Dordeduh – “Har” (2021)

Artist: Dordeduh
Title: Har
Label: Prophecy Productions
Year: 2021
Genre: Progressive Folk/Black Metal
Country: Transilvania

Tracklist:
1. “Timpul Întâilor”
2. “În Vieliștea Uitării”
3. “Descânt”
4. “Calea Magilor”
5. “Vraci De Nord”
6. “Desferecat”
7. “De Neam Vergur”
8. “Văznesit”

Se i cardini delle soglie della percezione fossero realmente purificati dall’inutilità delle scorie accumulatevi in una vita, giorno dopo giorno, apertura dopo apertura al nuovo, ogni cosa apparirebbe forse all’occhio e all’animo dell’essere senziente così com’è, ovvero infinito dietro quel suo velo di compiuta superficie tutta riempita di una rugiada di luce, l’elemento battesimale dal canto suo in cui l’archetipo umano platonico sospeso tra cielo e terra e la sua trasformazione inconscia, abbracciata in un’anamnesi, resta immerso fin dal principio. Quell’aere che tra i più immortali pensatori classici dovrebbe del resto essere il logos – la parola: l’esistenza tutta invocata dal solo impalpabile suono direttamente scaturito dal soffio vitale, dai polmoni non a caso così leggeri, delicati ed inconsistenti rispetto al resto del corpo proprio perché quasi completamente composti d’aria (a loro volta tanto semanticamente legati, da lungs a lungen, alla radice indoeuropea di luce); del respiro sprovvisto di quell’opacità delle lenti nel mezzo visivo incapaci di catturare in retina spiriti ed energie invisibili che, stando all’antica tradizione medica greca, cinese ma anche ayurvedica, sono invece l’interfaccia -la membrana- tra il fisico e lo spirituale, pneuma e pleroma nella pienezza del più alto degli ideali mondi in gnosticismi sia pre-cristiani che rinascimentali.

Il logo della band

Da questi se vogliamo basilari punti di osservazione è dunque il corpo materico, sospeso e avvolto nell’ottaedro com’è raffigurato nel duale della geometria sacra, tra il colore della calcite e quello dell’indaco nell’aria che questo rappresenta, ad essere costantemente avvolto e bagnato dallo spirito – anche quando ciò avviene in maniera del tutto inconscia; sempre tuttavia bramante quel piano che è spirituale, oltremondano fin dal profondo ansito che apre le inquietudini di “Dar De Duh” nel 2012 e quindi dell’intero percorso artistico dei Dordeduh che ne sottintendono l’ambizione fin dal nome, e con cui da “’N Crugu Bradului” ad “Om” (ma in realtà già nelle sottigliezze di “Măiastru sfetnic” e “Sala Molksa”) Hupogrammos e Sol Faur allargano insieme a Negru gli orizzonti di tutto un certo modo di fare Black Metal atmosferico, caratteristico, espanso verso il sovrumano, e di conseguenza dei Negură Bunget inseritivi come troppo spesso irriconosciuti protagonisti dal cruciale valore pionieristico. Mostrando pivotali al mondo intero, innanzitutto, che esiste allo scadere dello scorso millennio una via inconfondibilmente transilvana al genere; rivelando con ciò la presenza della Romania sul più grande scacchiere europeo nel tramite di portare le sensazioni rinomatamente più cupe della musica estrema e spingendone i confini negli antri e territori più sconosciuti dell’interiorità personale, dello spiritismo, dell’inconscio e delle più celate sezioni della psiche umana in relazione a territorio circostante, contesto e suo co-testo.
Vi si voglia, com’è probabilmente corretto e riconoscente che sia, accostare il lavoro svolto anche in seno ai rivoluzionari album del 2002 e del 2006 nella precedente band, quello che è stato raggiunto dai Dordeduh ufficialmente con un solo disco in quasi una decade, è l’offerta ultraterrena di un accesso tra i più mistici che possano esistere a prelibatezze oscure di musica che non solo sfama lo spirito ma che cura l’anima da quella polvere che vi si addossa e accumula con una sempre crescente creatività e virtuosismo artistico sconfinante nell’Avantgarde senza paura ad ogni prova; quasi dieci anni che, in un modo o nell’altro, per fortunata o sfortunata ragione che sia rispetto alla ricezione personale, in “Har” si sentono tutti. Perché il secondo full-length di Edmond Karban, Cristian Popescu e Flavius Misarăș ora uniti al talento batteristico di Andrei Jumugă, ha in sé linfa ed idea della trasformazione; del Progressive Metal nella vena di “Verity” dei Nokturnal Mortum, di “Yav” degli Arkona e della follia calcolata degli A Forest Of Stars di “Grave Mounds And Grave Mistakes” ma crucialmente privata di una certa scenograficità da teatro dell’assurdo dagli smacchi pinteriani e, abbandonati invece i gigantici campi del nefilimiano involontario, risucchiata nei reami della coscienza intesa come conoscenza, da Shekhinah a Keter nel largo sentiero di silenzio tra brani (composizioni che non casualmente fanno riflettere su quanto siano determinanti le prese di fiato in qualunque forma testuale – anche orale) e nell’etere senza odore di cui le fronde dell’albero sefirotico sono intrise. Come le costellazioni appaiono nitide e visibili solo nel buio, è infatti nell’oscurità piena oltre ai rami di queste ultime nella decade di silenzio rotta al suo margine che i Dordeduh intravedono con chiarezza, finalmente, quanto ancora occorra esplorare in musica, quanto ancora da percepire vi sia nascosto nel non fatto; la parabola degli Enslaved di “Axioma Ethica Odini” e “Riitiir” è avvicinata in intenti ed aggirata al contempo nei movimenti protesi in avanti, pur non condividendo né suono né particolari caratteristiche in stile, ma mutuale nell’essere profondamente ancorati al proprio milieu musical-estetico grazie a radici altrettanto profonde.

