A Forest Of Stars – “Grave Mounds And Grave Mistakes” (2018)

Artist: A Forest Of Stars
Title: Grave Mounds And Grave Mistakes
Label: Prophecy Productions
Year: 2018
Genre: Avantgarde/Folk Black Metal
Country: Inghilterra

Tracklist:
1. “Persistence Is All”
2. “Precipice Pirouette”
3. “Tombward Bound”
4. “Premature Invocation”
5. “Children Of The Night Soil”
6. “Taken By The Sea”
7. “Scripturally Transmitted Disease”
8. “Decomposing Deity Dancehall”

Un antico proverbio italiano dice, parafrasandolo, che una volta sotterrati siamo tutti uguali. Quantomeno, in breve tempo trascorso in compagnia di vermiformi di varia specie, lo diventiamo senza troppi complimenti.
Una volta che la partita è portata a conclusione, sia il più nobile dei re che il più infame dei pedoni finiscono riposti nella stessa scatoletta; che poi questa sia di legno pregiato o meno verrà in ogni caso presto o tardi ricoperta di terriccio umido e in poco tempo di sterili sterpaglie.
Da qui, dall’eloquenza di questo proverbio apparentemente tanto semplice quanto ricco di spunti contemplativi, sembrano essere partiti (in realtà per stessa e non velata ammissione) gli inglesi A Forest Of Stars alle prese con la fine creazione, del tutto concettuale, di un lavoro di altissima caratura quale è “Grave Mounds And Grave Mistakes”.

Il logo della band

Il passaggio alla fiducia della rinomata Prophecy Productions (a curatela dell’ala più estremamente sperimentale Lupus Lounge, per l’esattezza) era avvenuto nel 2012 all’uscita del loro terzo lavoro, “A Shadowplay For Yesterdays”, ma anche una volta giunti all’uscita dell’insoddisfacente successore “Beware The Sword You Cannot See” (complice in negativo l’eccessiva esiguità del minutaggio dei brani e le relative implicazioni in un approccio così ricco e letteralmente artistico) i nostri non si erano dimostrati pienamente in grado di far confluire l’importanza delle loro influenze, della loro grande classe, delle intuizioni e dell’interiore mondo dalla variegatura avanguardistica e delicatamente psichedelica, in un risultato coeso e totalmente accattivante.
In più di un senso, anche se con un bel po’ d’anticipo, Prophecy sembra tuttavia averci visto tremendamente giusto e aver vinto la scommessa: “Grave Mounds And Grave Mistakes”, per una serie grandiosa di versi, ribalta enorme parte dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli A Forest Of Stars, sempre ad un soffio dallo scrivere un ottimo disco in quanto dotati di evidenti ed interessanti capacità e gusto, portandoli a rilasciare con il loro quinto album la sublimazione di un’estetica e la rifinitura del decadente approccio e mondo del 7-piece britannico.

