Febbraio 2021 – The Ruins Of Beverast

 

Il mistero, l’inenarrato, il sublime: la scoperta dell’ignoto in febbraio si tinge di un verde antico, dal traslucido dello smeraldo preziosamente lavorato alla cupezza torbida dell’onirico, in un mantello di sensazioni dai quanto mai comuni tratti Doom squisitamente virati al nero e al folklore in musica, tra ruggine ottobrina incrostata nei toni bassi e caldi di voci baritonali, e nella malinconia di una contemplazione solitaria tra luci ed ombre del bosco dell’anima, nel muschio che respira sulla pietra un tempo candida di rovine immemori. Ma proprio per questo il secondo del 2021 è stato anche un mese di audacia artistica a tutto tondo, nella ricerca musicale e non, nella profondità d’intenti che trasmette sia ogni secondo dei premiati The Ruins Of Beverast, fregianti titolo e copertina della kermesse, che dei praticamente vincitori a parimerito Empyrium; entrambi tedeschi, entrambi verdi in ogni senso grafico, metafisico, concettuale e musicale vogliate trovare possibile, entrambi così spettacolarmente diversi eppure graziati da una sensibilità tanto fine quanto condivisa e differente al contempo.
I terzi in lista continuano poi in più di un senso ad espandere ed esplorare in maniere differenti proprio alcune sfumature di viride dei tratti ultrallentati, etnici ed arcani comuni sia al romanticismo silvano di “Über Den Sternen” che agli aspri sincretismi di “The Thule Grimoires” (quest’ultimo, con cui partiamo procedendo nella lettura, fuori come sempre per Ván Records), mentre l’eccezione che conferma ogni regola la troviamo oggi nel grigiore sibilante diavolerie che chiude col botto la selezione dei preferiti dell’ultimo mese in stereo dello staff.
Ma si comincia con l’operato del novello omone verde Alexander Von Meilenwald, riassuntivo il bisogno di conflitti interni all’arte come ragione vitale; quello di lottare con ogni forza presente in corpo e spirito per liberarsi dall’incombere inevitabile della gabbia di terreno duro che attende silenziosa. Le nebbie serali strisciano e strisciano sotto come sopra le stelle, dall’empireo inzuppano di rugiada il mondo annegandolo sul finire del mattino baciato dall’ascesa di Sol, ma la dolcezza della primavera è ancora lontana: siate dunque più che pronti ad andare inesorabilmente lenti, in abissale profondità, con la forza della condanna e senza l’indugio del miscredente.

 

 

Un sole di mezzogiorno rifrange tonalità caustiche sulla tundra, che continua imperterrita a brillare di luce riflessa al di sopra di catacombe gelide e spaventose, al di sotto di un lago immobile. L’alito di neve dischiude le porte impolverate del santuario mentale e sporca d’inverno i sentieri ghiacciati, protesi verso l’ignoto e la psicosi mentre le labbra del protagonista si tingono di viola. Ma la vita non sta volgendo al suo termine in un tripudio di freddo, bensì proprio nella cripticità dei grimori del mistero di un’ultima Thule ritrovata cerca un nuovo, caldo ed emozionante punto di partenza in cui coniugare l’illustre passato, il seducente presente già desueto ed un futuro prossimo già attuale: forti reminiscenze ed estemporanee esplosioni di estremismo “Virus West” inaspriscono così il carattere ipnotico ed esaltato degli stati di travolgente trance ritualistica di “Exuvia”, riprendendo le vetrate di alienanti puliti vocali nella cattedrale “Blood Vaults” ed esplorando in tal modo nuovi, inauditi territori musicali persino tali per un progetto tanto variegato, sperimentale ed omnicomprensivo come i The Ruins Of Beverast sono. “The Thule Grimoires” potrebbe dunque benissimo essere il miglior disco, il più avvolgente e vario mai partorito dal solo Meinwald in diciotto anni di onorata carriera che risponde al suo solo nome, forte com’è di ogni qualità mai mostrata (o anche solo accennata) in singoli capitoli dal mastermind, riassunte qui nella creazione di brani che finiscono per essere mondi a sé creati da un’anima totalmente introvabile altrove.”

