Dicembre 2021 – Funeral Mist

 

L’anno 2021 potrà anche essere ufficialmente concluso, eppure questo pare davvero un insignificante motivo per volere o poter dare un minore spazio (come purtroppo accade) ai grandi dischi usciti questo passato –come bene o male ogni– dicembre e che non meritano in alcun modo una tale sorte, né un trattamento diverso e fondamentalmente ingiusto rispetto a quelli usciti in qualunque altro e meno frenetico mese. Specialmente se si vuole trattare di un album come il nuovo Funeral Mist: uno dei migliori in assoluto dell’intera annata ed uno che, fosse anche solo per questo motivo, non può e non deve di certo rimanere schiacciato e perso nella follia dei trentuno giorni che dividono un anno dall’altro, o nelle inutili corse ai listoni delle immancabili preferenze. Per “Deiform” è dunque tempo di -nonché doveroso- guardarsi ancora un attimo indietro cronologicamente – o per meglio dire avanti, dal momento che un disco simile accompagnerà inevitabilmente ben più gli ascolti dell’intero 2022 che non dell’anno appena trascorso (uscito com’è effettivamente meno di un mese fa ed in maniera fondamentalmente non dissimile a quanto accadde in particolare agli Hate Forest nel 2020 con “Hour Of The Centaur”), e che gli ha giusto, sebbene ufficialmente, dato i natali. Guardare avanti con un occhio e tenere l’altro camaleonticamente proteso dietro le proprie larghe spalle è del resto da sempre la missione non dichiarata di una etichetta come Norma Evangelium Diaboli che il full-length degli svedesi l’ha rilasciato, e che se ne esiste una al mondo incarna alla perfezione lo spirito implicito nello strabismo leggendario del caprone che campeggia in copertina sul primo Bathory. E questo vorrebbe essere chiaramente un complimento.
Seguono gli altri dischi che più ci sono piaciuti, questa volta non così polarizzanti opinioni ed ognuno dunque dotato di nomina singola ma non per questo meno caldeggiati da chi ha voluto proporli con le motivazioni che seguono procedendo nella lettura dell’articolo. Sono tre, esattamente come sempre ed esattamente come le torce che rilucono nell’oscurità opprimente, che tutto inghiotte e divora di mastro Arioch e del suo quarto aborto maggiore a nome Funeral Mist: per chi nel crepitar del vento e nel crepuscolo che diventa grigio cenere tra gli alberi all’orizzonte ha sentito una voce, ed intende ascoltarla e decifrarla per trovare domande d’estrema importanza.

 

 

[…] In che modo raggiungere di nuovo le altezze della deificationis, l’abitazione medianica di un dio che ha creato il corpo e la forma umana usando la sua come matrice e calco, benché ossimoricamente sprovvisto di un corpo immediatamente tangibile? La risposta di Daniel Rostén, e di molti altri asceti dello spirito indagatori e questionatori del narcisistico paradosso religioso di gruppo con e prima di lui, è nell’analisi immersiva di un crepuscolo della carne tra le fiamme dell’Inferno per superare il dilemma della mortalità: […] “Deiform”, il disco che si potrebbe ascoltare anche solo per la sua voce non fosse che la variegatissima musica inclusavi è altrettanto eccezionale; la voce paurosa di Arioch il portatore di terrore con tutta la propria pletora di suoni quasi onomatopeici, esprimenti in maniera subliminale e tramite meri foni significati che delle parole non potrebbero mai dire, dei messaggi immediati ed intraducibili che vanno ben oltre il testo dando alla musica una carica di fuoco, d’artiglieria totalmente introvabile altrove: il coro di Satana in un’orgia crescente di questa folie à d(i)eux tra essere uomo e divinità compresenti in un’unica forma usurpatrice linguaggi e dottrine per ribaltarli, manipolarli, sterilizzarli persino, ed infestarli nel nome di un Black Metal anti-carne (perché ultraterreno in foggia) ed anti-spirito (in quanto adempiente ogni più turpe e basso compito) perché portatore primo di una spiritualità maligna e seducentemente invertita – ma pur sempre tale […].”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Inscenando il terribile attimo in cui il velo della santità si annerisce, pronto essere divorato dalle fauci crepitanti di bestie infuocate, e ogni immagine del divino si rattrappisce così nel sordido simulacro di una spoglia esanime, Arioch scolpisce le proprie visioni nefaste e profetiche con la grandiosa maestria di un artista totale, fremente di un’ispirazione sempre rinnovata, sapientemente veicolata nel costante desiderio di offrire nuove prospettive ai propri incubi di vita e morte, di aggiungere nuovi e sordidi dettagli a quell’affresco scuro, insanguinato e blasfemo che decora le arcate in perpetuo collasso della discografia dei Funeral Mist. Fra le litanie rotte degli angeli che scandiscono i primi istanti dell’ultima ora, si susseguono scenari vividi e tormentati, forse più sfaccettati e poliedrici che mai, che partono sì da quella scarica esplosiva che era stata pochi anni fa “Hekatomb” ma che si delineano ancora più caratterizzati: “Deiform” si erige infatti su di una produzione più fittamente stratificata e brani composti con una perizia magistrale, esaltati dalla cura del passaggio, impreziositi e catalizzati da dettagli travolgenti e terrificanti, fra cori bianchi che degenerano in incastri malsani, alienanti sprazzi industriali e frenetici fruscii; rimescolati, intagliati e riuniti sotto il verbo esaltato, gorgogliante e maestoso del loro unico e per davvero ineguagliabile creatore.”

