Alghazanth – “Eight Coffin Nails” (2018)

Artist: Alghazanth
Title: Eight Coffin Nails
Label: Woodcut Records
Year: 2018
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Self-Exiled”
2. “Facing The North”
3. “Aureate Waters”
4. “The Upright Road”
5. “At Their Table”
6. “The Foe Of Many Masks”
7. “Twice Eleven”
8. “Pohjoinen”
9. “To Flames The Flesh”

La parola Alghazanth non ha un significato preciso, né un connotato linguistico definito. È frutto di un sogno rivelatore, un suono onirico proveniente dall’alito freddo soffiato dalle fauci di un lupo bianco quanto la neve che, come spiegato nel dettaglio a Tero Ikäheimonen nel 2014 (alle prese con le interviste che avrebbero composto “Pirunkehto”, competente storia del Black Metal finlandese pubblicata da Svart Publishing anche in versione inglese col nome “The Devil’s Cradle” sul finire del 2017), una notte del 1995 apparve a Gorath Moonthorn: fondatore, batterista e mente lirica della band originaria di Jyväskylä.
Ventidue anni dopo, quello stesso lupo decide di voltare le spalle al mondo e mettere la parola fine al suo lungo viaggio per poter tornare a guardare il profondo Nord e cercare nuove sfide.

Il logo della band

Non solo in ambito artistico, comprendere quando sia o meno giunto il momento per concludere un qualunque percorso è azione che in pochissimi dimostrano di saper compiere. Ancora meno sono quelli per cui questo fatidico momento coincide con l’effettivo punto massimo, opera più rilucente della carriera.
Nell’anno 2018, grazie alla pubblicazione di “Eight Coffin Nails” tramite l’indissolubile partnership con la fedelissima Woodcut Records, i finlandesi Alghazanth entrano a far parte di questa più stretta ed esclusiva cerchia sigillando con un colpo da maestri -nettamente il loro migliore in assoluto- la loro esplorazione in musica durata ventitré inverni.
Con otto chiodi in otto cuori, i dischi pubblicati dalla band. È quasi un cliché l’idea per cui un disco, per un artista, porti sempre con sé un pezzo di cuore, della propria anima. In molti casi un’amara ruffianata, tuttavia in quelli più sinceri e genuini non può che risultare candidamente vero; “Eight Coffin Nails”, canto del cigno annunciato come tale, lo è senza indugi nel presentarci gli Alghazanth a quadrare il cerchio dell’intero corpus produttivo, limando, rifinendo e sistemando letteralmente ogni errore compiuto in passato e che aveva penalizzato (in un modo o nell’altro) la realizzazione della totalità dei capitoli ad esso precedenti. Quando per la produzione, quando banalmente e più sovente il problema fu la scrittura, o quando invece la scelta di collaboratori poco incisivi e ancor meno calati nella parte (in particolare tastieristi non sempre in grado di valorizzare le pur buone idee partorite dal Black Metal melodico, talvolta sinfonico, e dalla profonda serietà lirica degli Alghazanth), in sostanza nessun disco tra i sette pubblicati dalla band tra il 1999 e il 2013 aveva particolarmente brillato per longevità o successo. “Eight Coffin Nails”, partendo dalla presenza chiave in formazione di Henri “Trollhorn” Sorvali, alle tastiere ed arrangiamento di sintetizzatori, compie il miracolo e supera ogni difficoltà sempre riscontrata consegnando al mondo l’opera maestra della band.