La band

Si accennava in apertura all’ineluttabilità che, agitata come lene ma indomito vessillo, con la sua assurdità inestricabile fa da sfondo omnicomprensivo e latente all’elucubrazioni in musica, dal pauperistico feeling vittoriano, che ammantano di morte i nuovi otto atti plasmati dai gentiluomini geograficamente basati a Leeds. La locazione areale non è fattore del tutto circostanziale per gli A Forest Of Stars, la cui proposta si svela più che mai smaccatamente britannica (ed in particolare inglese) per suggestioni e sentori (evidenti le vene folkloristiche e progressive pregne di quella storia musicale che ha inorgoglito la nazione negli anni, tradite senza rammarico a partire dall’introduzione “Persistence Is All”), ma anche per l’estrema eleganza con cui vengono create le difficoltose composizioni e per l’accennato cronotopo della tela vittoriana su cui l’interezza del lavoro egregiamente dipinge immagini cangianti; non ultimo, in realtà, per l’approccio stesso del Black Metal dei nostri (più punto d’arrivo che non di partenza) ed il modo in cui è dilatato senza ricorrere a continue reiterazioni. “Precipice Pirouette” lo svela immediatamente (similmente alla conclusiva “Decomposing Deity Dancehall” che lo riconferma in una piacevole chiusura a busta) nel suo già notevole picco di oltre dieci minuti in cui la teatralità e la tecnica narrativa raffinata hanno per l’appunto più a che vedere con il Folk d’autore, non solo per la presenza di violino e flauto bensì fin dalla struttura per costruzioni ritmiche, mischiato alla peculiare tecnica a pathos in addizione dei Primordial. Da brividi a tal proposito il paio di riprese affidate alle grinfie magniloquenti di sintetizzatori e tastiere in un maremoto dialogico con le onde acustiche del violino della ex-My Dying Bride Katheryne, che si riveleranno in breve chiave di volta per tutto il disco.
Punto focale del lavoro è però l’allibente prestazione vocale di Mr. Curse, autore come se ciò non bastasse dell’intero castello letterario verso il basso delle liriche (fatta esclusione, non tematica, per l’intimismo di “Taken By The Sea” che anche musicalmente risulta interludio tutto a sé): moderniste, caotiche, eppure ricche d’intelligenza, sarcasmo, brillantezza e coinvolgimento in perfetto bilico tra pancia ed intelletto. Joyce è richiamato per il torrente di coscienza in piena che i pensieri del nostro arricchiscono, Shakespeare per quel sarcasmo nero e nobile che getta colpi di tosse e risate amare su pentagramma già vittorioso di per sé (merito quasi esclusivo del triplete chitarra e sezione ritmica che rispondono ai nomi di Wight-Barrow, Gentleman e Kettelburner).
È l’Io poetico tuttavia a parlare, senza filtri e senza punti di vista che non siano quelli della personalità più esclusiva: i bordi di genere sono travalicati con facilità dal Black Metal interrotto e labirintico degli A Forest Of Stars in ognuno dei sei effettivi lunghi pezzi dalla siffatta natura, abbandonati fra le braccia dell’avanguardia in musica (“Tombward Bound” per l’assenza totale di regole, ma “Premature Invocation” non vuole essere da meno e vi sintetizza anche gustosi passaggi elettronici), andazzo autenticamente Progressive e folklore psichedelico dal rassicurante calore in netto contrasto con l’atmosfera ricca di panico e fredda apprensione emotiva di episodi come “Scripturally Transmitted Disease” (capitolo primo di una doppietta conclusiva a dir poco clamorosa) e dell’ultraviolenza di “Children Of The Night Soil” – che segnano anche i momenti più estremi (ma non meno sperimentali) dell’album, in cui le vocals del mattatore, sempre più strazianti e lucidamente ansiogene, diventano un vero rollercoaster viscerale insieme agli strappi del violino che s’innestano nel muro eretto dalla grande scrittura e prestazione di ogni musicista coinvolto.

Gli A Forest Of Stars in “Grave Mounds And Grave Mistakes” hanno dunque voluto realizzare un’opera lontana dai cliché, che rigetta analisi ed inquadramenti rivelandosi più ricca, piacevolmente complessa, fortemente originale e fondamentalmente diversa ad ogni ascolto – da viversi, come in un teatro dell’assurdo, come i un circo ricolmo di ricercati paradossi, solo e soltanto nella continua attesa della seriore sorpresa che attende durante ognuno degli otto capitoli all’insegna della caduta verso il basso, dell’ultima camminata verso la forca e la fine.
“Grave Mounds And Grave Mistakes” è a suo speciale modo un disco dalla duale ma non retorica crudeltà tragica: accettare con amara rassegnazione (e non senza la classe di un sorriso velato) la sconfitta annunciata nella forma di quel cadavere in lenta decomposizione che chiamiamo vita, o afferrarla – se non altro per il semplice fatto che, in ogni caso contrario, ci pentiremmo per il solo fatto di non averne approfittato quando ormai non più possibile? Apprezzare il circo della vita o bollarlo come una festa peggiore del sonno eterno? Sogni: pesi morti? Cibo per la mente o cibo per vermi?
“Grave Mounds And Grave Mistakes” non fornirà risposte a questi od altri quesiti. Invero, “Grave Mounds And Grave Mistakes” di risposte non ne donerà affatto; piuttosto vi regalerà sornione un magnifico viaggio di oltre un’ora sulle ali delle più agrodolci riflessioni incastonate in musica intelligente, coraggiosa, a più d’un tratto geniale, che sconfigge con arguzia, minuzia e capacità ogni classificazione, ogni domanda con l’accettazione della condizione mortale che -come forse nient’altro- può donare calma e il più paradossale ma sincero dei benesseri.

Matteo “Theo” Damiani

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