Maggio 2020 – Árstíðir Lífsins

 

La constatazione sorge quasi spontanea: da ormai (almeno) quattro anni a questa parte, non vi è stato nemmeno un mese di maggio -non uno solo, non uno soltanto- che non abbia offerto nei suoi trentuno giorni di musica un rapporto sbalorditivo nel bilancio tra qualità e quantità nei generi che scaldagliamo su queste pagine: si voglia tra gli altri parlare di Nokturnal Mortum, Progenie Terrestre Pura e White Ward nel 2017, degli Urfaust e dei Cosmic Church nel 2018, o del poker Deathspell Omega, Kampfar, Sühnopfer e Misþyrming del 2019 (a distanza di un anno ancora così irripetibilmente incredibile da essere stordente), il quinto mese di ogni annata sembra per destino, per scherzo, pura coincidenza (quantomeno, di nomi tra i preferiti personali ad ammassarsi sempre verso la metà dei 365 giorni) o chissà quale altra diavoleria, quello che più di ogni altro regala in media e in grande quantità emozioni delle più sopraffine, delle più longeve e delle più memorabili ai soggetti che scrivono su queste pagine.
Considerato il preambolo è quindi forse già intuibile, se non chiaro o persino ovvio, che per coloro che hanno battuto gli svariati caratteri bianchi su fondo nero pece che trovate nell’articolo riassuntivo a seguire, l’anno 2020 non abbia fatto alcuna differenza in tal senso rispetto ai precedenti, partorendo almeno tre dischi che avrebbero meritato quasi al pari tra loro di essere l’effettivo album del mese. Procediamo dunque con malcelato entusiasmo e senza ulteriori misteri a presentare la tripletta d’assalto che quest’anno va ad aggiungersi al bizzarro ma ormai piacevole paradigma esposto in apertura: sfumature di sensibilità arcana e ben lontana dal mondo che ci circonda, ma foriere di metafore d’enorme importanza ed urgenza per il presente, (ri)troviamo gli Árstíðir Lífsins (primi con “Eigi Fjǫll Né Firðir” -seconda parte della saga in due capitoli iniziata l’anno scorso– solo in quanto assoluti tali per tre quinti della redazione), gli October Falls e i Kły, tutti già approfonditi in quanto dischi della settimana nelle ultime rispettive tre tornate del martedì ma ora descritti e consigliati per i loro motivi anche dal resto dello staff, nonché seguiti da un quarto contendente a nomina singola…

 

 

“[…] considerata, valore aggiunto, l’ambizione riversata nella coppia di album, un’opera bipenne di monumentale ambizione e lontanissima dallo svago ma di riuscita che non ha pari né simili, si può parlare di effettivo futuro termine di paragone; quello di “Eigi Fjǫll Né Firðir” che, ad oggi, è un risultato totalmente introvabile altrove. Mentre le terre sempreverdi diventano quindi nere e la natura assurge a torre d’avorio e crisma di protezione incomprensibile a chi non vi vive in comunione, tra pragmatismo stoico ed eversione culturale insomma, gli Árstíðir Lífsins compongono un’ora e un quarto di musica fuori dal tempo, elegantemente intrisa di studio, letteratura antica, storia e personalità, tutte conglomerate in un’evoluzione fatta di profondità e dettagli che creano arte totale ed eccezionale – la perfezione, con ogni probabilità, questa volta davvero raggiunta.”

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Riprendendo il viaggio tragico ed eroico intrapreso lo scorso anno, gli Árstíðir Lífsins dimostrano con la loro infinita classe come la salda coerenza stilistica che una coppia di uscite legate concettualmente richiede possa essere persino affiancata da affinamento e complementarietà, in un‘evoluzione sostanziale e percepibile fin dal primo ascolto: l’efferatezza monolitica e opprimente di “Vápn Ok Viðr”, i suoi possenti cori, si scontrano con una rabbia nuova e più viscerale, capace di rasoiate sanguigne quanto di progressioni e spiragli più intimi, rituali e soffusi, altrettanto pervasi di sofferenza spirituale ma gravati di struggente e compunta malinconia. Giunti al termine, svuotati definitivamente dai 17 minuti di dolore e fatica dell’ultima traccia, è impossibile non sentirsi travolti e ammirati lanciando uno sguardo indietro al maestoso unicum della “Saga Á Tveim Tungum” e ritrovandoci uno dei più completi, riusciti ed imponenti capolavori di Metal estremo del nuovo millennio.”