Il processo di rimescolamento e riforgiatura del suono ormai caratterizzante con diversità ogni capitolo dei The Ruins Of Beverast riparte da scenari ipersaturi e densi, dai cupi riflessi di un verde dai toni arcaici e sinesteticamente intriso di connotati rimandanti a sonorità gotiche. Le atmosfere pesanti e ossessive di “Blood Vaults” si riempiono di riverberi ed echi tellurici, le chitarre si fanno quelle più quadrate e sgretolanti di una certa, vecchia scuola tedesca, mentre i sintetizzatori permeano lo spazio andando a caratterizzare nel profondo le struttura stessa dei brani ed emergendo, in più, di tanto in tanto anche per impreziosirla. Raggiungendo un suono e un incedere particolarissimi e sfruttando una foggia meno stravagante ma più integrata di quegli elementi sciamanici che avevano fatto il successo di “Exuvia”, Alexander Von Meilenwald, in combutta con un Michael Zech magistrale alla produzione, dà vita con “The Thule Grimoires” ad uno dei dischi più interessanti, immersivi e personali degli ultimi tempi.”

Esperienza affascinante quella regalataci dai The Ruins Of Beverast con il proprio sesto album intitolato “The Thule Grimoires”, progetto fattosi disco che in oltre un’ora di durata ci intrappola in una corrente musicale ritualistica di carattere gotico, esoterico e mediorientale a seconda della necessità e delle relative situazioni, tra le più uniche ed intriganti del panorama musicale attuale. Le influenze sono innumerevoli ma troviamo in superficie principalmente composizioni di stampo e ritmi Doom arricchite da elementi Black e Death, con elementi come i sintetizzatori che infondono una sensazione di vuoto assoluto in concomitanza con un batterismo dal timbro profondo, quasi solenne, particolarmente a suo agio nello scandire anche momenti più riflessivi e ritmicamente smorzati. Non si tratta sicuramente di un disco da prendere o ascoltare alla leggera ma che richiede un buon grado di attenzione da parte dell’ascoltatore per poter coglierne tutti i vari dettagli che vanno a formare ogni singola traccia. Ulteriore punto di forza è il feeling di costante sorpresa per ciò che ci viene proposto, nulla cade in ovvie ripetizioni e questo permette all’album di essere ascoltato e ammirato più e più volte. Impeccabile.”

“Mentre il comparto strumentistico scorre lento e viscoso come un nero fiume di petrolio nella caverna ritratta dal suggestivo artwork, è la voce spiritata del negromante Alexander Von Meilenwald insieme a giusto qualche riverbero della chitarra ad erigere un tempio dedicato a culti proibiti, nelle cui sale persino la luce gettata da qualche estemporaneo passaggio corale pare nient’altro che il fisiologico intervallo tra le varie gradazioni di tenebra. In molti sanno scrivere musica pesante ed altrettanti sanno scrivere musica atmosferica, eppure non è affatto scontato saper mettere insieme le due cose senza sacrificarne nessuna nel procedimento; il progetto teutonico si conferma una realtà senza dubbio padrona di tali tecniche, oltre che di un gusto raro nell’ancor più sottile e delicato inserimento di melodie del quale ci si accorge fin dal al secondo giro, quando ormai certe litanie sembra di averle conosciute dalla notte dei tempi.”

Il già presentato Über Den Sternen, sesto capitolo su full-length nel percorso degli incontrastati maestri tedeschi, satiri cantori di malinconia bruciante e devozione più grande della vita al pantheon di terra e cielo. Gli Empyrium, via Prophecy, riescono nell’inatteso compito di riconciliare l’elegantissimo “The Turn Of The Tides” con tutto il resto della già sontuosa discografia, creando il loro album più fiabesco e completo di sempre.

In un mondo sempre più pratico, efficente e funzionale, gli Empyrium si ergono coscienziosi baluardi di una bellezza lenta, rara, lontana dall’utilità della materia, inafferrabile ed incomprensibile per i più: quella del sottile, del non detto, del celato e della sua lenta scoperta, di ciò che meraviglioso sta dentro in contraddizione con la bruttura del fuori. Otto fiabe di magia silvana, waldpoesie che diventano oro puro nell’abbraccio vellutato, delicato, sofferto e tiepido dei fiati leggeri e volatili, nel dipinto di allegorie ed elegie per un sublime che, al pari degli elementi più ruvidi e minacciosi del suono del duo (ritrovati inconfondibilmente da “Songs Of Moors And Misty Fields” ed “A Wintersunset…”, ma oggi espansi verso novità di spessore atmosferico come accade in “A Lucid Tower Beckons On The Hills Afar” e “The Wild Swans”), pareggiano il sublime di esplorazioni acustiche ed orchestrali fatte di un’eleganza totalmente sui generis – musicalmente crocevia di quel che è stato e mai fu prima: perché quando tutto è stato incasellato, valutato e stuprato dal concreto e dall’operativo, non resta che abbandonarsi al sogno per sopravvivervi in una ribellione poetica che ha del prometeico.”

