Arkona – “Khram” (2018)

Artist: Arkona
Title: Khram
Label: Napalm Records
Year: 2018
Genre: Folk/Black Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Mantra (Intro)”
2. “Shtorm”
3. “Tseluya Zhizn’”
4. “Rebionok Bez Imeni”
5. “Khram”
6. “V Pogonie Za Beloj Ten’Yu”
7. “V Ladonyah Bogov”
8. “Volchitsa”
9. “Mantra (Outro)”

Chi credeva che gli Arkona non potessero obiettivamente maturare ulteriormente dopo quei diamanti di “Yav” e “Slovo”, tra cui in ammissione deve includersi il sottoscritto, è evidentemente costretto a ricredersi di fronte ad un’opera del calibro di “Khram”.

Il logo della band

Un tempio si apre, i suoi portoni cesellati di simboli arcani si spalancano. Non è invitante, conserva quel fascino intimidatorio che ogni luogo intriso di spiritualità preserva nella profondità dei solchi della sua pietra, o della superficie nodosamente incavata e ricoperta di ogni oscura incisione che porta manifesto, monito e minaccia di tempi remoti. Un pericolo avvertito come tale solo per ignoranza. Ciò che non si ascrive immediatamente alla facoltà sensitiva e cognitiva spaventa infatti l’animo umano, ma evidentemente non quello degli Arkona che -da russi d’eccezione- hanno da sempre scandagliato il connubio territorial-tradizionale del loro passato per poter leggere il presente attualmente in fase di scrittura.
Afferrare il concetto fumoso dello scorrere del tempo è quanto mai arduo nella società che viviamo ogni giorno, e se da un lato troviamo una moltitudine di soggetti che corrono a perdifiato senza una meta, dall’altra pochi eletti sembrano aver trovato realizzazione. “Khram” è il tempio sul cui altare questa èlite di reietti porge il suo sacrificio più sanguinante, dalla ricerca introspettiva più dolorosamente acuta, e -in termini più terreni- è (anche, banalmente) la trascrizione madrelingua dell’ottavo full-length dei moscoviti, rilasciato come ormai d’abitudine da Napalm Records su territorio internazionale (la produzione locale natìa continua a spettare invece alla SoundAge).
“Yav” aveva mostrato che, dopo lo splendore compositivo in crescendo di “Goi, Rode, Goi!” e “Slovo”, previo allontanamento parzialmente progressivo dalle componenti più immediatamente ascrivibili all’universo della strumentazione percepita come folkloristica, la band pareva sostanzialmente non avere limiti di sorta nel suo percorso evolutivo. Un continuo ricalcolo senza tradirsi, rimescolanza di uno stile particolarmente innovativo nel suo genere, diverse variazioni sul tema lontane dalla centralità originale per novella reinterpretazione del Pagan Metal intriso di Black e folklore slavo (ma da un pezzo non più ad esso limitato), poi avvicinato da Progressive, sentori Rock, incursioni di Jazz-jamming e in generale l’incupimento costante disco per disco delle atmosfere in una sciamanica profondità d’analisi che aveva stimolato il gruppo a comporre un disco più unico che raro nella sua categoria per oscura liquidità di sentimenti, intuizioni e visioni.

