Kvist – “For Kunsten Maa Vi Evig Vike” (1996)

Artist: Kvist
Title: For Kunsten Maa Vi Evig Vike
Label: Avantgarde Music
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Ars Manifestia”

2. “Forbannet Være Jorden Jeg Går På”
3. “Stupet”
4. “Svartedal”
5. “Min Lekam Er Meg Blott En Byrde”

6. “Vettenetter”

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Italo Calvino, “Le Città Invisibili” 1972)

Quanto è difficile riconoscere, nella vita così come in qualunque suo più infinitesimale e ristretto ambito, qualcosa di valido, degno e meritevole della nostra propensione quando nascosto -o peggio sepolto od affogato- in un vasto mare di mediocrità e squallore? O ancora, quanto può essere arduo riuscire a vedere, sentire ed infine constatare, l’esistenza del proverbiale qualcosa in più; di quella inafferrabile eppure inconfondibile scintilla che manifesti il genio in un individuo, in un testo o finanche in un disco, quando troppo presi e indaffarati a correre per i più svariati motivi o a lamentarci per ciò che non abbiamo?

Il logo della band

Accade il primo gennaio del 1996. Il luogo di riferimento è quella fredda e geograficamente remota Norvegia settentrionale che dalla sua capitale così tanto ed aspramente ha fatto parlare la (fortunatamente, non sola) cronaca nera negli anni immediatamente precedenti, mediante le sue coste lambite di sangue effuso dall’estrema rivendicazione musicale per quella che -in retrospettiva- è stata a conti fatti un’autentica rivoluzione filosofica ancor prima che stilistica.
Chi scrive si riferisce chiaramente a quel ramoscello più oscuro, rumoroso ed intransigente della musica Rock che prese il nome di Black Metal. Il ramoscello che nel 1996, nella fattispecie, nasceva ad Hønefoss (e nello stesso preciso istante periva, soltanto per poter vivere in eterno) s’intitola “For Kunsten Maa Vi Evig Vike” e corrisponde all’unico lascito ufficiale donato alla storia dagli schivi e più che misteriosi esegeti norvegesi che presero il nome di Kvist.
Il terzetto, nato come duo fondato dal mastermind Vergrimm (al secolo Hallvard Hagen) e dal batterista Endre Bjotveitnel nell’inverno 1992, con all’attivo un solo breve demo autoprodotto su nastro del 1994 (che ebbe un discreto successo nel circuito underground in patria, tanto da finire completamente sold-out nel giro di una manciata di mesi) in cui opera e figura quella che sarebbe stata l’unica line-up ufficiale dei Kvist in studio di registrazione, quella ora coadiuvata dall’ingresso di Tom Hagen alle prese con basso e voce, si sarebbe de facto sciolto nel 1995 dopo aver inviato il master di “For Kunsten Maa Vi Evig Vike” al proprietario della nostrana Avantgarde Music, Roberto Mammarella, senza lasciare alcun’altra traccia che non fosse la sua raffinata ed introversa musica.

