da offrire nella loro musica, ce lo siamo detti tante volte su queste pagine. E anche chi fino ad ora, come il sottoscritto, questo qualcosa non lo aveva tuttavia mai trovato negli Alghazanth in particolare, in quanto autori di dischi fin troppo dimenticabili, non tarderà ad amare invece “Eight Coffin Nails” che, letteralmente graziato dalla partecipazione di Henri Sorvali alle tastiere (Moonsorrow, Finntroll), ci propone il Black Metal occulto e melodico dal piglio sinfonico degli Alghazanth alle sue estreme e più ispirate conseguenze, finalmente emozionante nella sua interezza come non lo era mai stato. Un vero botto per uscire di scena con lo splendore del proprio punto più alto.”

(Leggi di più nelle tre colonne dedicate a brani del disco, qui.)

Il canto degl cigno degli Alghazanth, band che all’ultimo e ottavo disco confeziona il lavoro migliore della propria carriera grazie soprattutto alla presenza di Henri Sorvali, capace di dare struttura e raffinatezza alle nove tracce che vanno a formare questo “Eight Coffin Nails”. Un disco assolutamente consigliato che non perde colpi ascolto dopo ascolto, al contrario continua a migliorare evidenziando ogni sua più piccola sfaccettatura.”

Non è per un cambio di genere, né per un approccio particolarmente rivoluzionario o inaspettato che gli Alghazanth si trovano nella mia personale classifica di marzo: infatti, al netto di coordinate stilistiche pressoché immutate, la qualità della release è impressionantemente alta e le tracce che la compongono sono tutte dei piccoli gioielli di tragicità e fierezza. Le tastiere, vero valore aggiunto dell’album, salgono in cattedra amministrando la forma canzone e costruendo epiche atmosfere su cui si adagiano violente cascate di riff. Ennesima consacrazione del savoir-faire naturale di Henri Sorvali, capace di stupire anche in un contesto a lui in parte avulso e in grado di far sbocciare interamente per una prima (e ultima) volta il talento degli Alghazanth. Un compendio di classe finnica.”

“Se bisogna chiudere un percorso, bisogna farlo in grande stile. Devono aver pensato così i finlandesi per l’ottavo ed ultimo full-length della loro carriera, perché questo “Eight Coffin Nails” è il perfetto esempio di come dovrebbe essere un canto del cigno: memorabile. Ancora una volta non c’è nulla di innovativo, ma l’atmosfera che si respira all’interno del disco è fantastica: rabbiosa, maestosa e malinconica, elementi che rendono la matrice sinfonica del loro Black Metal molto godibile, dettata, peraltro, da un ospite eccezionale come Henri Sorvali, che grazie al suo contributo alle tastiere dona quel giusto piglio solenne-tragico all’interno delle canzoni (riconfermandosi tra le altre cose un re Mida nelle partecipazioni esterne). Uno splendido addio.”

 

Anche gli svizzeri Ungfell, che nel giro di un solo anno battono un record facendo la loro seconda esibizione sul tappeto rosso di un nostro articolo riguardante il meglio di un mese. E avendo convinto l’interezza di noi con il nuovo e secondo full-length intitolato “Mythen, Mären, Pestilenz” (uscito il 23 per l’ottima Eisenwald), oltre ad essere anche stato coincidentemente nominato disco della settimana questo martedì,  non poteva davvero essere altrimenti.

“Erano attesi e anticipati, e non hanno deluso. La creatura di Menetekel torna a distanza di un solo anno con una nuova convincente prova che supera i limiti del buon debutto per costruire un mondo decisamente più personale e caratteristico. Roghi nella notte, magia nera, caccia stregata e misticismo alpino sotto un cielo oscurato da nubi cariche di neve imminente come l’aggressione frontale che troverete in “Mythen, Mären, Pestilenz” e nel suo Black Metal folcloristicamente arcaico, rurale, medievale, ma non per questo mancante di raffinatezza.”

(Leggi di più nella recensione che lo elegge album della settimana, qui.)

Per quanto già l’acerbo “Tôtbringære” facesse presagire un futuro roseo per i menestrelli elvetici, nessuno avrebbe sperato in una crescita così repentina: il riffing concitato trova una dimensione quanto mai prima d’ora personale, e nonostante lo spirito dei Peste Noire ancora faccia capolino di quando in quando fra i merletti della fortezza d’oltralpe, i nostri sono ad oggi gli unici esponenti di un certo tipo di sonorità e stile, portati avanti in modo ben curato, trascinante ed accattivante. Il prezzo da pagare per godere di un disco degli Ungfell a meno di un anno di distanza è una perfezionabile costruzione del disco, con un sali scendi sonoro che rischia di rendere disomogeneo il platter, che tuttavia si conclude con un’ispiratissima doppietta, biglietto di arrivederci per nuove cavalcate sempre meglio ammantate di oscura e arcana magia.”

L’album sophomore degli Ungfell è grezzo e immediato come ce lo si aspettava. Il riffing della band svizzera è di pregiata qualità e nel corso dell’album dimostrano di aver raggiunto un discreto livello di personalità stilistica, restando comunque legati a quell’anima medievale associabile ai Peste Noire. Come esempio, il brano “Die Heidenburg” è riassunto perfetto dell’intero environment ungfelliano.”

Medioevo e Black Metal, un connubio che funziona (quasi) sempre. Nel caso degli svizzeri Ungfell funziona alla grande, e permette loro di riconfermare con questo “Mythen, Mären, Pestilenz” tutte le carte in tavola: Black Metal furioso e pazzo, dove non manca una certa linea melodica sgraziata, sostenuta da una batteria forsennata sulla cui ugola indemoniata di Menetekel accompagna l’ascoltatore in questo guazzabuglio infernale.  Ma, in questo caotico delirio, non mancano degli intermezzi acustici dal sapore mistico e folkloristico, che hanno il pregio di riportare il tutto ad un livello di calma prima del ritorno di un altro caotico assalto medievale.”

