Column N.10 – Negură Bunget (2017)

 

Martedì 21 marzo 2017 verrà ricordata come la data della dipartita terrena di Gabriel Mafa, in arte Negru, il fondatore, batterista, percussionista, polistrumentista, compositore e mente a dir poco visionaria della sua storica, influente ed avanguardistica creatura che più di vent’anni or sono prese il nome di Negură Bunget.

Tramite un comunicato diramato sui social, è stato il cantante Tibor Kati a dare l’annuncio della scomparsa del compagno di band, deceduto per cause ancora non divulgate all’età di 42 anni (anche se sempre più accreditata si fa avanti l’ipotesi di infarto improvviso), all’indomani della conclusione dell’ultimo Tour Europeo della formazione transilvana.
Chi ha avuto il grande onore di conoscere o parlare personalmente con Gabriel Mafa saprà già benissimo quanto una persona umile e dedicata fosse. Un individuo che, per oltre vent’anni, ha avuto a cuore ed in mente principalmente un obiettivo: curare la sua Arte, senza vincoli o compromessi, senza egoistiche e frivole pulsioni al successo (che invero avrebbero sicuramente meritato) e senza mai deconcentrarsi dalla finalità ultima di consegnare, tramandando alle future generazioni, una sempre più vasta parte -analizzata e filtrata- del retaggio culturale, sociale, ed indigeno della sua amata Romania. Le tradizioni e i costumi di un mondo arcaico a fondo studiato e personalmente ricercato, trasmesso senza interruzioni e senza stanca, incurante delle infinite avversità (anche personali) che hanno colpito negli anni la band, con l’unico timore reverenziale rivolto alla natura in una perpetua ode dedicata alle sue sfaccettature.
Chi ci segue da tempo sa bene che la totalità dello staff di chi scrive su Pagan Storm Webzine è grande fan del lavoro dei Negură Bunget. Di conseguenza, la morte improvvisa e prematura del suo esegeta non poteva lasciarci indifferenti o totalmente silenziosi.
Questo scritto non vuole dunque essere uno sterile necrologio commemorativo, il solito ingigantimento del carrozzone mediatico che si sviluppa in seguito alla morte di un personaggio, ma un sentito invito alla scoperta o riscoperta di una carriera artistica dagli infiniti volti e dal peso storico enormemente sottovalutato; un personale omaggio del sottoscritto, al fianco della redazione, rivolto all’analisi profonda di vent’anni in musica dell’eclettico collettivo artistico della Transilvania, portandovi ad ascoltare un brano significativo ed emblematico per ripercorrere il cammino e la genesi di ogni sua fondamentale uscita maggiore.

Anche per sentito dire, chi bazzica le sonorità da noi trattate non può che collegare il nome Negură Bunget all’immagine forte della loro terra. Un legame inscindibile fin dagli esordi a nome Wiccan Rede, con il breve demo “From The Transilvanian Forests” nel 1995, seguito da un repentino cambio di nome nella nebbia oscura che tutti conosciamo a giusto qualche mese dalla sua uscita. Bisognerà attendere un solo anno affinché venga pubblicato il primo vero album della band: il grezzo ma già interessantissimo “Zîrnindu-Să”, ancora primigeniamente legato alle sinfonie norvegesi degli Emperor e sorprendentemente vicino al riffing contorto dei coevi Kvist, maturato di pari passo nel contesto originante un suono dall’est-europa che vedeva i suoi contemporanei semi in act come i Sacrilegium, ma più particolarmente rivolto in segno di sfida a presentarsi come inedita risposta centro-europea alle sonorità atmosferiche dello scardinante Burzum.

Se tuttavia la band si fosse fermata al mero atto di risposta stilistica, non saremmo di certo qui a parlarne ormai trascorsi più di due decenni. In due anni il sound del terzetto, precedentemente un duo formato dai fondatori Negru e Hupogrammos, coadiuvato solo nel 1998 dall’ingresso in pianta stabile di Sol Faur, subisce una maturazione impressionantemente ampia, intensificandosi ed intricandosi notevolmente, finendo anche per scoprire le radici folkloristiche e sciamaniche di ciò che l’originalissima proposta del trio sarebbe divenuta con le successive uscite. La mezz’ora di nuovo materiale contenuta nell’EP “Sala Molksa” parla per sé e costituisce il metafisico ponte che avrebbe portato alla realizzazione del secondo full “Măiastru Sfetnic”.

La prima vera perla monolitica della carriera dei Negură Bunget non può che essere considerata il loro secondo album in studio: un ostico concentrato di oscurità dal riffing caotico e sublime, con una produzione ruvida e grezza restituente suggestioni di folklore primordiale e territoriale, plasmato a mano in sole 1000 copie in scatole di cartoncino nero ruvido. L’ultima uscita per Bestial Records, nel 2000, vede la dilatazione delle atmosfere rendere i brani finalmente lunghi e dispiegarsi sui timing elevati che meglio avrebbero caratterizzato la parte centrale della produzione del trio. L’approccio delle tastiere, per la prima volta Dark-Wave / Dark Ambient, anticipa non solo il futuro sound distintivo di Negru e soci, ma anche (e soprattutto) un’intera nuova corrente di Black Metal che ormai sfondate le porte del nuovo millennio avrebbe spopolato con le sue derive atmosferiche e naturalistiche.