La band

Sebbene infatti la band non ampli particolarmente dal debutto, ad esempio, il parco di strumenti autoctoni od acustici di assoluta specificità già presentati in “Dar De Duh” (si pensi alla quasi gitana “Pândarul” o al finale del gigantesco brano d’apertura che fu nove primavere fa), è proprio l’utilizzo della loro vastissima espressività ad essere mezzo sempre più parlante della continua volontà, accostata dalla natura Dark-Ambient che si esprime oggi anche sinfonica (si confrontino i finali di “Desferecat” prima e quello della suite “Vraci De Nord” poi), di espandere in continuazione le possibilità emotive delle organiche sezioni ritmiche (tympanum e lemne, dulcimer diatonico e salterio dalla vicina Ungheria, xilofono, toacă) e melodiche (mandola romena, trâmbiță, flauti di pan nai e fiati tradizionali come associati a Sol Faur e collega fin dall’inizio della loro sperimentazione nel Black Metal, splendenti tanto nell’interludio “Calea Magilor” quanto nel sinistro fulgore, di nuovo, di “Desferecat”), come armoniche al pari nell’ormai assodata ma non meno trascendente abilità di tessitura in tastiere e sintetizzatori (si gusti a tal proposito il camaleontismo dell’intera, sensazionale “De Neam Vergur”).
Dal vibrante, meditativo e profondo appello che apre “Timpul Întâilor” con l’espirazione che compensa e bilancia l’esordio affidato all’inspirazione di “Jind De Tronuri”, la costruzione è stellare, impeccabile, gli alti e bassi delle maree strumentali che avvolgono sono tremendi quasi quanto pazzeschi sono gli arrangiamenti chitarristici o quelli restanti sempre pregni di una tensione drammatica atta a sviluppare i brani sia in lunghezza che grandezza, a massimizzare l’esposizione al fiato, al respiro, all’ariosità, la predisposizione all’apertura tonale spesso luminosa degli strumenti e delle sensazioni. Così le nerezze nella disarmonia degli arpeggi (“În Vieliștea Uitării”) vengono costantemente colorate ed insaporite, speziate da tutto quel che le comunque favolose chitarre (costantemente spese in accordi e tecniche a dir poco inclassificabili), che le voci pur cangianti, radianti, differenti ed un kit di batteria per quanto allargato non potrebbero mai suonare. Nell’oscurità che irrompe dalle viscere di uno spettro sonoro ampliato a dismisura, deformato secondo un’esigenza totalmente pittorica in ragnatele di suoni, la composizione onnivora di “Har” funziona di conseguenza al netto contrario dell’usuale: dalla frammentazione musicale all’unione, al conglomerato stilistico che dalla divisione e dallo sparpagliamento iniziale nasce. Per questo motivo dare tempo alle tracce (prevalentemente lunghe, e anche quando non tali per quantità di minuti assolutamente straripanti di materiale) di rivelarsi e condensarsi nella propria gloria è un imperativo da tenere a mente durante i primi, ad ogni modo estremamente affascinanti ascolti. Si prenda tuttavia anche come prezioso esempio inverso lo scioglimento delle distorsioni elettrificate nello spumare orchestrale dell’ambiziosa “Vraci De Nord”, poi spiegato nel finale “Văznesit” (in questo non troppo dissimilmente a “Dojană”): Enya e le frequenze dei Popol Vuh de “In Den Gärten Pharaos” incontrano gli Strapping Young Lad, persino i Tool più tribali e audaci, “Utgard”, gli Aphrodite’s Child più esoterici, tutti filtrati nelle lenti nere delle meccaniche “Anthems To The Welkin At Dusk” d’Emperor ed “Arktik.” d’Ihsahn, dei Dead Congregation, delle schiaccianti esalazioni Zyklon-B e del silenzio fondamentale che ne consegue; movimenti fluttuanti dal sapore vagamente New-Age, di una paganità sacrale certo non nuova all’operato di Dordeduh ma filtrata in territori spesso smaccatamente più luminescenti rispetto all’incubo che poteva essere una “Calea Roților De Foc”, e che ciononostante migrano come volatili nel cielo abbagliante in parti di enorme asperità ed oscurità strisciante senza preavviso musicale, fluido come lo scioglimento di ghiaccio in acqua e del movimento antitetico in fasi di raffinatissimo reverse stilistico e poetico (impossibile non evidenziare ancora una volta quello di “De Neam Vergur”).
Ogni sequenza di note diventa nel processo un diadema di talismani antichi dissotterrati per l’occhio moderno: perché, fanno riflettere i Dordeduh all’ascolto, possiamo certamente gustare tutto ciò che fisicamente incontra il nostro palato, possiamo percepire l’aroma di qualunque cosa ne abbia a sufficienza fino a centinaia di metri di distanza ed afferrare o sfiorare tutto ciò che capiti nel raggio d’azione degli arti -tutta la corteccia di cui era avvolto il misticismo saturnino del dono “Dar De Duh”-, ma solo l’occhio e l’impalpabile che vi viene filtrato e capovolto cristallino permette all’uomo di entrare immediatamente in contatto con la lontananza incomprensibile delle stelle, con il Sole, con la Luna e Dio.

