Darkthrone – “Soulside Journey” (1991)

Artist: Darkthrone
Title: Soulside Journey
Label: Peaceville Records
Year: 1991
Genre: Death Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Cromlech”
2. “Sunrise Over Locus Mortis”
3. “Soulside Journey”
4. “Accumulation Of Generalization”
5. “Neptune Towers”
6. “Sempiternal Sepulchrality”
7. “Grave With A View”
8. “Iconoclasm Sweeps Cappadocia”
9. “Nor The Silent Whispers”
10. “The Watchtower”
11. “Eon”

Volendo sgomberare il campo dalle questioni di natura legale o dalla semplice aneddotica personalistica, una peculiarità della primissima scena norvegese rimasta avvolta nell’ombra è la sua aperta rivalità con quasi tutto il panorama Death Metal del tempo, ormai accantonata (se non opportunamente silenziata) dopo decenni di ritrattazioni mediatiche, incroci stilistici e l’imperante fluidificazione dei confini musicali dovuta all’affermarsi del mainstream anche in territorio estremo, con tutto il corollario di side-project comuni e tour condivisi da act originariamente lontani per genere o sensibilità ma divenuti affini per notorietà. Ciononostante, il nebuloso rapporto tra le due precise e distinte sonorità ai loro albori torna ciclicamente ad essere fonte di congetture più o meno verosimili, che sia per la pubblicazione solamente due anni or sono del primo full-length a firma Mortem oppure i trent’anni di vita raggiunti ormai dall’esordio ufficiale dei Darkthrone.

Il logo della band

La risoluzione dell’enigma “Soulside Journey” quale ingenua sbandata d’inizio carriera figlia di un’idea musicale non del tutto maturata lascia scoperti sin troppi punti interrogativi a sua volta, a cominciare dal cambiamento oltremodo radicale attuato nel pionieristico, immortale ed irreversibile capolavoro successivo. In aggiunta, occorre probabilmente tenere in conto che l’allora quartetto emerso dalla sperduta Kolbotn si trovava sul serio nel proverbiale posto giusto al momento giusto: ben lungi dal ruolo di outsider più volte invocato dai suoi membri principali in seguito, la band era stata accolta sotto l’ala di una Peaceville Records da tempo ben avviata in campo Metal e con sottomano niente meno dei sophomore record di Paradise Lost ed Autopsy, nomi non certo sconosciuti ai Darkthrone dell’epoca, come lo stesso debut dei norvegesi lascia trasparire. Il 1991 è poi non per caso o circostanza fortuita l’anno di “Clandestine”, delle iconiche opere prime di Grave e Dismember, e più in generale del definitivo affermarsi della corrente estrema svedese, nella quale Fenriz (ancora sotto il mitologico nickname di Hank Amarillo) e compari avrebbero potuto calarsi benissimo – come in effetti fecero durante le registrazioni di “Soulside Journey”; il suono del disco vide difatti la luce nientemeno che nei Sunlight Studios di Stoccolma, feudo del vate Tomas Skogsberg e luogo di culto per ogni appassionato del Death nordico, i cui capiscuola Nihilist avevano inoltre stretto un’insperata alleanza coi norvegesi in trasferta. In definitiva, con giusto un’altra uscita entro gli stessi canoni stilistici, uno dei gruppi chiave nella genesi effettiva del metallo nero per come l’avremmo conosciuto avrebbe potuto trovare l’ispirazione, il successo ed in special modo l’immedesimazione nel proprio operato necessari per un’ipotetica carriera sulla falsariga di Cadaver ed altri onesti gregari esteri del carrozzone confinante; invece i ribattezzati Fenriz, Nocturno Culto e Zephyrous estromettono il bassista Dag Nilsen, cestinano il papabile follow-up “Goatlord” e scrivono così la Storia -con l’iniziale rigorosamente maiuscola- del Metal in quelle che sarebbero state molte delle sue successive diramazioni.