“Dopo aver condotto gli ascoltatori nel primo capitolo della loro saga nordica speculare attraverso delle vere e proprie tempeste sonore, il trio teutonico-islandese ritorna con il secondo che, a differenza del primo, inizia nella quiete più assoluta: le delicate e malinconiche melodie di “Ek Býð Þik Velkominn”, affidate alla bellissima e profonda voce di Marsél, sono un perfetto benvenuto a noi ascoltatori, come la più distesa quiete dopo la tempesta di “Vápn Ok Viðr”. Mera illusione, però, perché già fluendo senza nemmeno rendercene conto nella terza traccia il trio preme, a sorpresa, di nuovo sull’acceleratore con le sue classiche rasoiate di Black Metal a tinte Pagan, miscela in cui i protagonisti assoluti sono i riff evocativi e le urla multisfaccettate dei tre cantanti. “Eigi Fjǫll Né Firðir” è insomma un disco che vive nell’alternanaza di fasi violente e fasi riflessive, bilanciato alla perfezione: un risultato che trova nella settima traccia “Er Hin Gullna Stjarna Skýjar Slóðar Rennr Rauð” (non a caso quella di presentazione) il suo immediato apice emblematico in tal senso.”

I finlandesi October Falls, reduci da sette anni di silenzio interrotti dalla roboanza di “A Fall Of An Epoch”, quinto full-length sugli scaffali d’ebano dei negozi di dischi più decadenti e lontani dal mondo moderno grazie alla sempre più interessante Purity Through Fire Records. Si saranno anche fatti attendere, ma il risultato è tra i più graffianti ed apocalittici nell’intero operato; una standing ovation del resto parla chiaro…

“[…] catastrofico ed altrettanto romantico: il ventre della bufera di neve che si fa rifugio caldo, odoroso di resina, lontano da una civiltà ormai prossima al collasso e percepita intrisa di disperazione nella sua pluralità; la forza, semplice e splendida, della solitudine e dell’unità ritrovata; ma sotto allo scintillio della coltre bianca, sotto al ghiaccio che su un lago immobilizza i ricordi ed anestetizza le emozioni rimandandone con speranza il confronto alla forza della primavera, sotto allo spumare impetuoso delle onde in tempesta sferzate dalle raffiche più fredde, in primo ed immancabile luogo, “A Fall Of An Epoch” è con maestosa classe l’ossimoro: il ribollire del sanguinante cuore del nord.”

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“Eleganti e frenetiche linee vitali, che sembrano generarsi, stratificarsi e piegarsi con la stessa naturalezza e dirompenza di un temporale estivo, dando luogo ad un carico emozionale intenso e avvolgente – per certi versi affine per circolarità e concetto all’ultimo capitolo dei Nasheim, ma finlandese nel profondo e frutto di quel sincretismo di Black, Doom e Neofolk che da sempre contraddistingue il progetto di Mikko Lehto. Le linee di chitarra, tanto semplici e ipnotizzanti quanti intrecciate in uno splendido tappeto melodico, si adagiano come ferite sulle ritmiche strabilianti di Tarvonen, in uno scenario che ha del minaccioso minaccioso quanto del sublime: “A Fall Of An Epoch” è un grido straziante, l’inascoltato urlo di dolore del lato più antico, primordiale e fragile della natura.”

Ritornano i nostri cantori di moderna decadenza preferiti, in arte October Falls, con il loro quinto full-length intitolato “A Fall Of An Epoch: i punti cardine dell’album sono bene o male quelli a cui siamo abituati quando ci interfacciamo con questa band; non manca quindi l’accoppiata Black Metal e Neofolk, il tutto come sempre comandato a bacchetta da fulminee melodie chitarristiche. Ma il sound appare più saturo rispetto al passato, permettendo ad ogni elemento di amalgamarsi con successo e generando un’atmosfera dal tocco sì naturalistico, ma comunque intrisa di un’oppressione e un’ansia di fondo che vanno a determinare l’ottima riuscita del disco. Ancora una volta il trio di Helsinki non delude le aspettative riconfermandosi una tra le migliori band in attività per quanto riguarda questa declinazione di musica estrema, consigliata soprattutto se state cercando qualcosa di profondo ma stilisticamente diretto e che va dritto al punto senza perdersi in inutili onanismi.”