Ma così come tutti i più grandi artisti ciechi del passato tanto bene hanno saputo mostrare e suggerire, da Milton a Borges, di apprezzare cioè la vista come un dono provvisorio e non preponderante, una posizione di transito da restituire e dunque non dare per scontata quale bene passeggero come qualunque altro in cui si abbia la fortuna di incorrere, i Dordeduh possono vantare in “Har” di aver impiegato ogni mezzo, dal più rivoluzionario al più tradizionalista possibile attualmente a loro disposizione, in un pattern di luci ed ombre che non per caso proprio della vista finisce per fare a meno – perché grandemente consci della possibile esistenza di altrettanti e tuttora inesplorati modi per connettersi con l’infinito e sentirlo oltre a quello solitamente riconosciuto come privilegiato della visione (nondimeno coccolata, di nuovo, dal sempre peculiare angolo prospettico di Costin Chioreanu).
Il salto dal debutto è dunque enorme, e nel mezzo del balzo molto lavoro di ricostruzione (soprattutto stilistica) è lasciato da fare all’ascoltatore senza particolari aiuti o indizi dispersi per poter tirare le fila tra i due; eppure proprio in ciò va trovato uno dei maggiori pregi di un disco coraggioso e complesso se non difficile, di una struttura se possibile ancora più complicata nella sua grande coesione e che va oltre qualunque sforzo delle due menti dei Dordeduh che in un’altra epoca, in un’altra età furono dei Negură Bunget: non più tanto nella volontà quasi dichiarata e comunque teoricamente lodevole di sconfiggere qualunque etichetta di genere e scavalcarne confini stilistici e paletti persino più marcatamente che in passato, bensì nella granitica coerenza di risultato che lo rende ancor più titanico e senza precedenti. “Har” è in tutto questo una benedizione, una fontana santificata di ispirazione purissima e di condono divino che suona come nient’altro al mondo, riflessivo e persino premurosamente ricordante al globo intero e tutti coloro i quali lo abitano, con la gentilezza inimitabile dell’animo realmente poetico, che esiste la pienezza di un patrimonio cosmico, un bagaglio e lascito dentro ognuno di essi: dimenticato, troppo spesso ignorato – e che qualora il suo terreno incredibilmente fertile resti incoltivato per troppe stagioni, diventa sempre più arduo riacquistarne la grazia.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Pagan Storm News: 04/06 - 10/06 Successivo Weekly Playlist N.23 (2021)