Un nuovo foro incide la volta oscura della notte, nuovi raggi dorati prima flebili e poi finalmente scintillanti vanno ad avvolgere “Über Der Sternen” in un nobile ed elegante tripudio di famigliari e maggiormente nuove sensazioni crepuscolari. Siccome però un semplice passo indietro non è auspicabile né forse realmente possibile per una band tanto sfaccettata e talentuosa come gli Empyrium, il nuovo corso della band di Schwadorf riprende sì alcune delle sensazioni radicatamente romantiche di “Weiland” e più Metal dei capitoli precedenti a “Where At Night The Wood Grouse Plays”, seppure in chiave decisamente meno scarna e Neo-Folk di quest’ultimo, investendole invece di quella verve orchestrale e dolorosa che tratteggia “The Turn Of The Tides” e facendovi ancora risuonare, benché con meno evidenza, l’eco dei Dead Can Dance non solo nelle scintillanti note di yangqin: emozionanti forse come sempre, ma caldi ed eterei come non mai.”

Delicatezza e fascino sia musicale che lirico prendono vita in “Über Den Sternen”, nuovo capitolo nella discografia degli Empyrium, disco Neo-Folk di assoluto pregio: per dare un’idea e rendersi conto della quantità e qualità di elementi che la band amalgama in una miscela unica nel suo genere basterebbe considerare anche solo la traccia iniziale: la strumentazione acustica e i fiati suonano caldi e avvolgenti, i diversi timbri e le interpretazioni vocali danno un tono quasi orchestrale ai pezzi, mentre i tanto amati richiami Black e Doom Metal intervengono per creare quella sensazione di contrasto che va a completare la palette sonora propria solo e soltanto di casa Empyrium, portando quel briciolo di ferocia che magari un’atmosfera notturna costruita solamente da archi e tastiere non sarebbe in grado di creare. Un’ultima cosa da notare è per l’appunto che “Über Den Sternen” strizza molto più l’occhio ai primi dischi della band di quanto non facesse “The Turn Of The Tides” nel 2014 (che prendeva le mosse da ambientazioni e sonorità stilisticamente più Dark), ma lo fa in modo consono e adatto al periodo attuale, regalandoci così un prodotto musicale di livello altissimo destinato a crescere in ascolto dopo ascolto.”

“Dopo ben sette anni di attesa ritornano i paladini del romanticismo in musica oscura con il loro sesto album “Über Den Sternen”, in cui il duo teutonico riesce nel convogliare a nozze come mai prima d’ora le due anime da sempre portanti il progetto. Se da una parte troviamo infatti chitarre elettriche lunghe e pregne di malinconico Doom, con tanto di un tetto di scream abrasivi e struggenti come aneliti irraggiungibili, dall’altra è fortissimo il calore romantico del Neo-Folk riempito di unicità dalle sempre splendide voci pulite, ora più corali e spesso più baritonali. L’alternanza sciolta e fluida per tutta la durata dell’album, spesso innalzato da punti di pregevole confluenza in parti di una naturalezza sorprendente, crea un miscuglio seppur vario di emozioni sempre all’insegna della sehnsucht – basti ascoltare quello che, in tal senso, è senza dubbio il punto più alto nella title track finale: un compendio di epica malinconia in chiave tedesca.”

Anche la crescita dei romeni Sur Austru ha fatto e riconfermato proseliti tra i nostri grazie alle qualità peculiari di “Obârșie”. Il secondo album della band di Arad, nuovamente fuori per Avantgarde Music dopo due anni di lavori udibilmente meticolosi dalla pubblicazione del debutto “Meteahna Timpurilor”, mostra con ancora più forza le caratteristiche che rendono il gruppo ben oltre un’alternativa ai grandi nomi di ieri ed oggi della regione, bensì una creatura unica nel suo genere.

Estremamente cinematografico, narrativo, fluido, curato, ambizioso e persino smaccatamente visuale per una faretra di suoni ampi e multiformi, “Obârșie” si presenta fin dal primo ascolto come un enorme passo in avanti per i Sur Austru e la loro arte tanto rispettosa di un retaggio, di un’eredità che è vera e propria filosofia in musica, quanto piena di unicità nella visione che sta ai blocchi di partenza della sua riscrittura personale. Più progressivi, i brani ariosi allungati a dismisura come cornice e le loro suite libere di suddividersi in parti, senza strappi né contrasti tra stranezze folkloristiche, pesantezze Doom e movimenti che hanno del settantiano per intesa, mentre i sintetizzatori e le suggestioni Dark Ambient si fanno più cupe, striscianti ed importanti: i Sur Austru in “Obârșie” non interpretano un suono altrui, non si limitano a congiurare con stile riconoscibile e locale un’atmosfera che potrebbe anche essere un’altra in base alla predilezione del momento, ma vivono il proprio come altrimenti non potrebbero evidentemente mai fare.”