Hallvard “Vergrimm” Hagen

Il disco, il cui titolo fa riferimento all’inchino, al sentimento di umiltà e reverenza provato dall’essere umano nei confronti di concetto e manifestazione artistica (“For Kunsten Maa Vi Evig Vike”, pregno di licenza poetica norvegese, può essere molto sommariamente tradotto con “di fronte all’Arte siamo tutti inferiori”), si compone di sette brani dalla durata estremamente varia, ma dal marcato e maturo trade-mark stilistico, per un totale complessivo di meno di quaranta minuti di musica scevra di alcun tipo di calo o riempitivo. Fin dall’opener “Ars Manifestia” è chiaro che, pur essendo solamente il 1996, non si tratta affatto di mero Black Metal dai tratti afferrati nel già delineato canone norvegese: l’apertura delle danze affidata all’intreccio di basso, batteria e sei corde suonate in ritmati palm-muting dal sapore più marcatamente Death, viene subito accostato al riffing veloce, malvagio e graffiante, che in quegli anni adava sempre più distinguendosi come marchio di fabbrica della corvina musica estrema scandinava.
I tempi prediletti sono generalmente molto sostenuti ed incalzanti, una marcia impietosa che è condotta da parti chitarristiche semplicemente fuori dal comune per ingegno e gusto melodico (al netto del quale, dopo e attenti svariati ascolti, si palesa l’educazione classica dell’unico compositore del disco), in un solenne ma oscuro coito con gli inserti di tastiere quasi sempre dal marcato sapore sinfonico e orchestrale. Ma l’apparente e ricercata semplicità dei toni utilizzati -in tal senso- è completamente messa in ombra dalla bravura in fase di arrangiamento dei Kvist, uno dei veri punti di forza del disco, che impone la band una spanna sopra ad ottima parte dei colleghi coevi. In questo modo, ad esempio, semplici organi sintetizzati riproducono l’espressività sinistra e sincera di atmosfere rigogliose e magniloquenti difficilmente realizzabili oggi finanche con l’ausilio di orchestre sinfoniche, librerie digitali o pregiati mezzi della modernità portata dai ’00s.
Il suono sporco delle chitarre, spiraliche ma diramantisi nello spettro sonoro tutto, contrasta con la grazia ed il sapore di tetra fiaba aleggiante nell’intero lavoro, rafforzato da partiture di gusto classico e tradizionale norreno al pari, creando così una coltre indissolubile di astruso ed a tratti folkloristico enigma musical-poetico ben tangibile in episodi come l’accoppiata “Stupet”“Svartedal” (il cui finale è uno dei momenti di maggiore apprensione emotiva, nonché valore squisito, dell’intero platter); ma “Min Lekam Er Meg Blott En Byrde” è la vera perla nera del disco, quella che, con i suoi dieci minuti di durata, le sue orchestrazioni, gli organi maligni e i cambi di tempo ed umore quanto mai repentini (contraltare di variegati riff incantevoli che spaziano tra melodie epiche ed incredibilmente trisiti), svetta per composizione e complessità di intuizioni in essa contenute, rappresentando qualcosa di totalmente inedito -fino a quel momento- nel genere di appartenenza. Non è di certo un caso che il leader Hallvard abbia esplicitato, con a dir poco insistenza, il bisogno di sentire il risultato finale proprio di tale pezzo prima dell’avvenuta stampa dei dischi.

Nel 1996 un gruppo come i Kvist, nonché un disco come “For Kunsten Maa Vi Evig Vike” (registrato nel 1995 presso gli Endless Sound Studio ad Oslo), poteva senz’altro essere considerato diverso da ciò che lo circondava; quantomeno, unico nel suo genere al netto di suoni inediti: una tagliente diversità, sinonimo di ricchezza e bellezza intrise di umiltà ed autenticità, forgiata dal chitarrismo complesso e superbo nella sua stesura e realizzazione. Un valore ricercato che, probabilmente, nonostante la smaccata vena melodica del lavoro (ma al netto di una complessità d’ascolto notevole nel suo genere), non venne compreso appieno all’epoca proprio perché non immediatamente tangibile, bensì tutto da scoprirsi, relegando l’album ad apprezzatissimo gioiello di culto da una discretamente ristretta fetta di pubblico. A distanza di anni, invece, il retaggio lasciato da molte delle araldiche intuizioni compositive dei Kvist è non indifferente, fatto -tra gli altri- che anche senza il bisogno di tener da conto la squisitezza pazzesca delle sue canzoni rende il disco uno dei migliori lavori usciti nel suo genere dalla metà degli anni ’90.
Interessati alla loro personale manifestazione artistica e nient’altro, pienamente consapevoli di mezzi ed obiettivi mediante un solo lascito raggiunti. Un anomalo quanto splendido ramoscello la cui fosca fioritura giunse in inverno.

“L’individuo che si ribella ai dettami della società è ostracizzato, escluso e lapidato. E così sia. Correrò il rischio. Voglio vivere la mia vita così come soddisfa me. E lo voglio fare senza il vostro ipocrita rispetto; preferisco essere felice.” (Leopold Von Sascher-Masoch da “L’Eredità Di Caino”, 1870)

[P.S.: Si ringrazia inoltre Roberto Mammarella di Avantgarde Music per la preziosa collaborazione, senza la quale non sarebbe stato possibile realizzare buona parte dello scritto.]

Matteo “Theo” Damiani

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