La discesa nelle viscere di “Deiform” parte dall’interno di una marcia funerea che trova il suo respiro in un tanto rapido quanto aggressivo e multiforme Black Metal. Gli elementi chiave della nuova fatica dei Funeral Mist non sono in verità poi moltissimi, ma sono tutti sviluppati in modo egregio: l’aspetto melodico e la sensazione di epicità trasmessa dalle composizioni sono tra i migliori mai espressi dalla formazione del notevole Mortuus, qui Arioch, mentre la cattiveria che trasuda da ogni singola nota sembra risiedere in un limbo atmosferico tra il marziale e l’industriale. Non c’è infatti spazio per alcun fronzolo, eppure nella sua pura schiettezza “Deiform” diventa un’opera addirittura ritualistica, un ansiogeno rituale del dolore che riesce perfettamente nel suo intento di catapultarci in un mondo alternativo e spietato ma esteticamente eccezionale.”

Riaccesasi da ormai qualche anno e fecondata dalla forzosa lontananza dei Marduk dai palchi, la diabolica sete di oscurità patita da Arioch dà forma e sostanza ai sette proiettili conficcati nel cranio dell’infame 2021. Dodici mesi dopo “Totschläger”, pure il secondo annus pestilens spira dunque alla fioca luce di candele le quali proiettano sui muri visioni da incubo a tre dimensioni, agitate dall’uragano ai tamburi Lars Broddesson e portate a vita propria dalla solita maestria al microfono dell’istrione svedese: e se il disturbante connubio tra la maligna prima voce ed i raggelanti inserti comprimari rimane l’asso nella manica dell’entità Funeral Mist, non va accantonato d’altra parte il sopraffino guitar-work sicuramente figlio putativo anche del sodale Morgan Håkansson, ma rivisitato attraverso la psiche distorta del suo frontman e trasformato così in lampi di tortura fisica ed emotiva anche per gli ascoltatori più smaliziati.”

“Tutti sono rimasti comprensibilmente sorpresi ad inizio dicembre, nel vedere annunciata la pubblicazione di un nuovo album del progetto personale di Mortuus, a distanza di così poco tempo rispetto al precedente “Hekatomb” e considerati i nove anni che erano invece serviti a questo da “Maranatha” per venire fuori. Certo, la pandemia ha da un lato ridotto considerevolmente gli impegni (con i Marduk, su tutti) e dall’altro favorito una certa creatività, ma resta sorprendente quanto il nuovo “Deiform” possa vantare di un’ispirazione che non è mai stata così ferale ed esplosiva, come dimostrano i riff di chitarra che si agitano come serpenti in forsennate convulsioni, solo uno dei tanti marchi di fabbrica della sua creatura che ne fa sfoggio come delle linee vocali, esempi di grandezza in cui il polistrumentista svedese è libero di vomitare letteralmente ogni tipo di riflessione a completo piacimento. Non è un caso che per chi scrive, personalmente, il vero punto di forza dei Funeral Mist sia l’assoluta libertà e il completo distaccamento in discorso anche dagli stessi Marduk; una forza che emerge più chiara che mai in “Deiform”, un disco che riconferma lo stato di grazia del musicista e cantante riuscendo nella non facile impresa di eguagliare e poi superare il precedente album.”