Se già il debutto “Meteahna Timpurilor” aveva dimostrato i Sur Austru in grado di piegare con personalità le caratteristiche peculiari del Black Metal folkloristico di matrice transilvana a questo punto di fin ovvia eredità, “Obârsie” va a scavare solchi di grande intensità, a rifinire ed evolvere con drammatica enfasi le pregevoli intuizioni acustiche che nel debutto erano decisamente meno nodali e più accessorie, costruendo tracce più ricche e articolate. Il modo corale, profondo ma al contempo molto libero nel suo essere privo di iterazioni strutturali, che i Sur Austru sfruttano nello sviluppare i frangenti più sciamanici in spontanea unione con gli sprazzi elettrici (come accade ad esempio nelle splendide “Taina” e “Caloianul”), scaturisce, in concomitanza con una scelta strutturale di tracklist particolarmente indovinata, un fluire di disco assolutamente avvolgente e ricco di sfumature variopinte e suggestive.”

Si sa: riconfermarsi non è mai facile, specialmente se si nasce dalle ceneri di una band dallo spirito immortale come i Negură Bunget. Questo i Sur Austru lo hanno capito estremamente bene, e di conseguenza la loro musica è molto diversa, per altrettanti quanto giustissimi versi, a quella composta dagli ex-membri nel loro precedente gruppo. Quel che non cambia tuttavia è fortunatamente l’atmosfera magica e arcaica che trasuda dalle loro nuove canzoni, un misticismo sonoro rinnovato e provvisto di nuovi colori, nuovi linguaggi che permettono alla band autrice di “Obârsie”  di regalare inedite visioni della loro provenienza e cultura; un insieme di punti di vista personali che conducono l’ascoltatore direttamente nel cuore della loro terra, fra splendidi paesaggi e e folklore dimenticato. Ottima riconferma.”

Expéditif[s] comme une croisade de Godefroy, sebbene non privi di una discreta dose di sperimentazione sul lungo finale, i Misotheist hanno attirato gli appassionati del cosiddetto Nidrosian sound (o, più banalmente, della cerchia Terratur Possessions) fin dal debut omonimo del 2018. “For The Glory Of Your Redeemer” lo segue senza reinventare stile né regole della partita, ma con la sua compattezza ha colpito positivamente il nostro Caldix.

I norvegesi Misotheist in soli trenta minuti di tempo ci catapultano in un mix a cavallo tra sonorità Black Metal sia tradizionali che maggiormente moderne, includendo soluzioni a tratti dissonanti ma intervellate da riff ariosi e dal groove decisamente coinvolgente. Onnipresente è anche questa sensazione di malignità che viene lanciata in campo da una voce grattata al punto giusto e ben mixata con il resto della strumentazione; quest’ultima espressione di composizioni ottimamente strutturate ed intelligentemente congegnate per generare un mood e un’atmosfera oscura, tetra, ma allo stesso tempo fiera e soddisfacente all’ascolto. Album perfetto per un ascolto veloce ma di qualità.”

E siccome è altamente presumibile che proprio i Misotheist non gradirebbero troppi altri giri di parole come congedo conclusivo, non resta che fissare il prossimo appuntamento mensile non appena le nubi di marzo avranno svelato i suoi primi raggi di tepore primaverile, consci come siamo che proprio l’ordine di gradimento dei quattro dischi oggi inclusi e consigliati nella rassegna rappresenta, ironicamente quanto all’origine involontariamente, la colonna sonora ideale per il risveglio delle forze della natura: dalla cocciutaggine ingannevole, mutevole e sibillina degli ultimi freddi, alla violenza intermittente e breve dei primi caldi passando tramite la delicatezza struggente della rinascita tipica del mese che da una settimana è ormai in corso. Presto un nuovo ciclo sarà conseguentemente compiuto, ma per il momento la grande musica contenuta in ognuno dei quattro magnifici di febbraio farà presumibilmente al caso vostro; non dovesse, o non bastasse per qualunque ragione, provate (anche) con la distopia frenetica in “The Hollow Man” dei britannici Void e l’omonimo primo album dei Forhist di un tutto tranne che sconosciuto Vindsval. Solo, per questi non aspettatevi né il nuovo “666 International” né un The Eye sotto mentite spoglie.

 

Matteo “Theo” Damiani

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