La band

L’ispirazione non era mai stata così ampia ed è lampante fin dal primo chiodo conficcato nella bara (i brani sono nove, ma le canzoni effettive ancora otto, in numerologia e simbologia cara ai finlandesi), “Self-Exiled”, manifesto fin dal titolo di questo ultimo viaggio di cui veniamo resi partecipi. Le tastiere di Trollhorn chiariscono le intenzioni di stagliarsi come le più imponenti e splendenti mai cesellate in un disco degli Alghazanth, questa volta tutto in salita, campeggiando non troppo sorprendentemente come autentico punto di forza del lavoro, andando a rifinire continuamente l’aggressività melodica del chitarrismo di ogni brano e variegando ogni situazione stilistica e di tempo alla perfezione: passando dai toni eleganti e meno intrusivi, ma spiritati, gelidi e quasi angoscianti dei più cupi nell’opener, all’alchemia sinergica con le finezze batteristiche in ogni pezzo successivo, il dispiegarsi delle loro partiture avviene in piccoli dettagli ascolto dopo ascolto, donando grandissima longevità all’album. Non ci troviamo d’innanzi a inutile ridondanza sinfonica a sovrastare la restante strumentazione, al contrario, in primo piano occorrono solo selezionati passaggi che svettano dal resto del sostrato a reggere e bagnare di contrappunti e tappeti le finalmente ottime intuizioni melodiche degli Alghazanth, come nelle più immediate “Facing The North” e “The Foe Of Many Masks”. Non sono difatti le tastiere, per quanto splendide, a salvare un disco che altrimenti sarebbe stato mediocre: in ogni interruzione narrativa fisiologica delle stesse è semplice rendersi conto di quanto siano le melodie e la fluidità delle chitarre, con le loro diramazioni e trasformazioni dal regale al maligno, finalmente in grado di regalare grandissimi momenti all’ascoltatore innanzitutto per come sono scritte. Il superbo lush sinfonico d’altri tempi esulta drammatico, epico e prominente solo in episodi di squisita fattura come “The Upright Road” e “Twice Eleven”, oltre che in qualche altra sporadica sfuriata, capaci tuttavia di regalare all’ascoltatore più d’un brivido e di valere l’acquisto del biglietto da sole.
L’intelligente costruzione a guisa di viaggio ci riporta continuamente in mente l’intento funerario – tanto che l’oscurità inquietante e i passaggi più tirati (di “Aurate Waters” e “At Their Tables”, con le classiche ritmiche di Black suomi) si dipanano curiosamente con lo scorrere delle tracce, aprendosi in sezioni sempre più atmosferiche e circolari, con un più frequente uso di arpeggi e incursioni tastieristiche d’effetto malinconico (non sorprende che rintocchi di burzumiana memoria facciano capolino in tal senso, trattandosi di Sorvali). Se, difatti, dal terzo brano il disco decolla in velocità o aggressività, con una parte centrale terribilmente inarrestabile per immediatezza e riuscita, è dal finire del sesto che iniziamo a ravvisare la realizzazione e la consapevolezza che sarà l’ultimo atto di sempre. L’ultimo frammento di “Twice Eleven” e la contigua strumentale “Pohjoinen” introducono il finale cambio di atmosfera, preparando alla tirata conclusiva della lunga e cerimoniosa “To Flames The Flesh”: commiato dall’enorme classe che ha il sapore dello spirare di un vento gelido a sussurrare la parola fine, materializzata nella notte in caratteri glaciali durante l’ascolto straziante del brano migliore mai scritto dalla formazione.

Dopo ventidue anni il lupo, nello stesso modo in cui è arrivato, sceglie di andarsene a completezza del suo stesso piano. Non c’è lutto al funerale pubblico degli Alghazanth, perché “Eight Coffin Nails” è la ragionata chiusura di un percorso, è opera che ha il sapore vittorioso della realizzazione, il voler uscire di scena al proprio punto più alto e probabilmente irripetibile, ma allo stesso tempo coerentemente con un genere sempre e testardamente esercitato dai nostri nonostante ormai poco trendy. L’ottima prestazione di ogni componente, sia per scrittura che arrangiamento, lascia in silenziosa ammirazione consegnando pertanto un inaspettato grandissimo album: non solo il migliore della loro carriera ma anche uno dei più belli di Black Metal finlandese degli ultimi anni.
Imperdibile ovviamente per chi già non faticava ad apprezzare la band, ma parimenti per coloro che, come chi scrive, non erano mai riusciti a trovare una distintiva raison d’être nell’operato del gruppo. Il risultato impareggiabile di chi mette sé stesso in ciò che fa.

Matteo “Theo” Damiani

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