L’ascesa totale del trio vede però la sua prima eccelsa consacrazione nel terzo capitolo “‘N Crugu Bradului”, che li fa approdare in Italia grazie all’abbraccio della nostrana Code666 Records per l’uscita del loro primo concept album. I quattro lunghi e complicati brani, rappresentanti il passare delle altrettante stagioni annuali, restituiscono l’immagine di una maturazione completata per i transilvani che danno così vita, nel 2002, alle loro trame più variopinte, ricche di inediti strumenti folkloristici autoctoni. Avanguardistico è l’utilizzo di tulnic, svariati xilofoni, dulcimer e la tavola di pietra percossa che diventerà una vera e propria gemma strumentale dei Negură Bunget.
Il chitarrismo storto e diafano, involucro di una composizione totalmente rinnovata, rende “‘N Crugu Bradului” -parimenti con il successivo “Om”– uno dei dischi Black Metal più riusciti, innovativi, anticipatori e in definitiva migliori del nuovo millennio.

Accantonata la centralità delle reiterazioni, nonostante l’assodata maturità fosse già stata ampiamente dimostrata e raggiunta, nel 2006 conclusa non poteva invece di certo dirsi l’evoluzione o l’ambizione del progetto. L’uscita di “Om”, a parere dei più il miglior disco in termini assoluti dei Negură Bunget e sicuramente uno dei loro punti più alti, segna l’avvento di un patchwork di influenze nuove e derive totalmente estranee al mondo del Black Metal farsi insistentemente protagoniste della proposta del trio. Il folklore e le sue manifestazioni diventano tetra pulsione arcaica dai risvolti misteriosi e dai tratti angoscianti. Se è vero che il disco mette d’accordo critica e pubblico sulla reputazione della band come act unico e fuori dal comune, altrettanto è che “Om” -dall’alto delle sue intuizioni sopraffine- risulta essere uno di quei pochissimi e privilegiati lavori che segnano in modo netto prima e dopo. Foriero di un nuovo ed impensabile modo di integrare Black Metal e folklore romeno.

“Om” è anche l’ultima manifestazione artistica a veder coinvolto l’intero nucleo fondamentale della band: all’unisono, Hupogrammos e Sol Faur abbandonano la nave per fondare i Dordeduh. Ci vogliono altri quattro anni di stallo affinché le forze che spingono il polistrumentista superstite tornino a convergere in un’unica direzione. Con una nuova e più ampia line-up il risultato è “Vîrstele Pămîntului”, l’ennesimo lavoro di transizione ed evoluzione che mostra il nuovo nucleo guidato da Negru tenere tutto ciò che di buono era stato raccolto con il precedente lavoro sotto l’aspetto Folk, acustico e della strumentazione a fiato, trasportandolo in una nuova direzione integrata da tratti meno Dark e più ricchi di influenze progressive e psichedeliche. Un disco che traspone in musica, sin dalle scelte grafiche, la dualità di luce e ombre fortemente insita nella cultura popolare romena come specchio sinottico di vita e morte. Un aspetto caro allo stesso Negru che citò la celebre “Ţara De Dincolo De Negură” come totalmente incentrata sull’interconnessione dicotomica tra esperienza terrena ed aldilà.

Altri cambi di line-up e cinque anni di lavori ad intermittenza segnano la fine delle difficoltà personali in casa Negură Bunget, nonché l’approdo al roster Prophecy Productions. Nel 2015, l’ambizioso progetto di realizzare una trilogia transilvana (visiva e sonora) vede i primi sforzi confluire nel primo tassello intitolato “Tău”. Un ritorno discografico generalmente accolto con freddezza quando non con riluttanza, con diverse innegabili scelte discutibili ma sempre fregio del fortissimo trade-mark evolutivo del combo. Sofferente di una tracklist mal congegnata e di nuovi membri non ancora perfettamente integrati, la prima manifestazione della “Transilvanian Trilogy” incentrata sui costumi, la cultura e i rituali del popolo e delle terre transilvane, riesce comunque ancora a colpire per via di una bontà stilistica e di scrittura non assopita, incuriosendo su quelle che sarebbero invece state le caratteristiche di “Zi”.

Settimo capitolo discografico, uscito solamente l’anno scorso, “Zi” è il secondo ed ultimo tassello di quella che voleva essere la trilogia transilvana. Non può essere al momento chiaro se uscirà mai una terza e conclusiva parte, dato che le registrazioni per l’inedito ultimo album erano cominciate negli scorsi mesi ma presumibilmente non portate a termine prima dell’improvvisa scomparsa di Negru. “Zi” mostra una line-up di nuovo creativamente solida e finalmente stabile, unita da sette anni e che solo la morte di Gabriel ha nuovamente spezzato.
Parole di encomio erano state da noi scritte in sede di recensione solo qualche mese fa, all’uscita dell’album, tra i nostri preferiti dell’annata. Lapalissiano esempio di una band sofisticata, sempre alla ricerca di nuovi eleganti elementi per esprimersi e per questo apparentemente inarrestabile, nonché ancora estremamente convinta di una direzione artistica intrapresa da oltre due decenni.

A fine marzo 2017 il percorso dei Negură Bunget sembra quindi arrestarsi in via definitiva, o quantomeno giungere ad un irrimediabile cambio di forma e volto. Mai più condotto dalla sensibilità artistica di Gabriel Mafa, l’interprete unico e coraggioso che ha dedicato un’intera vita alle sue incredibili visioni, alla profonda dedizione verso la natura e alle manifestazioni della terra e dello spirito, incanalando i suoi moti ed incorporando le sue esperienze in espressioni cangianti e sincere, avanguardistiche nella forma e nei contenuti, al continuo inseguimento di un’evoluzione eclettica e perpetua che solo la morte materiale è riuscita a fermare.

 

“We’ll never try to see why something should not work, we’ll always try to find why something should work.”Gabriel Mafa a Pagan Storm Webzine nel 2015

Matteo “Theo” Damiani

 

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