Totalselfhatred – “Solitude” (2018)

Artist: Totalselfhatred
Title: Solitude
Label: Osmose Productions
Year: 2018
Genre: Depressive Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Solitude MMXIII”
2. “Cold Numbness”
3. “Hollow”
4. “Black Infinity”
5. “Nyctophilia”

Rinascere attraverso il dolore. Una cerimonia di purificazione celebrata dall’uomo fin dall’antichità e attraverso tutta la storia, tramite le sue età e culture; quando mediante catarsi fisica, quando mentale, il processo di liberazione continua, in ogni sua forma, ad essere ancora oggi un soggetto attraente e forse irrinunciabile per l’essere umano e per comprendere o in qualche caso curare la sua condizione esistenziale.
Un uroboro con punto d’arresto, trovare un appiglio per non cadere, trovare qualcosa che guidi tale processo, uno stimolo necessario per portare a compimento l’agognata missione e liberarsi finalmente di quel male interiore che attanaglia. Quel macigno che porta verso un fondo percepibilmente invisibile.
Qualcuno direbbe un motivo per vivere, qualcun altro un motivo per cui arrivare a morire.

Il logo della band

Chi meglio di un quintetto di finlandesi poteva celebrare il concetto tramite musica, trovando o facendo trovare all’ascoltatore, equilibrio fragile nel gioco fra le parti, un saldo piolo in quella insicura scala di legno scricchiolante con cui tutti abbiamo inevitabilmente familiarità. I Totalselfhatred, da Helsinki, si sono presi sette lunghi anni per riuscire a buttare nuovamente su pentagramma qualcosa che, una volta gettato in pasto all’astrazione, potesse superare la più solitaria, fisica, tangibile e personale esperienza sensoriale diventando in tal senso ben più grande del suo creatore. Trasmettere nitide visioni di miseria interiore che non sempre sono accompagnate dalla scelta tra accoglierle o allontanarle, un obiettivo che era già stato sfiorato nell’ottimo “Apocalypse In Your Heart” del 2011 ma che viene totalmente raggiunto, nonché superato in modo clamoroso, nel nuovo e terzo full-length della band intitolato “Solitude” (ancora una volta accompagnato alla nascita da Osmose Productions).

La band

Il già personalissimo Black Metal di stampo Depressive del predecessore scivola e questa volta si libera totalmente dalle già labili (fin dal tempo del debutto omonimo) costrizioni stilistiche, fluttuando fluente ed ancor più ricco di rifiniture e dettagli spesso anche totalmente estranei al genere, sorprendendo fin dai primissimi secondi di qualunque dei cinque lunghi brani, qualora preso a campione, per la fluidità di composizione con cui ormai si destreggiano i nostri finnici e, parimenti, per l’enorme capacità nel creare un framework coerente e continuo senza mai ricorrere all’abusata dilatazione di strutture o alla ripetizione ipnotica nel susseguirsi di riff e strofe.
I Totalselfhatred di “Solitude”, coerentemente con quanto aveva portato in tavola la loro evoluzione fino a questo momento, tendono piuttosto a dipingere tele che -in gioco di contrasto parossistico- si arricchiscono di colori e sfumature cariche di minuzie in arrangiamento, in primo luogo portando ad un nuovo livello l’impiego distintivo, rigoglioso, lussureggiante ed elegante di sintetizzatori e tastiere, sublimi ricami di archi e pianoforte in cima ai brani -e loro autentico punto di eccelsa forza- per trasmettere con grande efficacia il mantello atmosferico di tristezza e malinconia sempre pronta ad esplodere nelle urla sgraziate del cantante Corvus (accompagnato da quelle di Juuso e Alex) e tutta la vibrante e dolorosa disperazione di cui sono impregnate con estrema sincerità: peculiare, sia per tale ragione che per mera originalità, è l’utilizzo della lingua inglese tratteggiata di finnico idioma madre solo nei momenti di maggiore apprensione (anche stilistica), espediente che per dietrologia non è tale ma permette ai pezzi, nella pratica e con la sua estrema genuinità, di raggiungere una dimensione di profondità emotiva eccezionalmente elevata.
L’approccio chitarristico interrotto e desaturato, dal sapore Depressive Rock più che Black Metal per toni, quasi sloppy e mai chiave per sé nemmeno nei momenti più bruciantemente estremi, è un indispensabile tappeto che accompagna e contribuisce all’abbandono totale delle sporadiche aggressioni frontali, a cui la band nei precedenti episodi discografici aveva talvolta abituato, permettendo loro di filare invece un lavoro più coerente e coeso nella sua interezza in cui, tuttavia, si allontana -come anticipato- la monotonìa di atmosfere da straniamento urbano (per ripetizione esasperata tipica del genere e di gran parte dell’operato dei padrini) anche grazie al batterismo e percussionismo addizionale di gusto ragionato e particolarmente intricato, accartocciato spesso e volentieri a sfiorare nei momenti più riflessivi il flavour acustico e tribale; una serie di accorgimenti dettati da maturazione evidente che permettono con tale costruzione a tutta la raffinatezza della composizione della band di manifestarsi con intensità crescente lungo il fluire dell’album, rendendo ogni singolo brano (nonostante l’altissimo livello di ognuno di essi) probabilmente più bello del precedente. Solo in questo modo un episodio della caratura di “Black Infinity” può essere del resto squisitamente secondo al finale mozzafiato di “Nyctophilia”.

“Solitude” è in sostanza non solo la meritata consacrazione artistica dei Totalselfhatred, ma -e soprattutto- uno di quei dischi difficili da descrivere a parole perché provvisto della rara capacità di andare a fondo e toccare con onestà ed autenticità particolari corde nell’animo di chi ascolta; soffuso ma non notturno, è quel compagno silenzioso che ti scruta permettendoti di conoscere meglio un paesaggio che vedi da tutta la vita, ma da sempre in completa solitudine. La melodia distante che risuona osservando la superficie di un lago piatto e calmo, quando l’unica altra presenza tutt’intorno è l’incendio all’imbrunire che, con bellezza straziante, si specchia nelle sue acque. Un brandello che, quando lo sguardo peregrina sulla foto più impolverata nella memoria, inevitabilmente ne rimane sempre incastrato rivelando il nostro nemico più commoventemente temibile. Noi stessi.

Matteo “Theo” Damiani

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