“L’estremo dilatarsi dei cinque movimenti, non solo nel timing ma specialmente nella scrittura, non aiuta di certo la fruizione immediata od orecchiabile di un’opera elaborata ad arte quale “A Fall Of An Epoch” è. Gli October Falls si confermano dunque dei compositori lontanissimi dalla pomposità finlandese, ed alla stessa maniera di certi Moonsorrow odierni rappresentano lo spettacolo della natura non come inquieta forza indomabile ma bensì come salda entità statica, i cui mutamenti sono difficili da cogliere proprio come lo sono i cambi di riff e beat nel corso dell’album. Obbligatorio quindi l’ascolto immersivo e ripetuto, in modo da abituare l’orecchio ai pochi elementi ricorrenti e a tracciarne la posizione nel fluviale songwriting, scortati come sempre da un sound da dieci e lode: produce Henri Sorvali, giusto per ricordarlo.”

“Il pregevole progetto finlandese October Falls torna, rinnovato e ritrovato con un suono decisamente più rabbioso e ferale rispetto al precedente apice di malinconia “The Plague Of A Coming Age”: perché in questo nuovo album la rabbia è decisamente regina emotiva quasi incontrastata, da riscontrarsi nel gusto dei ritmi serrati (Marko Tarvonen sinonimo di garanzia alla batteria) e nei riff di chitarra, anche se ovviamente la componente malinconica non è sparita – al contrario, questa rimane sottotraccia in attesa lungo il corso del disco, dapprima grazie ai classici inserti acustici per poi sgorgare prorompente nelle ultime due tracce “Hammering The Tide” e “The Flood Of Drought”, donando all’ascoltatore quel tipico contrasto sonoro ed emozionale che solo la Finlandia sa trasmettere.”

Dalla squisitezza di un’attesa garanzia di ritorno si passa alla grandissima sorpresa che sono invece stati i polacchi Kły, ignota band che con il suo secondo full-length intitolato “Wyrzyny” (fuori da inizio maggio per Pagan Records) ha sbancato sulle pagine virtuali che state leggendo convincendo praticamente l’interezza della redazione e scalando con un energico balzo la vetta delle band più interessanti e strambe presenti nel panorama Black Metal del proprio illustre paese. Tutto dire.

“[…] Sentire può bastare dunque a comprendere? “Wyrzyny”, in un viaggio solitario e polifonico di cinquanta minuti scarsi tra malinconia e trascendenza, sembra dare risposta inconfondibilmente positiva al quesito, nonché preannunciare senza smentite i Kły, senza volto nobilmente alieni in un mondo al collasso, come una delle realtà più interessanti nell’attuale panorama e lemma polacco.”

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“La crepuscolare atmosfera sfumata e le ritmiche dal gusto Post-Punk non sono che le prime componenti a colpire il padiglione auricolare all’ascolto di “Wyrzyny”, ma si rivelano presto semplici strumenti a favore dell’atipico e arioso filo narrativo che, privo di rigida e geometrica struttura, si regge su suggestioni sensoriali ed echi onirici alterati e distorti continuamente come filtrati da una lente asimmetrica. I Kły danno alle stampe un disco ambizioso e ammaliante, sfogando il loro talento tanto libero dagli schemi quanto radicato in quella tendenza tutta polacca dell’assorbire, destrutturare e reinterpretare i canonici tópoi artistici; imparando la lezione dei Furia, cugini per per stile e suggestioni ma diversi in quanto a risultato e gamma emozionale, e quasi evocando in musica i fotogrammi visionari, mistici e sopra le righe del regista connazionale Żuławski.”

