Enslaved – “In Times” (2015)

Artist: Enslaved
Title: In Times
Label: Nuclear Blast Records
Year: 2015
Genre: Progressive Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Thurisaz Dreaming”
2. “Building With Fire”
3. “One Thousand Years Of Rain”
4. “Nauthir Bleeding”
5. “In Times”
6. “Daylight”

Poliedrici.
Camaleontici.
Estremi, nel cambiare forma.
Funamboli, nel giocare alla ricerca imperitura del perfetto equilibrio tra generi.
Eternamente bambini.

Geniali.

Logo
Il logo della band

L’Anno Domini 2015 testimonia il ritorno di un gruppo che definire leggendario risulta -per certi versi- addirittura eufemistico.
I colossali Enslaved, forti di una carriera (e bagaglio di esperienza annesso e connesso) ormai venticinquennale, dodici full-length come curriculum vitae ed una inevitabile quanto irrefrenabile smania che li contraddistingue dagli esordi più meri, tornano a tre anni di distanza dall’uscita di “RIITIIR” sul mercato discografico “metallico” (e non) con un nuovo -il tredicesimo- capitolo musicale.
L’Anno Domini 2015… Ventiquattro anni.
Era il 1991. Due ragazzini, -all’epoca- rispettivamente un tredicenne ed un diciassettenne, coadiuvati e supportati da un altrettanto giovane e già talentuoso batterista di nome Trym Torson (qualcuno ha detto Emperor?), quasi per scherzo, prendendo nome dalla loro passione per una canzone contenuta nel primissimo demo degli Immortal (“Enslaved In Rot”, -ndr), fondano una band che sarebbe stata seminale per molti e che, come poche, avrebbe sperimentato e (dopo averli quasi stabiliti) rotto ogni schema di un genere che, a molti, è sempre sembrato più che immutabile.
I due “ragazzini” rispondono ai nomi di Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson. Tanto giovani, quanto dotati.
L’Anno Domini 2015 vede quindi l’uscita di “In Times”, sempre tramite il discusso colosso tedesco Nuclear Blast Records, come le ultime due pubblicazioni (e diverse distribuzioni già precedentemente affidate alla suddetta etichetta per il Nord America in passato) “RIITIIR” e “Axioma Ethica Odini”.
Persino la formazione è la stessa: scolpita nei solchi di (ormai) sei album in studio da dieci anni tondi.
E la musica?
La musica è, come sempre, l’unico punto in costante cambiamento (chi li segue da più di qualche release ben lo sa) tutt’altro che assiomico nella vita della venticinquenne norvegese creatura.

Band
La band

Il disco si compone di sole sei tracce, dalla lunga durata (tra gli otto/nove ed i dieci minuti di timing ciascuna); quasi a voler staccare -ancora una volta- dal (non immediatamente) recente passato del combo.
Una dichiarazione d’intenti subito resa evidente all’apertura del platter, sapientemente adagiata sulle partiture apparentemente caotiche e più prettamente Black Metal di “Thurisaz Dreaming”, scelta anche come primo singolo (per la sua immediatezza -per quanto sia possibile parlare di “immediatezza” con l’Enslaved sound- e ferocia) un paio di mesi prima dell’uscita ufficiale del disco.
Ho detto “Black Metal”, è vero.
Tuttavia chi, leggendo il nome di questo genere, ha subito abbozzato un (immaturo) sorriso di vittoria, magari sperando in un -a dirla tutta- facile quanto scontato e poco auspicabile ritorno alle sonorità di “Frost”, rimarrà più che deluso.
Gli Enslaved sarebbero sprecati a rimanere (figurarsi tornare!) sui loro passi, e ce lo dimostrano ancora una volta con progressioni pressoché perfette che ci accompagnano per tutta la durata del lungo pezzo.
Chiaramente, dopo tutti questi anni, la band ha acquisito -si potrebbe, a ragion veduta, facilmente asserire che lo abbia sempre avuto- uno stile riconoscibile al primo ascolto. Quindi non si spaventi chi legge ciò, per la paura di non riconoscerli: il rischio non sussiste.
Attraverso la più “soft” ed assolutamente poetica “Building With Fire” ritroviamo gli Enslaved che giocano sull’ormai consolidato connubio tra il vocione gutturale, ma più sovente tagliente, e profondo del frontman Grutle e le soavi clean-vocals del tastierista Herbrand Larsen.
La prima vera e propria sorpresa che i nostri calano sul tavolo da gioco è costituita da quello che è stato scelto come secondo singolo: “One Thousand Years Of Rain”. Il pezzo, per quanto nella sua prima parte non si discosti eccessivamente da quanto raggiunto negli anni dalla band, presenta al suo interno una vena (ed un vero e proprio passaggio) dal sapore incredibilmente Viking, con tanto di cori maschili epici arricchita da una melodia folkloristica efficacissima donata dall’intreccio delle due asce di Ivar e di Arve Isdal.
La progressiva, dal sapore fortemente settantiano, “Nauthir Bleeding” e la title-track “In Times” (il pezzo più lungo del disco, con i suoi dieci minuti abbondanti di durata) non fanno altro che confermare la bontà incredibile delle idee -nemmeno lontanamente in esaurimento- del quintetto di Bergen (e scusate s’è poco!); freschissime e piene della solita voglia spasmodica di stupire l’ascoltatore, il quale non riuscirà mai a prevedere un singolo passaggio (o ad assimilarne la struttura al primo o secondo ascolto).
Siamo giunti al pezzo finale, nonché vera perla inestimabile del disco, “Daylight”, saggiamente tenuta come “dulcis in fundo” e chiusura, nella quale i Nostri giocano ancora una volta con maestria (e forse più che mai) con la miscela unica di generi che da più di dieci anni di ricerca stilistica li contraddistingue, accompagnando per mano l’ascoltatore in un turbinio di emozioni (mai contrastanti, in questo caso) che culminano nel perfetto solismo di chitarra tanto di classe quanto lo è stato il disco che abbiamo appena finito di ascoltare.
La pioggia, che lava via ogni cosa, chiude senza appello il sesto pezzo di questo gioiello in musica.

Inutile fare cenno alla produzione, stiamo parlando pur sempre di un disco targato Nuclear Blast Records.
Anzi, no.
Un cenno è doveroso, a (vari) ascolti ultimati: la produzione, infatti, è tutt’altro che laccata, artificiale, plasticosa o finta (come preferite, e come si è soliti dire -spesso a ragion veduta- dei lavori editi dall’etichetta tedesca), al contrario è calda, seducente e morbida -quando serve- ma con chitarre ferocemente secche nei momenti di maggiore apprensione emotiva.
Non negherò, in questa sede, che il prodotto finale, oltre che artisticamente ineccepibile ed eccelso come sottolineato nelle righe soprastanti, sia un vero e proprio piacere per i padiglioni auricolari (di chi apprezza il genere, beninteso!) anche grazie ad una produzione riuscita come se ne sentono poche.

Tutto perfetto, quindi?
Forse.
Sicuramente non è un disco di facile assimilazione (chi ha detto che questo non sia, in fondo, un pregio egli stesso?) e la loro proposta in generale, con la sua forte ed innegabile ascesa stilistica, non è mai stata cosa proprio per chiunque. “Tales will be told… Tales will be ignored…”, dunque?
Come sempre, il tempo soltanto avrà l’ultima parola: “In Times”Nomen et omen.

Matteo “Theo” Damiani

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