Abigor – “Höllenzwang – Chronicles Of Perdition” (2018)

Artist: Abigor
Title: Höllenzwang – Chronicles Of Perdition
Label: Avantgarde Music
Year: 2018
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Austria

Tracklist:
1. “All Hail Darkness And Evil”
2. “Sword Of Silence”
3. “Our Lord’s Arrival – Black Death Sathanas”
4. “The Cold Breath Of Satan”
5. “None Before Him”
6. “Olden Days”
7. “Hymn To The Flaming Void”
8. “Christ’s Descent Into Hell”
9. “Ancient Fog Of Evil”

La ribellione: porsi contro la corrente inestinguibile della massa che fluisce indefessa verso il nulla.
Nella storia, e nella mitologia con essa, infiniti sono gli esempi per cui le azioni di conoscere e comprendere in ogni loro aspetto sono bollate come atti rivoluzionari e ribelli. La figura di Lucifero, medievalizzato in quella dell’avversario della Luce stessa, in Satana, nell’onnipresente maligno che getta discordia in vita prima che in morte, è emblematica di tale processo.

Il logo della band

Non dovrebbe stupire che il tutto confluisca così ferventemente da sempre in musica che fa della controtendenza ragione primaria della sua esistenza, fiamma e visione primordiale per cui ogni nota scaturita dalla strumentazione dell’artista è devoluta (o devota) a una ricerca che possa portare a distinguersi -negli esempi più squisiti- non come narcisismo fine a sé stesso, ma come propensione naturale ed irreprensibile dell’animo di chi compone. In modo non dissimile, quattro anni fa da queste parti si elogiava la propulsione prettamente artistica degli Abigor che, dall’ormai discretamente lontano 1993, altro non fanno che seguire la loro più sincera ispirazione mutando ed evolvendo. A volte, a loro detta, tornando indietro.
Tornare indietro: ma in che modo? In quello testardo che, per chi ha scritto “Höllenzwang” e le sue nove cronache di perdizione, è il più tipicamente proprio del Black Metal fin dai suoi albori nei primi ‘90: guardare alla tradizione che, in gioco uroborico, torna con necessaria personalità che sfiori l’autentico genio ad essere fattuale innovazione.
Un concetto più complesso e meno banale di quanto e come non venga brevemente presentato, sicuramente, ma in sostanza l’idea alla base del nuovo disco degli Abigor è stata guardarsi indietro se non altro per ritrovare quel battente e pesante vigore in aural form che, così drammaticamente, spesso manca nel genere che forse più di ogni altro dovrebbe farne perno predestinato.
Nove canzoni, o brani, o riti e invocazioni più coerentemente con il titolo stesso (che riprende gli Höllenzwange del quasi mitologico alchimista Johannes Faust), devoti e totalmente incentrati sul Maligno e sulla sua esclusiva figura soltanto. Se gli scritti dal carattere magico del mistico tedesco nella sua serie di grimori contenevano i più indicibili desideri infernali, dall’incantatore ivi raccolti in modo da essere soddisfatti dai demoni avernali tramite spinta coercitiva, la musica degli austriaci -parimenti- si pone quale unico obiettivo quello di eseguire con cura maniacale il comando diretto del diavolo nella sua accezione più filosofica. Una vera fortuna che, tutto ciò, coincida con assoluta precisione con la volontà stessa del trio.

