Marduk – “Viktoria” (2018)

Artist: Marduk
Title: Viktoria
Label: Century Media Records
Year: 2018
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Werwolf”
2. “June 44”
3. “Equestrian Bloodlust”
4. “Tiger I”
5. “Narva”
6. “The Last Fallen”
7. “Viktoria”
8. “The Devil’s Song”
9. “Silent Night”

“Viktoria” sembra parossisticamente semplice, scarno ed essenziale, ma la verità è che non lo è.
E se aprire una recensione in modo simile può apparire quasi una provocazione, chi scrive si augura che ciò che segue lo possa forse sembrare un po’ meno.
Con ordine: gli svedesi Marduk, un nome attorno alla cui disposizione di caratteri -siano grafici o fonetici- rifulge ben distinto da anni l’alone di chi lo status di leggenda di un genere ha saputo prenderselo senza fare troppi complimenti, hanno rilasciato una nuova offerta in forma di full-length ed intitolata “Viktoria”.
Nome bellico, copertina anche, ma la musica segue come da copione per meno di metà.

Il logo della band

Lo spinato filo rosso di trincea a collegamento mentale è evidente, le presentazioni e spiegazioni in tal senso forse inutili; chiunque conosce -non necessariamente apprezzandolo in maniera univoca- il celebre “Panzer Division Marduk” del 1999, la cui fama è stata forse rinverdita e riportata alla memoria dal penultimo disco del quartetto, “Frontschwein” (2015), dopo la gloriosa virata occulta della band che dall’ingresso di Mortuus li aveva portati ad evolvere il loro linguaggio in direzioni, seppur sempre coerenti, anche diametralmente distanti dal guerrafondaio inno di distruzione senza precedenti che ancora oggi dimostra essere l’ultimo disco calato negli anni ’90 dalla formazione svedese.
“Frontschwein” ne riprendeva senz’altro alcuni aspetti prettamente lirico-estetici senza però esserne un mero successore in linea diretta. Un approccio decisamente più maturo e variegato era la prassi d’attendere, e così fu, mentre “Viktoria” -pur proseguendo la tradizione bellica dei due esempi citati- ci porta in soundscape a tratti anche completamente diversi.

La band

Che si parli di un’opener dal retrogusto Punk (e dal notevole gancio stilistico al lavoro parallelo Death Wolf di Morgan) come “Werwolf” o della lentezza della conclusiva “Silent Night”, per estremi, il risultato non varia: i Marduk in “Viktoria” hanno provato come al solito ad offrire qualcosa in più, a partire dalla produzione di coraggio contro-tendente al mercato (che scoraggerà più di un ascoltatore), proseguendo con una ferrea selezione d’idee che comportano il quasi sorprendente timing complessivo di mezz’ora e poco più di disco, chiudendo (in pre-analisi volutamente sommaria) con qualche esperimento che, se probabilmente non nuovo in campo estremo, o anche solo Black Metal, sicuramente risulta inedito per la proposta-marchio della band di Norrköping (la più evidente ed immediata vuole per sua sfacciata ammissione essere l’inserimento, coerente con il comparto lirico ed intellettuale del brano, di tre voci bianche disarmoniche nel contro-coro dell’opener).
Ma “Viktoria” non è solo bizzarrìe stilistiche e testardaggine, e il trade-mark del combo è marchiato a fuoco nel disco non unicamente per la belligeranza del suo concept. Le scudisciate non si fanno attendere per nulla e partono proprio dalla risolutiva “June 44” che attacca con una frustata sul crash non appena conclusi i due minuti di “Werwolf” e fa della varietà ritmica colonna portante per fornire appoggio alla caustica ugola del fuoriclasse Rostén: perfido, integerrimo, esultante – lanciato in continui declamati di retaggio lirico e drammatico germanico (quasi autonomo anche per perfetta commistione di aggressione ed armonie in stesura) modulato in atteggiamenti e movenze quasi aliene per modi al panorama del cantato estremo.
Tra blast-beat come schegge impazzite, che si incastonano in un contesto di metriche e ritmiche molto più studiate e complesse di quanto non possa sembrare ad un distratto e superficiale ascolto, continuano a mietere il campo di carne rossa sanguinante anche le rasoiate di “Equestrian Bloodlust”, della title-track (di cui non può rimanere non citato il fantastico break dal sapore e costruzione valzer, danza della morte che da medievale si tinge di polveroso, belligerante e moderno su riff disarmonico) e di “The Last Fallen”; quest’ultima uno degli esempi della squillante fanfara di accordi che sono le cavalcate del chitarrismo di Morgan, ormai sempre impregnato di musica classica (non solo per l’utilizzo wagneriano delle architetture vertiginose sorrette dai contrasti di accordi poderosi e marziali) e di piani contrappuntistici con il batterismo mutevole di Widigs, grandioso in questa occasione a scivolare costantemente tra i sottili accenti dei blast per conferire apprensione ascendente al pezzo senza ricorrere ad una semplice progressione in termini di velocità. Aperture grandiose possono così distendersi in guisa d’imitazione dei compositori classici e rievocare, non sorprendentemente, espressioni e visioni di nobiltà cavalleresca – anche in contesti guerrieri di secoli e modi totalmente posteriori.
La marcia è ostinata ma anche melodica: “Tiger I” (con esplosione finale) e l’incubo fumoso di “Silent Night”, con tanto di ritiro conclusivo delle truppe a questo giro, flirtano col Doom settant-ottantiano in compattezza massiccia anche quando varianti su partiture ultralente; mentre la milizia d’assalto Marduk non rinuncia ad attacchi fulminei, in dosi di vibrante strapotenza come nero stendardo, nelle quasi entusiaste declinazioni Epic della riuscitissima “Narva” o di “The Devil’s Song”.

Riprendendo in chiusura l’accenno all’interessante lavoro alle manopole dello stesso bassista Devo, autore della produzione anche in “Viktoria”, mastro sarto del disco a cucirvi una calda coperta analogica in grado di valorizzare al meglio le sue sfumature (ma non di garantire una solida e ruffiana presa immediata se ascoltato distrattamente, per via della quasi assente livellazione che nel caso obbliga -molto banalmente- all’aumento manuale del volume), non si può non considerare l’ultima marcia funerea della corporazione denominata Marduk come l’ennesima vittoriosa anche sotto l’aspetto di un curato ed interessante taglio in fatto lirico.
Breve, dritto al punto ma decisamente carico di significato, non rinunciante alla varietà che aveva reso il precedente “Frontschwein” riuscito – ma invero poi leggermente appesantito, complice proprio l’eccessiva lunghezza complessiva e un paio di momenti filler o di eccessiva ripetizione. “Viktoria”, presumibile chiusura della tetralogia bellica della band (precisa nella sua accezione teatrale più antica se vi si considera legittimamente sommato a pendice “Iron Dawn”), ne è privo, oltre a presentare in soli trenta minuti più varietà stilistica, di riffing e/o compositiva, rispetto a molte altre apprezzatissime opere di casa Marduk. Ormai, da quasi trent’anni, autori d’inossidabilità in musica.

Matteo “Theo” Damiani

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