“Il secondo album del progetto elvetico presenta un songwriting ispirato e convincente, che mantiene la cifra stilistica medievale di “Tôtbringære” alternando sfuriate Black tout-court a passaggi (talvolta intere intro, forse un po’ troppe nel corso dell’opera) di natura folcloristica. Questa varietà di soluzioni ovviamente non intacca per nulla l’atmosfera arcana ed ancestrale che il lavoro sprigiona, ma anzi conferisce molteplici volti alla rappresentazione del Male con cui Meneketel intende tormentare l’ascoltatore.”

Secondo appuntamento, in poco più di un anno, con la personale visione di Menetekel degli aspetti più lugubri, maligni e volutamente soffocati dell’essere umano. L’opera degli Ungfell non è una semplice narrazione veristica ma qualcosa che cattura nelle sue sonorità le stesse sensazioni di inquietudine e sospetto che sono insite in noi primitivamente, la cui anima folkloristica non è rilegata ad un contesto limitato od orpello ma può toccare (e colpire) chiunque.”

 

Infine, ultimi contendenti ad entrare nell’articolo per nomination ricevute ma certamente non per importanza, i nostrani Deadly Carnage che superano loro stessi a parere dell’unanimità di coloro che sono stati convinti all’interno dello staff grazie al nuovo concept album “Through The Void, Above The Suns”, lavoro raffinato e coraggioso che li vede strappare il traguardo del quarto full-length, sempre a fine mese, questa volta per A Sad Sadness Song (sub-label tematica di Aeternitas Tenebrarum) .

“Con “Through The Void, Above The Suns” i Deadly Carnage realizzano il loro disco più completo e maturo, superando ogni piccolo difetto che penalizzava l’ottimo lavoro delle precedenti uscite, ripartendo dal già audace “Manthe” per creare un flow continuo di brani collegati indissolubilmente tra loro in un ancor più ricco unicum universale di tre quarti d’ora di suadente emotività. Il cosmo interiore ed esteriore del talentuoso quartetto è più variegato che mai, ma soprattutto il loro stile (per quanto da sempre personale) ora non trova più paragoni di sorta (fatta eccezione per l’episodio singolare è un po’ spiazzante di una ben meno fortunata “Divide”). Il Black Metal moderno ed intriso di Doom e sperimentazione dei Deadly Carnage crea in questa occasione un vero viaggio di pura astrazione, ricco di novità e freschezza.”

(Ascolta “Ifene” e leggi di più nella colonna ad essa dedicata, qui.)

Finalmente i Deadly Carnage riescono a raccogliere i frutti seminati con “Sentiero II – Ceneri”, disco in cui erano presenti delle evidenti mire sperimentali che non sono riuscite a sbocciare nell’ultimo “Manthe”. “Through The Void, Above The Suns” è in assoluto l’album migliore della band riminese, un’opera nella quale i Nostri riescono a trovare la giusta conciliazione tra personalità e influenze (soprattutto Alcest, Klimt 1918, Novembre). Bravi.”

La recente esperienza maturata con l’uscita dell’ultimo EP, apparentemente trascurabile se confrontato con il valore della discografia della formazione nostrana, è stata rielaborata e incorporata alla già variegata tavolozza di generi dei Deadly Carnage, in grado di congiungere l’animo più ruvido e claustrofobico ad ariose e luminose aperture dal gusto Shoegaze. Queste nuove peculiarità, rese anche possibili dal curato e moderno chitarrismo e dall’ottima prova vocale del neo-entrato (in quanto cantante) Alexios, hanno permesso ai nostri di confezionare nove tracce elegantemente connesse fra loro, superandosi e confermandosi fra le realtà più interessanti e personali del nostro Paese.”

“Ammetto di essere rimasto fermo coi Deadly Carnage ai tempi del primo album “Decadenza”, di non aver mai apprezzato appieno i successivi album (ben suonati ma dove non riuscivano a trasmettermi niente), devo tuttavia rivedere le mie posizioni per quanto riguarda questo “Through The Void, Above The Suns”, il quarto della loro carriera, che può benissimo essere considerato quello della maturazione totale per la band di Rimini, in cui tutti gli elementi che caratterizzavano i precedenti album si fondono perfettamente nelle nove tracce che lo compongono, rendendo il tutto un lavoro splendidamente etereo ed atmosferico, con un originale concept lirico sul cosmo. “Ifene” probabilmente miglior traccia del disco. Ottima riscoperta.”

 

Ci auguriamo il piccolo ritardo sia stato perdonato ora. Chiaramente anche qualche altro bel disco ha visto la sua pubblicazione a marzo ma non ha potuto trovare il suo spazio in questa sede, però come sempre se esiste potete ravvisarlo qui. Comunque, in caso per voi manchi davvero qualcosa in modo troppo scandaloso potete farcelo sapere nella maniera che più vi aggrada, magari scoprirete pure che ci è comunque piaciuto. O piaciucchiato? O forse no. Probabilmente per niente. Ma una selezione simile, per tutti i gusti, speriamo vi possa in ogni caso tenere compagnia con questi grandi dischi per tanto tempo quanto ne terrà a noi, nonostante aprile sia già pronto e in corso d’opera a sferrare altri attacchi in grande stile.
Il prossimo appuntamento di questo tipo è quindi come al solito a inizio maggio e, promesso, questa volta non ci saranno ritardi. Torneremo ad essere puntuali come sempre e non ci saranno scuse. Intanto, godetevi questi.

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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