La band

C’è un nesso forte, e quasi chiarificatore della natura dell’intera opera, tra l’iniziale difficoltà di approccio di “Höllenzwang” degli Abigor e quella della deliberatamente incomprensibile, ai più e meno inclini, paternità degli incantesimi contenuti nella raccolta faustiana. Musica testardamente tronfia nel suo carattere elitario e di medieval retaggio antiegualitario.
La sfida è questa volta riportare le chitarre, in un certo modo persino la semplicità stilistica, al centro delle composizioni che si fanno sotto diversi punti di vista, effettivamente, ad un primo approccio, apparentemente più semplificate rispetto a quelle che comparivano nello schizzato “Leytmotif Luzifer” o nell’elegante apparizione collaborativa dello scorso anno, tuttavia capaci di risplendere per ricchezza di dettagli, rifiniture e reale complessità sotto una coltre nera di produzione così definita da sfiorare l’assurdo per efficacia e tagliente resa. Le partiture respirano, incanalano il vuoto di spazi indispensabili tra frequenze per restituire una fedeltà impressionante – siano le parti vocali dall’orrorifico valore teatrale dell’ormai immancabile Silenius, il batterismo sempre notevolmente tecnico ed eclettico di TT o i ricami del basso (centrale) sotto allo schizofrenico imperversare di maligni giochi chitarristici (alle estreme conseguenze in manifestazioni come “Sword Of Silence” e soprattutto la frenetica coppia “None Before Him” / “Hymn To The Flaming Void”).
L’amalgama è di gusto armonico fenomenale e -nonostante l’assoluta brevità di ogni pezzo- la forma canzone è ancora una volta allontanata con febbrile e pestifera volontà a favore di composizioni dall’assoluto valore di imprevedibilità per passaggi e rifulgenza ritmica. In questo senso, l’opener “All Hail Darkness And Evil” con la sua breve complessità ne è già esempio più che evidente.
Il nero grandeur di “Höllenzwang (Chronicles Of Perdition)” necessita infatti di essere adeguatamente decifrato prima d’irradiarsi con tutta la sua forza, nonostante uno dei punti di migliore riuscita del platter sia proprio quello di presentare un cantato, dal pulpito della sua narrazione estemporaneamente dantesca, così affascinante e accattivante da acchiappare l’ascoltatore nella sua rete già dai primissimi ascolti (se non altro per genuino interesse, o per l’immediato hook melodico che fornisce la maestosità dei cori in “The Cold Breath Of Satan” e del refrain con annessa mefistofelica coda della conclusiva “Ancient Fog Of Evil”). Ma il vaso di Pandora è ancora tutto da scoperchiare, il suo alito freddo deve ancora riversarsi nella sua mefiticità. Repentini cambi di tempo, nervosi costellano l’intera opera e tutte le sue madrigali (spesso sezionate in ben distinguibili parti mai ripetute nonostante la brevità, come non nel solo caso dell’opener citata, ma anche in “Our Lord’s Arrival” e in “Christ’s Descent Into Hell” – dedicata per ispirazione del tema centrale a “In Absentia Christi” degli italiani Monumentum). Se, giunti a leggere fin qui, il pensiero condensatosi è però quello di una banale inversione di tendenza, è bene smentire subito: dopo l’avanguardia dei precedenti capitoli discografici elargiti negli ultimi dieci anni (dalla riformazione, per intenderci), “Höllenzwang” si presenta per l’ascoltatore più attento tutto tranne che un disco old-school o in cui il ritorno alle origini è nella pratica nostalgia. Piuttosto, chi scrive è incline a parlare di vera ed essenziale rivoluzione estetico-poetica per un linguaggio che fa, o dovrebbe fare, del mutaformismo parte fondamentale del suo ultimatum esistenziale.

In conclusione, gli Abigor trovano il modo per cambiare pelle per l’ennesima volta, sorprendendo per totale imprevedibilità d’intenti creativi, guardando da veri rivoltosi ad un passato remoto per creare il proprio futuro, raccogliendo nove inni in altrettante invocazioni infernali interamente dedicate al demonio e al demonio soltanto, finendo per sigillarne visivamente l’atmosfera minacciosa e sinistra con altrettanta originalità in un più che suggestivo fotogramma tratto dalla pellicola di “Dante’s Inferno” (di Harry Lachman, versione del 1935, traduzione italiana in “La Nave Di Satana”).
Poiché in fondo è solo la nostra percezione del mondo a parlare tramite contrappassi e rispettive sembianze, e quella degli Abigor è la fiamma della ribellione più pervicace. Forse mai come in questo caso totalmente incurante di mode, trend e quant’altro. Ma del resto questo sono sempre stati PK e TT nell’atto di creare: veri artisti.

“Gli antichi dèi, nelle epoche successive, sono divenuti di priorità del maligno. Persino gli abitatori dell’Olimpo sono mutati in demoni; e Odino, Thor, loro volta, in Belzebù in persona. Prometeo, Lucifero! Il portatore della luce, degenerato in Satana. E se le cose stanno in questo modo -Dio mi perdoni- è possibile che Cristo venga anche lui ad assumere sembianze infernali? Perché egli uccide le virtù, il valore, l’amore, la pietà, la gloria e ogni istinto più puro.” (August Strindberg, “Inferno”)

Matteo “Theo” Damiani

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