La band

Francescana rinuncia ai beni in nome del progresso artistico o rinnegamento dei propri trascorsi allo scopo di entrare a far parte del circolino in ed elitario del quartiere? In un genere musicale il cui mito è talvolta basato sul mistero attorno ai protagonisti piuttosto che sulle effettive composizioni questo tipo di domande non ha in realtà alcuna ragion d’essere, mentre più appagante risulta sviscerare con il favore del tempo gli undici brani di un album senza dubbio dotato ancora, a tre decenni dall’uscita, di un certo suo fascino: malgrado le premesse citate pocanzi, il disco interpreta innanzitutto la materia Death Metal in modo alquanto differente rispetto al (o ai) trend del periodo, con una sorta di atipico incrocio realizzato a crocevia tra Svezia, Inghilterra e Stati Uniti. L’influenza di Skogsberg e dell’ambiente circostante riveste infatti i pezzi di un sound non lontano da quello tipico dei Sunlight, con una batteria tonante criticata dallo stesso Gylve Nagell e delle chitarre solo di poco meno pesanti di quelle degli Entombed. Ma la proposta effettiva, al contrario, va a parare in tutt’altra direzione mettendo curiosamente insieme i due monicker di punta nella scuderia Peaceville nominati in precedenza: gli Autopsy, già punto zero del settore persino nel contesto a stelle e strisce, sono da sempre un comune denominatore del metallo di morte norreno tanto tra gli antesignani poi passati al Black Metal quanto per le nuove leve oggi affermatesi (Obliteration, Execration, su tutti), e proprio la loro abilità nell’alternare riff cadenzati a ripartenze in velocità costituisce le solide fondamenta sulle quali i Darkthrone erigono almeno tre quarti del debutto; d’altro canto, “Soulside Journey” non esita a buttarsi nemmeno in ulteriori rallentamenti ai limiti del Death/Doom, sottogenere che all’epoca stava prendendo forma grazie -tra gli altri- ai due full-length dei Paradise Lost, anche se eventuali paragoni fra i synth di “Gothic” e quelli ascoltabili nei quarantuno minuti a firma Darkthrone sarebbero quasi un insulto ai britannici. Ne consegue che, al netto di un songwriting ancora claudicante ed un drumming perfino un po’ troppo articolato e tecnico per la proposta, che insieme hanno fatto invecchiare i brani molto più in fretta rispetto ad opere anche meno reclamizzate del futuro duo, un simile minestrone di suggestioni e riferimenti risulti comunque un unicum nel panorama scandinavo intero; privo sì del tiro di un “Like An Ever Flowing Stream” ma allo stesso tempo convincente prova di un act il quale, in un altro universo, avrebbe saputo dire e detto la sua anche nel poi rigettato Death Metal.

Può darsi che il vero merito di “Soulside Journey” risieda per l’appunto nell’aver fin da subito evidenziato la predisposizione di Fenriz e Nocturno Culto ai Frankenstein sonori; alle unioni di influenze opposte senza una vera e propria logica che non fosse quella che prende forma nell’intuito dell’appassionato terminale di musica dura. A volerla dire proprio tutta, il suo fluire in undici capitoli suona quasi come l’unico caso in cui i Darkthrone abbiano veramente adottato tale stratagemma col palese intento di produrre qualcosa al passo coi tempi, dando vita ironicamente al lavoro non solo meno innovativo della discografia, ma anche uno di quelli che di meno sarebbe stato amato nelle decadi a venire: nessuno come loro, del resto, ha fatto del fascino vintage un tratto identificativo, sia quando ci sarebbe stato da rivoluzionare in modo del tutto inconsapevole il genere estremo a colpi di Bathory, sia quando sarebbe stato il caso di tornare alle idilliache origini attraverso l’uso compulsivo di Celtic Frost, Hellhammer e primitività assortita.

Michele “Ordog” Finelli

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