La band

“Khram” riparte dalla destrutturazione della musica Folk Metal del suo diretto predecessore, sempre più raramente espletata in apparizioni costanti da primadonna di fiati e autoctonicità varia a ricalcare forzatamente strutture portanti di lead guitar o della linea vocale di turno, superando non solo l’obiettivo ma spingendosi su binari ancora una volta completamente diversi e -con ogni probabilità- di più largamente ardua assimilazione. Annerendosi, indurendosi, consegnando alcune tra le partiture più cupe e violente dell’intera carriera degli Arkona (quasi sempre ravvisabili nei climax di sviluppo dei brani più lunghi, in particolare nell’ammirevole title-track) ma, di contrappasso, includendo i momenti melodici più squisitamente realizzati di qualunque altro album della band a lui precedente.
Un gruppo divenuto così maturo e solidamente conscio dei suoi enormi mezzi da riuscire ad evocare gran parte delle infinite sensazioni che andremo a provare durante l’ora e un quarto di viaggio che “Khram” è fin dall’introduzione, quel “Mantra” che -coerentemente con la semanticità dei suoi fonemi- sviluppa una preghiera, mormorata fricativamente in stato di trance, grazie a cui le arcate del tempio si dipanano al ritmo incalzante di “Shtorm” che -esponenzialmente più breve e immediata del resto del disco- si ricollega per scelte melodiche proprie alla mastodontica title-track di “Yav” come per farci riprendere in alterazione di coscienza un ascolto (in)interrotto quattro anni fa. Il pacchetto dei quaranta minuti centrali (“Tseluya Zhizn’”, “Rebionok Bez Imeni” e “Khram”) è invece quanto di più sorprendente gli Arkona abbiano mai messo in musica: un denso circolo di momenti Black Metal, vario chitarrismo prevalentemente disarmonico per arpeggi convulsi e contrasti luminosi, complessità batteristica dallo stile raffinato che si getta in blast-beat solo nei momenti più carichi (comunque non così di rado) per poter far toccare loro apici imprevisti, progressione continua per strutture e tripudio di voci dalla natura multiforme (tra ululati, clean, narrazioni, screaming frontali, voci bianche) e di elementi orchestrali, eclettica selezione di strumentazione con tromboni e ottoni, tuba e violoncelli, a garantire un arrangiamento magniloquente alle esplosioni di drammaticità non stemperate, bensì innalzate, dal sentore di sciamanico folklore continuamente perno sotterraneo della scrittura e dei chiaroscuri di malinconia e rivelazione che la musica presenta come punto focale. Quando ci si rende conto che ogni brano, per ricchezza di dettagli ed intuizioni, meriterebbe uno scritto su di sé totalmente incentrato, non è compito arduo constatare di trovarsi innanzi ad un lavoro che presenta i tratti del clamoroso. Non da meno sono la fortemente progressive “V Pogonie Za Beloj Ten’Yu” e l’oscurità di “V Ladonyah Bogov”; la prima già nota come secondo singolo di lancio del disco (nella fattispecie tragico per complessità di struttura, ma se non altro provvisto di un chorus irresistibile) mentre la seconda è evocativa, inquietante e misteriosa epitome di ciò che la band propone nel 2018, graziata dal pianoforte di Robert Engstrand negli anfratti dei suoi passaggi spettrali. C’è ancora tempo per “Volchitsa”, brano la cui paternità non spetta agli Arkona (bensì ai Vedan Kolod) ma la cui reinterpretazione indistinguibile risulta così originale e propriamente intrisa del carattere dei moscoviti da strabiliare al momento teofanico della scoperta che trattasi di una partitura etnica da loro non originariamente vergata. Ed è totale esultanza di folklore tra sopilka e altri fiati (gaita galiziana su tutti), scacciapensieri, l’immancabile aggiunta percussionistica del bodhrán, prima che il tutto si possa chiudere esattamente com’è iniziato, con una seconda breve litania che si ricollega all’apertura del viaggio.

Con “Khram” gli Arkona celebrano la vita passando attraverso la morte, baciando entrambe le facce della medaglia per comprendere processi e segreti che ne stanno all’interno con tramite di lunghissime invocazioni che, tuttavia, e in realtà proprio per la loro ricchezza di dettagli, riescono in ogni minimo frangente nel compito di esaltare tutti gli aspetti dell’incredibile maturità raggiunta dalla band negli anni, andando prima oltre la replica o la mera miglioria degli stessi e restituendo successivamente sempre qualcosa di nuovo all’ascoltatore. Ma soprattutto regalando un’opera omnia di portata eccezionale per originalità, passione, varietà, capacità di mescolare senza alcuno sforzo mondi spesso percepiti come antitetici, riuscendo a trasportare l’avventore più avido e attento in un mondo arcano, visionario, pieno di magia oscura e lisergica, sperimentando senza sosta novità di soluzioni da inserire nella propria complessa proiezione dell’esistenza e ponendosi in tal modo diversi gradini sopra ad ogni altro act nel loro genere.
Se si concede quindi che gettarsi alle spalle l’ego e trovare noi stessi nonostante -e per- la mutabilità della vita sia punto centrale nell’intelligenza del sé, con “Khram” gli Arkona non solo realizzano il loro disco migliore di sempre, aspetto già incredibilmente arduo se decontestualizzato, ma sigillano anche un album pressoché perfetto.

Matteo “Theo” Damiani

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