Il completamento del dittico iniziato dai Kły durante l’equinozio autunnale a fine settembre con “Chen”, tramite la pubblicazione del nuovissimo “Cienie” durante il passato solstizio invernale. A supportarli c’è come sempre Pagan Records, e tra astrattismo e riferimenti a Beckett, annunci di stasi e la ricerca esasperata di un grammo di senso nella sua mancanza, i polacchi chiudono un ciclo senza dubbio fatto d’interesse e riflessione, ma non privo di asperità…

Malgrado il rischio di risultare a posteriori come un banale deposito di idee scartate da “Wyrzyny” e comunque pubblicate in vista di una lunga pausa creativa, il dittico firmato dai Kły nel 2021 si conclude con “Cienie” mantenendo altissima la fattura del progetto polacco. Psichedelica senza rinunciare alla concretezza strumentale, intimistica senza negarsi qualche giro d’intricata ma intrigante catchiness, la proposta in questione si conferma appetibile ad un pubblico ben più nutrito di quanto si pensi; oltre che sapientemente priva di un immaginario di riferimento in modo che chiunque possa vederci riflessi gli scenari più diversi – dall’industrializzata distopia metropolitana all’isolamento da qualche parte nelle profondità astrali o del proprio stesso inconscio.”

Prendete i Setherial di “Nord…”, lo spirito e i modi burberi di Arckanum in “Kampen” ed aggiungeteci un po’ di Nehëmah, di “Drep De Kristne” e un pizzico di “Hvis Lyset Tar Oss”: avrete “De Fornas Likgaldrar” – in barba ad ogni volutamente altisonante premessa non proprio il capolavoro che ci si potrebbe o dovrebbe aspettare, ma l’alchimia funziona del resto così. Swartadauþuz lo sa bene, e dunque la formula viaggia come da sola anche compilando due ore tonde di doppio album.

Altro giro, altro musicista e polistrumentista svedese piuttosto indaffarato: lo Swartadauþuz che, non si sa ancora bene come, riesce con successo a destreggiarsi fra una moltitudine esagerata di progetti paralleli di cui Bekëth Nexëhmü è probabilmente uno dei principali, dei più riusciti e noti, in cui si propone un Black Metal molto atmosferico. Forti e parecchi gli innesti di glaciale musica Ambient, una sorta di mix tutto svedese fra Paysage D’Hiver e Burzum fatti dialogare in un linguaggio che invece è personale, e che canta come una tempesta di neve che spazza via e annichilisce tutto, lasciando dietro di sé un bellissimo paesaggio invernale: la perfetta combinazione dei classici e freddi riff Black Metal e le tastiere sinfoniche, a riprova della grande versatilità dello svedese e, servisse dirlo, del genere tutto.”

Chiude “Non Omnis Moriar”, che dopo il già apprezzato “Axis Mundi” ci fa gustare di nuovo la perizia classicista ma non troppo del tedesco che da tre album si firma Mavorim. La sostanza non cambia, ergo non si evolve granché ma non resta nemmeno esattamente la stessa; così come ci fa notare Ordog che lo consiglia spassionatamente a chi delle barbarità di Satanic Warmaster e soprattutto degli Absurd di metà carriera non ne ha mai abbastanza.

La partecipazione del mastermind Baptist a quattro pubblicazioni nel giro di soli due anni ha sicuramente influito sull’esito finale di questo nuovo “Non Omnis Moriar”, ben più asciutto e pressoché spoglio da orpelli quali erano le fugaci tastiere che punteggiavano l’ottimo predecessore “Axis Mundi”. Mentre tuttavia questo irrigidimento nei canoni basilari della weltanschauung teutonica così diffusa sotto la label d’appartenenza [Purity Through Fire] presta talvolta il fianco a dimenticabili riff simil-Thrash e linee di batteria non sempre coinvolgenti a sufficienza, sono invece la vena epica di derivazione Folk e l’onestà d’intenti comunque tutta tedesca a fare di Mavorim un progetto sempre degno di interesse, limitato quanto si vuole nella gamma di sensazioni evocate ma dotato di una forza espressiva non certo comune in ciascuna di esse, oggi apprezzabili al loro massimo nei luminosi sprazzi melodici disseminati nella tracklist.”

Questa volta non abbiamo altri particolari suggerimenti da dispensare in volata, qui, incisi nella pietra delle note finali che chiudono l’articolo sul meglio dell’ultimo mese dell’anno conclusosi, vale a dire il concreto dicembre riassunto mediante le sensazioni nuove che ci auguriamo ritroverete copiose e soddisfacenti come noi nei quattro dischi somministrati poc’anzi. Ma con tre quarti di loro inclusi già settimana scorsa tra le preferenze assolute dell’intero 2021, non solo v’è da giurarci possa accadere, ma anche da dire che a fronte di una quantità vagamente minore di proposta resta evidentemente poco da lamentare in fatto di qualità. Per di più, questo lascerà senz’altro più tempo durante lo scorrere del restante gennaio per scoprire cosa il 2022 sta iniziando a riservarci. Il che non è davvero mai un male…

 

Matteo “Theo” Damiani

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