Deathspell Omega – “The Synarchy Of Molten Bones” (2016)

Artist: Deathspell Omega
Title: The Synarchy Of Molten Bones
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2016
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “The Synarchy Of Molten Bones”

2. “Famished For Breath”
3. “Onward Where Most With Ravin I May Meet”
4. “Internecine Iatrogenesis”

Vi è differenza sostanziale tra l’essere predicatori di un culto, sostenitori o divulgatori di una qualsivoglia dottrina, e invece incarnarlo; esserne inscindibile essenza e riferimento diretto.
In musica, il concetto enunciato è facilmente riscontrabile non appena si osserva e ascolta la moltitudine di band inquadrabile in estetica, iconografia o contenuti gnostici del satanismo medievale insinuatosi, come suadenti spire di rettile, nei machiavellici ingranaggi del Metal estremo a partire dai primi anni 2000. Per quanto variegato e diverso al suo interno possa essere tale agglomerato di interpreti, di un fatto si può essere immancabilmente certi: ogni singola proposta musicale, specie se di cosiddetta matrice Orthodox Black Metal, praticante in musica e divulgante -in qualsivoglia maniera- dogmatismo filosofico in linea con l’appeal di ostentata ricerca ascensionale ed individuale, di cupo retaggio basso-medievale ove il maligno spadroneggia ancor’oggi spavaldamente in dipinti, scultura e cattedrali (irremovibile e temuto a distanza di quasi mille anni), fa oggi continuo riferimento (a distanza storica di sicurezza, dunque consapevolmente o meno) ad un solo nome; quel nome inevitabilmente e senza esclusione di dubbio è Deathspell Omega.

Il logo della band
Il logo della band

La misteriosa, scardinante, innovativa e seclusa entità rispondente a questo nome, nata oltre venti anni fa a Poitiers in Francia, torna a fare la sua tetra comparsa sugli ebanici scaffali con un nuovo full-length a distanza di sei anni dall’ultima uscita paragonabile in intenti.
Per gli avventori ormai più abituali al Deathspell-Sound è finanche inutile informare che è la Norma Evangelium Diaboli a tirare le redini dei giochi ancora una volta, tante sono ormai le pubblicazioni della band (contando le minori) licenziate dopo l’inizio del nuovo ciclo vitale con l’originariamente suomi Mikko Aspa.
Dapprima, la ridefinizione del “De Mysteriis Dom Sathanas” pensiero, il filone occulto incominciato e successivamente sdoganato con il primo grande tassello di una trilogia acclamata come senza uguali nelle sue coordinate: il monumentale (mi si perdoni l’infelice gioco di parole) “Si Monumentum Requires, Circumspice” del 2004. Tre anni dopo, consolidata l’esperienza minore ma retrospettivamente essenziale dell’EP “Kenôse”, il secondo disturbante e reinventante pezzo del triplice puzzle giunge in “Fas – Ite, Maledicti, In Ignem Aeternum”.
Tuttavia, le ampie ali del portatore di Luce si sono maliziosamente dispiegate proprio con l’ultima parte, “Paracletus”. Non solo una creatura in gran parte aliena agli elementi fino a quel momento maggiormente riconosciuti alla sfuggente band, ma avanguardistico specchio di perfetta sintesi tra mondi lontanissimi tra loro.
Finita la trilogia.
Erroneamente può essere identificato come primo nuovo passo di reincarnazione proprio quel “Drought” (EP del 2012) le cui derive smaccatamente Math-Rock erano nemmeno troppo velatamente anticipate dalle ritmiche sempre più fuori dal mondo (approccio collimante col free-Jazz, se mi è concesso) del precedente full-length. La controprova quasi inconfutabile giunge proprio alla luce del nuovo “The Synarchy Of Molten Bones”.