Il nuovo disco dei polacchi Kły riporta in auge il lato più schizoide e avanguardista del Black Metal polacco con una qualità che il sottoscritto non sentiva dai tempi di “Nocel” dei Furia. Sei tracce che vanno vissute come un’unica burrascosa onda sonora: difficile infatti trovare momenti morti all’interno di “Wyrzyny”, anzi, spesso si resta completamente sbalorditi dal modo in cui viene scandita la progressione delle tracce. Il sound non è affatto avvolgente, non veniamo cullati dalle note ma viviamo una sorta di distacco con la parte strumentale, più volte messa in contrasto in fase di mixing anche con la componente vocale, la quale viene posta più verso l’ascoltatore in modo da far risaltare ancora meglio i vari dettagli della musica frequentemente guidata dall’eccellente lavoro dei sintetizzatori. Un album che si distacca dall’ordinario lezzo di stantìo – un album che non volete e non dovete lasciarvi sfuggire.”

“Non sono necessari inserti elettronici a capocchia o batterie dai giri volontariamemte ingarbugliati per costruire una proposta che sia definibile “d’avanguardia”, o comunque credibile persino agli occhi dei meno avvezzi a certe sonorità. Al contrario, l’approccio sorprendentemente lineare con cui i polacchi utilizzano le ritmiche da un lato facilita di parecchio i primi ascolti, mentre dall’altro sposta l’attenzione dei più rodati verso il pregevole operato degli altri strumenti. Il gusto con cui vengono intessute le melodie riporta addirittura alla mente gli Enslaved dei primi anni Duemila, debitamente filtrati con mille altre influenze e in special modo con una tendenza alla psichedelia utile a dare all’insieme un tocco di personalità in più; perfetti in tal senso gli stranianti duetti tra la chitarra e la voce, quest’ultima dotata di un notevole polimorfismo ma sempre allucinata e sgraziata in modo tale da creare un portentoso contrasto.”

Ultimi de la crème di oggi per numero di nomine ma consigliatissimi dal nostro Feanor, i Winterfylleth proseguono con “The Reckoning Dawn” a far impazzire i fan del suono epico, mai troppo sopra le righe del Black Metal atmosferico albionico, forse non raggiungendo un “Divination Of Antiquity” ad armi pari ma convincendo anche coloro rimasti delusi dal transitorio ultimo album Metal. Uscito per Candlelight Records, ve lo proponiamo così:

Serviva un album acustico per riportare sulla retta via gli inglesi Winterfylleth. Dopo lo scialbo e breve “The Dark Hereafter”, il ritorno al Black Metal del gruppo è quello in cui si possono finalmente risentire tutte le loro qualità: tempi forsennati sempre ben sostenuti da una pregevole, onnipresente linea melodica di fondo, momenti epici e solenni nella loro austerità, pregevoli inserti acustici di tradizione Ulver (da ricordare la pregevole cover che fu unico passaggio memorabile del precedente full), scream rabbiosi ben alternati dai pochi, ma validi, cori di voce pulita – tutto l’insieme non fa che confermare il rinnovato stato di grazia del gruppo, un’alta qualità che di certo non inventa nulla di nuovo, ma offre un’ottima aggiunta nel loro cammino. Vuoi che sia per l’ingresso in formazione del nuovo chitarrista Dan Capp (leader del progetto Neofolk Wolcensmen dall’analoga sensibilità), sicuramente incisivo sul processo creativo del gruppo, o per necessità dopo il break acustico del 2018, quel che si ottiene è l’album più epico della loro discografia; l’accoppiata “Absolved In Fire”“The Reckoning Dawn” vale del resto anche da sola il prezzo del biglietto per addentrarsi ancora una volta nelle antiche leggende della perfida Albione.”

Anche questo mese il menù in quattro portate per trasportarvi tra le più gustose, variopinte atmosfere e suggestioni (particolarmente) pagane in musica nera è stato stilato, le squisite pietanze cucinate e servite sugli scaffali: gustatevele finché sono ancora calde ma non abbiate troppa fretta di digerirle, perché mangiare velocemente e senza assaporare provoca indigestioni e perché siamo certi lo farete altrettanto una volta che queste si saranno ambientate durante il calore dell’estate che attende alle porte. Parliamo di ricette che non si raffreddano né perdono di sapore, potete giurarci.
E se il ritardo accumulato nel metterle insieme e pubblicare finalmente l’articolo riassuntivo di ciò che è stato il mese scorso è innegabile, ci permette di congedarci quantomeno promettendo che, questa volta, l’attesa per il prossimo che coprirà giugno sarà per forza di cose minore. Fino ad allora

 

Matteo “Theo” Damiani

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