Il simbolo della Sinarchìa
Il simbolo della Sinarchìa

Difficile dire cosa ci si aspettasse (o potesse aspettare) da un nuovo disco dei francesi. Innanzitutto i più attenti, in un periodo storico in cui la tendenza è quella di produrre dischi dal timing totale più ampio possibile (doppi, tripli dischi come piovesse), non avrebbero mai scommesso su un full-length della durata di poco meno di 30 minuti. Quattro cariche tracce che conservavano un’incognita pesante: andranno oltre le influenze estremizzate in “Drought”, perfettamente cesellanti “Paracletus”? Troveranno una nuova strada o manterranno gran parte degli elementi ormai collaudati? La risposta, come era lecito aspettarsi, non può mai essere univoca nel loro caso. Tuttavia, mi si conceda – sorprendentemente, l’ago della bilancia pesa questa volta a favore della seconda ipotesi. La complessa destrutturazione sintattica di matrice Jazz è nei solchi di “The Synarchy Of Molten Bones”, cospirante proterva con gli strumenti propri al Metal estremo, ma è pronta a destabilizzare ed abbattere l’ascoltatore con la alcune tra le parti più violente mai realizzate dalla band. Qui che giunge l’aspetto stilistico che sbrindella ulteriormente il bivio della pregiudiziale supposizione: gli ottoni minacciosi, cupi, dal torvo tratto sinfonico -mai marziale- riportano immediatamente (ed irrimediabilmente) alle atmosfere catacombali di “Fas – Ite…”, così come i continui attacchi elettrici disarmonici e la caoticità delle soluzioni impiegate. Ora drammaticamente atonale, poi spezzata dal sorprendente ed improvviso taglio melodico (bagaglio acquisito di “Paracletus” ormai ben criptato nel genoma DsO, di cui è mantenuto anche l’approccio compositivo che predilige disgregazione musicale sulla breve durata di timing dei singoli brani, fatta eccezione per il dilungarsi astrazionale di “Onward Where Most With Ravin I May Meet”), la claustrofobica mezz’ora di sviluppo dell’album è incredibilmente ricca di influenze e patchwork di diversi generi musicali -a tratti sconvolgente- e naturalmente complessa.
I decadenti momenti affidati ai picchi Sludge dell’ultimo full-length sono oggi riposti nella faretra a favore di austerità e solennità decisamente più imperanti e magniloquenti, più vicini alla musica classica che non al retaggio Metal, anche a diretto scapito del retrogusto tipicamente francese che il precedente capitolo possedeva. Le diatonali partiture di chitarra dalle alte tonalità che avevano fatto spesso e volentieri la fortuna delle ultime uscite del combo sono sostituite dalla grammatica più dura e ritmica di avviluppante e storto gain Black Metal, in un utilizzo più aggressivo che mai del reparto sei-corde: urlante, schizofrenico, lacerante e roboante nella sua discordanza. I moderni Stravinsky (certamente non la prima volta che il parallelo compositivo viene annotato o sputato) incontrano -e superano- la lezione dei lontani Dillinger Escape Plan abbigliandoli di nero.
Ancora una volta la splendida sensazione predominante è quella di ascoltare un gruppo dall’ispirazione ad oggi sconfinata, che ha trovato la chiave per reinventarsi pur mantenendo un sound unico, di spanne superiore a qualsivoglia epigono, e totalmente proprio. Per la prima volta, però, non possiamo certo dire di aver ritrovato tutto il carico di netti e globalmente rivoluzionari cambi stilistici a cui la band aveva abituato l’ascoltatore conseguentemente ad ogni uscita.

Innegabile è il livello fuori dal comune in dettagli, texture e complessità di arrangiamento ed esecuzione (senza mai astrarsi inutilmente) dei Deathspell Omega; parimenti, per quantità e qualità  di riferimenti letterari, il concept presenta una profondità irraggiungibile per la quasi totalità dei più (se totalmente digiuni: di paternità ravvisabile in Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, la sinarchìa è in linea teorica un in-esistente sistema governativo segreto di estrazione gerarchica d’élite e forma massonica, del quale si è parti integranti -o meno- per via unica della propria conoscenza, saggezza, capacità acquisita e conquiste personali – in base alla lettura di riferimento può o meno essere diametralmente opposto all’insinuarsi delle più moderne teorie degli occulti governi ombra).
Con ciò detto, “The Synarchy Of Molten Bones” potrebbe presentare l’unico e, a ripetuti ascolti, comunque quasi impercettibile difetto dell’esigua durata; un espediente gradevolmente controtendente a produzioni inutilmente prolisse e prive d’idee, sulla carta, che tuttavia nel loro caso e constatata la bontà complessiva lascia affamati di un timing anche leggermente superiore. Lungi dal lasciare tuttavia l’ascoltatore insoddisfatto (il carico e la quantità di materiale intrinseco, e quindi di relativa assimilazione, sono comunque incredibilmente pesanti), non possiede con ogni probabilità alcune delle caratteristiche di smaccata innovazione che hanno reso in brevissimo tempo il precedente full-length un lavoro immortale; in analisi, per via della sua estrema ferocia e freddezza nelle soluzioni che cercano di comprimere al parossismo di sintesi la dilatazione a cui la band ha abituato nella sua evoluzione pur senza tradirla e per molti versi reinventandola, potrebbe dunque non reggere altrettanto bene -o con lo stesso grado di insostituibilità di altri dischi del collettivo, se non per picchi di violenza spaventosa e raramente sperimentati persino dai Nostri- lo scorrere del tempo solo e soltanto in quanto capitolo singolo.
Come proseguiranno l’immacolato cammino i Deathspell Omega, dopo tutta la qualità perpetrata negli anni e con una trilogia che è ormai acqua passata, non è dato al momento sapere; quel che è certo è che nell’anno 2016 la band ha consegnato l’ennesimo lavoro di ostica caparbietà artistica, dall’incredibile peculiarità creativa ed intransigente valore cogitativo, a dimostrazione di un estro letteralmente senza fondo.

Matteo “Theo” Damiani

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